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Il Kosovo unisce la Serbia

22.03.2004    Da Belgrado, scrive Željko Cvijanović

Per la prima volta Belgrado è appoggiata dalla comunità internazionale per il suo comportamento nei riguardi del Kosovo e, dal 1999, ora più che mai coltiva con ottimismo l'idea che la provincia non divenga uno stato indipendente
Manifestazione a Belgrado


Le positive reazioni dall’estero sull’astensione di Belgrado dalle violenze in reazione all’attacco di massa di Albanesi armati sui Serbi kosovari hanno creato un certo tipo di moderato ottimismo dovuto al fatto che sarà comunque possibile mantenere almeno una parte della provincia sotto la bandiera della Serbia.

Benché il nuovo governo della Serbia con in testa il nazionalista moderato Vojislav Koštunica si è trovata in forte preoccupazione quando il 17 marzo sono iniziati gli attacchi contro i Serbi kosovari, è riuscita molto velocemente a sfruttare a suo vantaggio la crisi.

Da un lato Belgrado è riuscita ad impedire la radicalizzazione della situazione politica, nonostante che il giorno in cui sono iniziate le uccisioni e l’espulsione dei serbi kosovari sia stata minacciata dal grande pericolo che le dimostrazioni di massa in Serbia sfociassero in un banchetto nazionalistico.

Quel giorno, invece, i dimostranti in segno di vendetta per quello che era successo ai Serbi hanno incendiato le moschee di Niš e di Belgrado, per poi tentare il giorno successivo di attaccare l’ambasciata albanese e americana nella capitale serba.

Ma il governo è riuscito velocemente a mettere sotto controllo le proteste, e ciò grazie ai circoli nazionalisti all’interno della chiesa, e persino a quelli dell’opposizione ultranazionalista del Partito radicale serbo, SRS.

Perché il metropolita della Chiesa serba ortodossa Amfilohije Radović, noto per le sue posizioni nazionaliste, ha tentato nella notte in cui è stata incendiata la moschea di Belgrado, di mettersi di fronte ai dimostranti per fermarli.

Non ce l’ha fatta, ma questa dimostrazione della chiesa ha aiutato a stimolare una significativa reazione della gente, la quale ha condannato l’incendio e la vendetta.

L’incendio è stato condannato persino dal SRS, noto per le sue posizioni di nazionalismo radicale, il quale, benché ne abbia avuto l’occasione, non ha tentato, in quella notte critica in cui il governo era minacciato di cadere, di trasformare le dimostrazioni in una protesta di massa contro il governo.

Davanti ai tragici avvenimenti in Kosovo il governo è riuscito ad unire i partiti serbi, in particolare perché il 18 marzo si è impegnato per la ricerca di un consenso su questa questione.

Il consenso è stato raggiunto sulla tesi che la Serbia non risponda con la violenza in Kosovo, benché proposte di questo tipo ci siano state, sul fatto che la minacciata popolazione serba della provincia venga difesa con una forte azione diplomatica.

Nonostante nei quattro giorni di attacchi siano stati uccisi una ventina di serbi – minoranza in una provincia che dalla guerra serbo-albanese del 1999 si trova sotto protettorato internazionale – nonostante circa 4.000 persone siano state cacciate dalle loro abitazioni, l’azione serba ha dato dei risultati nelle metropoli occidentali.

Questo perché la comunità internazionale ha impedito con l’aumento della presenza militare che il pogrom contro i Serbi venisse condotto fino alla fine e ha condannato i leader albanesi considerandoli coscientemente responsabili per la nuova escalation della crisi kosovara.

La vittoria della diplomazia serba è misurabile dal fatto che la comunità internazionale per la prima volta nei conflitti tra Belgrado e Pristina si è è schierata chiaramente dalla parte di Belgrado, per essersi astenuta dalla violenza.

Questo, secondo le opinioni sempre più sostenute dagli analisti occidentali, ha aperto la porta alla divisione etnica del Kosovo, benché fino ad ora tra le soluzioni per questa provincia la più accreditata fosse l’indipendenza statale di Pristina, alla quale Belgrado si era opposta.

Perché, la comunità internazionale ha formulato la sua strategia sul Kosovo in una frase: prima gli standard e poi lo status, il che significava rimandare la soluzione finale dello status del Kosovo presupponendo la formazione delle istituzioni della provincia e la difesa della minoranza serba, la quale dalla guerra del 1999 è stata sotto constante attacco degli Albanesi.

Secondo questa strategia, si è creduto che i leader Albanesi in Kosovo dovessero garantire gli standard per una sicura esistenza della minoranza serba e il ritorno dei profughi serbi, espulsi nel 1999.

Dopo di che si credeva che gli Albanesi potessero prendere in considerazione l’indipendenza della provincia.

A ciò si sono apertamente opposti l’allora premier serbo Zoran Ðinđić, nel gennaio del 2003, due mesi prima della sua morte, e più tardi il suo successore Koštunica.

Dopo aver assunto la carica di premier il mese scorso, Koštunica si è impegnato per la cantonalizzazione del Kosovo, ossia la formazione di un’amministrazione serba e albanese all’interno della provincia sul modello della divisone interna della Bosnia ed Erzegovina.

Questa idea non ha incontrato comprensione all’interno della comunità internazionale, la quale considera l’idea della cantonalizzazione un’introduzione della divisione etnica in Kosovo, il che contrasta con l’idea di una struttura multietnica della provincia.

Ma quest’ultima idea, dopo gli attacchi e il tentativo di pulizia etnica delle enclavi serbe del Kosovo, è stata criticata come il maggior insuccesso strategico della comunità internazionale in Kosovo.

Per via del fatto che i leader albanesi hanno dimostrato non solo di non essere in grado di creare una società multietnica, ma anche di essere particolarmente attivi nella sua distruzione. Le ex vittime del regime di Milošević si sono messe in mostra come i carnefici.

Tutto ciò, però, non significa che la Serbia abbia scelto per l’amministrazione di una parte del Kosovo, ma piuttosto che a ciò si è avvicinata.

D’altra parte, significa, però, che Belgrado, la quale si trovava in una pessima posizione diplomatica, sia riuscita a ripresentarsi al tavolo negoziale come un attivo interlocutore e come un elemento più cooperante rispetto ai leader degli Albanesi del Kosovo.

Gli analisti annunciano che nell’imminente futuro Belgrado si troverà di fronte a nuove prove concernenti la questione del Kosovo, soprattutto di fronte alla possibilità che venga minacciata la pace anche nei comuni del Sud della Serbia, dove vivono Serbi e Albanesi.

Se Belgrado riuscirà ad impedire i conflitti etnici in quei comuni, interrotti nel 2001, potrebbe far vedere al mondo di essere in grado di mantenere una comunità multietnica con gli Albanesi, mentre Priština non lo è.

La condotta del governo serbo, per la prima volta in cinque anni, ha portato un’ondata di moderato ottimismo tra i cittadini per via del fatto che, forse, il Kosovo non è perso del tutto.

Quanto sono nel giusto sarà mostrato dal successivo sviluppo degli eventi politici, ma se non dovessero essere almeno moderatamente favorevoli a Belgrado, il governo di Koštunica potrebbe trovarsi di fronte ad una difficile prova.

Perché allora si potrebbe mostrare che il governo ha dato delle false speranze ai cittadini della Serbia per quanto riguarda il Kosovo, solo per impedire l’escalation nazionalista in reazione alle violenti azioni degli Albanesi.

Da un lato il governo non riuscirebbe a sopravvivere ad una tale difficoltà, e dall’altro, probabilmente dovrebbe inclinarsi verso i nazionalisti radicali e i sostenitori dell’idea che l’unica giusta politica in Kosovo è la politica della forza.


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