Rachele Nones sta terminando un’esperienza di cinque mesi in Albania dove segue un progetto del Comune di Modena. Un suo punto di vista su Scutari.
Scutari, centro storico
Sono tornata in Albania da due settimane dopo un mese di vacanza in Italia. Vivo nel nord di questo paese, a Scutari, città dove si incontrano due fiumi che si mescolano dolcemente in un lago maestoso a pochi chilometri dal mare e circondata da bassi monti aspri e quasi privi di vegetazione. Così viene presentata Shkodra dagli albanesi: un gioiello di rara bellezza, possibile attrazione turistica e memoria storica e simbolo dell’Albania.
In realtà Scutari sono poche strade che costituiscono il centro della città, di cui una parte è assolutamente meravigliosa fatta di piccole vie e muri bassi in pietra, ed una periferia ampia, in continua crescita, degradata ed annichilente per il mio occhio trentino.
Vivo qui da aprile ed ancora non sono riuscita a digerire la città, a metabolizzarla e leggerla con distacco, ma ogni giorno sona rapita e frastornata da troppe sensazioni, da scorci sorprendenti, da situazioni che estorcono un coinvolgimento emotivo troppo violento per essere incasellato la sera stessa. È una città “umana”, come il resto di questo paese, nel senso che non si lascia guardare con l’occhio, ma pretende di essere compresa con tutti i sensi dell’ossevatore scioccato.
Scutari è fatta di rumori di generatori che mandano avanti le attività quotidiane, di macchine che superano carretti trainati da cavalli che a loro volta superano la gente che cammina in mezzo alla strada; è fatta dei colori dei numerosi mercati in cui si trova qualsiasi cosa a condizione che non sia prodotta in Albania (va da sé che in questo paese, come in numerosi paesi in via di sviluppo, ogni cosa è importata e la produzione interna è completamente bloccata). È fatta di corpi in movimento la mattina e di immobilismo nelle ore pomeridiane, di marciapiedi rotti, di strade devastate, di cumuli di immondizia negli angoli, di palazzi maestosi che guardano all’occidente e lo imitano.
Scutari, come tutta l’Albania, è un non luogo a cavallo tra un passato ancora presente fatto di povertà estrema, tradizioni per noi incompresibili ed aberranti, ed un futuro che viene invocato a gran voce fatto di modernità senza filtri.
Senza filtri…qui non si cerca di capire la democrazia occidentale, le nostre strutture burocratiche, il nostro grado di sviluppo, qui si cerca di applicarli, o meglio copiarli senza filtri.
Questo è il luogo dei paradossi. Camminando per la strada si incrociano donne con il costume tipico delle montagne che governano il loro carretto e che vanno a vendere i prodotti del proprio orto, ché chiamarlo campo è eccessivo, accanto a giovani vestiti in maniera impeccabile e alla moda, quasi fossimo in centro a Milano, corredati di qualsiasi gadget tecnologico produca suoni assordanti. Si incrociano vecchietti che aggiustano accendini e ragazze in minigonna e scarpe con tacco color pastello, bimbi rom sdruciti chiedono “Nje qind lekë” mentre costosi modelli di Mercedes Benz, rigorosamente Mercedes Benz!, li evitano sfrecciando sulle strade. Le bancarelle del mercato Sdrhale (sporcizia, in albanese) sorgono ai piedi di palazzi con vetrate a specchi, ascensori e negozi che espongono l’occidente in vetrina. Qui sono ovunque ed in nessun posto, in un luogo che cambia e lo sta facendo in maniera rapida e caotica.
Sono tornata a Scutari dopo un mese in Italia e ad attendermi c’era un nuovo fermento e grandi cambiamenti. Camminando per le strade, nei miei giri di ricognizione, finalmente posso poggiare i piedi su tratti interi di marciapiedi ricostrutiti, gli occhi si posano su nuovi palazzi eretti velocemente sotto i 40° dell’esatate scutarina e nuove vetrine attirano la mia attenzione italiana…
Scutari come Tirana, anche qui si riparte, si inizia a ricostruire la città demolendo i segni più evidenti della precarietà post comunista: sono stati rasi al suolo le baracche dei venditori di chincaglierie, i garages che fungevano da negozi. Si inizia dall’estetica della città colorando i palazzi mastodontici come Edi Rama ha fatto con la zona del block comunista nella capitale.
Si comincia dall’estetica ed ho come l’impressione che la forza innovatrice si esaurisca in questo rapido tentativo, come se la vernice fosse una maschera che va a nascondere le difficoltà che richiede la ricostruzione di questo paese, la maturazione del processo di transizione e l’elaborazione di un concreto concetto di democrazia che tuttora sfugge all’Albania. È un’impressione, sarà forse che credo poco nel potere dell’estetica…
Rachele Nones
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Su e giù per l'Albania: tre itinerari