Confermata la sentenza di primo grado nei confronti di Radislav Krstic, comandante delle forze serbo bosniache a Srebrenica: fu genocidio. La condanna del generale è stata tuttavia ridotta da 46 a 35 anni per non aver partecipato direttamente al massacro
Srebrenica, cadaveri identificati
“Genocidio è il nome giusto per il massacro di Srebrenica”. La apertura di prima pagina di questa mattina, su quattro colonne, del sarajevese Oslobodjenje, colpisce come un pugno nello stomaco. Genocidio, in Europa, era una parola che non veniva più utilizzata dal tempo della seconda guerra mondiale. I giudici del Tribunale Internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia, tuttavia, ieri non hanno avuto dubbi nel pronunciare la sentenza di appello nei confronti di Radislav Krstic. Era lui quello che comandava le truppe serbo bosniache a Srebrenica nel luglio del 1995. La Corte – ha dichiarato il giudice Theodor Meron – ha deciso all’unanimità. Quanto avvenuto a Srebrenica è stato un genocidio, non pulizia etnica, come avevano sostenuto i legali del generale.
La Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, adottata dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre del 1948, definisce il genocidio come “ciascuno degli atti commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale” (art. II).
Da quel giorno, questa espressione è divenuta parte del linguaggio corrente, a significare il male assoluto, l’orrore estremo delle stragi di popolazioni civili inermi. I suoi molteplici usi esprimono la necessità di ricorrere a un termine di portata universale per designare il fenomeno dell’annientamento di popolazioni civili, che nel XX secolo ha assunto proporzioni massicce. (v. Jacques Semelin, «Studiando il genocidio», Le Monde Diplomatique, Aprile ‘04)
La sentenza pronunciata ieri è considerata di valore storico, destinata a fare giurisprudenza e a condizionare il giudizio su casi simili. Fino a ieri, la nozione di genocidio veniva utilizzata per qualificare crimini commessi nei confronti di una popolazione intera (uomini, donne, bambini). Tra i 7.412 morti di Srebrenica (dati della Croce Rossa), 10.701 secondo le liste compilate dalle donne sopravvissute, non c’erano donne. Secondo i giudici quindi, anche i crimini commessi contro la sola popolazione maschile rientrano in questa fattispecie.
Dal punto di vista processuale, la sentenza segna un punto a favore della Procuratrice capo del Tribunale, Carla Del Ponte, che sostiene l’accusa di genocidio non solamente nei confronti di Ratko Mladic e Radovan Karadzic, i dirigenti serbo bosniaci responsabili per i fatti di Srebrenica rispettivamente dal punto di vista militare e politico, ma anche contro Slobodan Milosevic.
Dal punto di vista storico, su Srebrenica oggi sappiamo quasi tutto. Da quando due ufficiali serbo bosniaci, Momir Nikolic e Dragan Obrenovic, hanno deciso di rompere il silenzio e hanno cominciato a raccontare nel dettaglio ai giudici come migliaia di persone sono state uccise nei giorni tra l’11 e il 19 luglio e sepolte in fosse comuni, la macabra logistica del massacro è nota. I (pochi) sopravvissuti hanno testimoniato di fronte ai giudici come, feriti, si sono finti morti sui campi delle esecuzioni di massa approfittando poi per dileguarsi della stanchezza dei soldati, che per tutto il giorno avevano mitragliato i loro compagni. Altri, tra quelli che sono riusciti a sfondare le linee serbo bosniache e a raggiungere Tuzla attraverso i boschi, hanno raccontato la loro parte. La documentazione raccolta in questi anni nelle numerose inchieste ha completato il quadro.
Quello che resta da sapere su Srebrenica è la verità politica: perché le forze internazionali (caschi blu) presenti non hanno combattuto; perché la Nato non li ha sostenuti con i raid aerei; perché i quadri dell’esercito bosniaco (Armija BiH) che erano lì sono stati richiamati pochi giorni prima della caduta dell’enclave.
Per questo, però, non serve il Tribunale dell’Aja, né le inchieste del governo olandese o del parlamento francese. Non servirà neppure la Commissione del governo della Republika Srpska di Bosnia, la terza, il cui lento procedere ha causato nei giorni scorsi l’intervento dell’Alto Rappresentante Paddy Ashdown. Da loro ci si attende di sapere dove sono gli scomparsi.
Per capire perchè, servirebbe una ampia inchiesta internazionale, che facesse testimoniare (non a porte chiuse) l’allora inviato dell’Onu Akashi e il comandante dei caschi blu, Janvier, occorrerebbe la apertura degli archivi a Sarajevo, a Belgrado, a Bruxelles. Questo potrebbe spiegarci perché Srebrenica, un genocidio le cui responsabilità non sono solamente di Krstic e dei suoi mandanti.
Perché Srebrenica? Come altre stragi non rivendicate (il governo serbo bosniaco non ammette la responsabilità di quanto avvenuto), come le stragi che abbiamo conosciuto in Italia durante la strategia della tensione, il ragionamento sui mandanti può essere svolto solamente a partire dalle conseguenze. Nel caso di Srebrenica, questa sono state fondamentalmente due: la brutale affermazione, allo scadere della guerra, della vittoria dei nazionalisti; la umiliazione e sconfitta delle Nazioni Unite e in generale delle istanze multilaterali di gestione delle crisi. Da allora in poi, la affermazione che “la convivenza è impossibile” si è sempre più fatta largo anche nelle nostre società.
Dopo l’11 settembre, alla luce del disastro iracheno e della retorica sui mondi in conflitto, a proposito della guerra in Bosnia – e di Srebrenica in particolare - oggi si fa strada una ulteriore ipotesi: fu scontro di civiltà. La tesi è suggestiva. I Balcani hanno tradizionalmente svolto un ruolo anticipatore nei confronti di tensioni e conflitti che nel resto del Continente erano ancora sotterranei. Fu scontro, certo, ma le civiltà non c’entravano, come del resto neppure oggi. Le forze in campo erano diverse, con interessi contrapposti anche all’interno dei rispettivi campi.
Gli Stati Uniti, ad esempio, collaboravano allora all’addestramento dell’esercito bosniaco (dopo gli accordi di Washington del 1994), e chiudevano un occhio anche sui mujaheddini stranieri inquadrati nell’Armija. Nel 2001, alla inaugurazione del memoriale di Potocari per le vittime di Srebrenica, Bill Clinton fu uno dei pochi ospiti stranieri.
Ciò non toglie che, per una parte del mondo musulmano, Srebrenica abbia rappresentato la summa del cinismo e della indifferenza delle cancellerie occidentali nei loro confronti. Una delle rivendicazioni dell’attentato del 19 agosto scorso alla sede Onu, a Baghdad, accusava le Nazioni Unite proprio per il massacro di Srebrenica.