Un film si propone di ricordare chi nelle guerre balcaniche ha aiutato il "nemico", a prescindere dalle barriere etnico-religiose. Ma il progetto, coordinato dalla “Nansen Dialogue”, è fermo per un motivo paradossale: nessuno vuole parlare apertamente di episodi di solidarietà. La gente, spiega il produttore Srdjan Antic, ha paura della reazione del proprio gruppo
Visoki Decani (Kosovo): Srdjan Antic (sinistra), e il monaco Andrej
L’iniziativa di girare un film simile a Schindler’s list, sui “giusti” che hanno operato durante le guerre nei Balcani, nelle zone dove si sono verificati numerosi crimini di guerra, in Croazia, Bosnia Erzegovina e Kosovo, ha incontrato un ostacolo insormontabile. Non mancano gli esempi di persone che hanno aiutato i propri vicini, conoscenti o semplicemente le persone oppresse, indipendentemente dalla loro appartenenza nazionale. Il problema è che questi benefattori hanno paura a parlare pubblicamente delle loro azioni.
E’ questa la conclusione del gruppo di film-makers che si è raccolto intorno alla organizzazione non governativa “Nansen Dialogue”, a Osijek, che voleva produrre un documentario di un’ora per mostrare che durante le guerre nei Balcani erano avvenuti non solamente crimini e atrocità, ma anche azioni generose. La opinione dominante e contraria, tuttavia, è che l’eroe di guerra è quello che ha ammazzato, non quello che ha salvato qualcun altro, e questo impedisce ai benefattori di raccontare quello che hanno fatto, per la paura di essere bollati come traditori nazionali.
“Siamo rimasti costernati di fronte all’atteggiamento di persone che, lontano dai microfoni, parlavano di tutte le azioni umanitarie che avevano fatto durante la guerra, mettendo frequentemente a rischio la propria vita per salvare quella di qualcun altro, ma che poi chiedevano di apparire nel film senza che venissero menzionati i loro nomi, e con la propria immagine sfocata al punto da essere resa irriconoscibile” – mi dice Srdjan Antic, coordinatore del progetto “Storie non raccontate”, il titolo provvisorio del film.
Malgrado le ricerche fatte prima delle riprese avessero scoperto molti veri e propri eroi della guerra, neppure il 5% di questi erano disponibili a parlare pubblicamente delle proprie esperienze. Uno Schindler’s list dei Balcani, quindi, dovrà aspettare ancora a lungo prima di poter essere girato. Perché questo possa avvenire, sarà necessario un clima sociale completamente differente, di modo che quelli che hanno commesso buone azioni non si sentano minacciati dal giudizio dei propri compatrioti, che li considerano criminali di guerra per il fatto di aver aiutato Serbi, Croati, Bosniaci o Albanesi mentre gli altri combattevano contro di loro.
“La resistenza è più forte nelle aree dove le ferite del conflitto sono più recenti”, sottolinea ancora il coordinatore del progetto cinematografico, Srdjan Antic. “In questi luoghi la gente ha ancora paura anche solo a parlare apertamente di queste cose. Il problema è che in molte zone i leader provengono dalle stesse forze nazionalistiche che erano al potere durante la guerra, e che continuano a governare con una retorica solo leggermente modificata. Nei posti piccoli la gente fa ancora attenzione a quello che dice, per non entrare in conflitto con i valori proclamati pubblicamente, che considerano un eroe chi ha ammazzato e non chi ha aiutato l’altro durante la guerra.”
Secondo Antic non era possibile accogliere le richieste fatte dai benefattori di guerra, cioè parlare delle proprie azioni utilizzando solamente le proprie iniziali, cambiando le voci e mascherando l’immagine, dato che questo era in contraddizione con la premessa principale del film, cioè quella di promuovere, e non di nascondere, tali persone. “Vorremmo presentare degli eroi positivi, personalità le cui storie dovrebbero costruire la vita dopo le guerre. Eppure, la resistenza delle persone nel parlare apertamente ci ha impedito di registrare più storie, dal momento che abbiamo dovuto prendere in considerazione la loro paura”, dice Antic.
“Un comportamento tale da parte della gente, che parla del bene solo con riluttanza, è causato dal fatto che quelli che hanno commesso dei crimini sono ancora in libertà, vivono intorno a noi”, dichiara una nota psicologa di Zagabria, la dr.ssa Mirjana Krizmanic, cercando di spiegare il fatto paradossale che la gente si vergogna per le buone azioni. “Diranno: come hai potuto fare una cosa simile! Così, fino a quando quelli che hanno ucciso, violentato, rubato e saccheggiato saranno tra di noi, godendosi la propria libertà, come possono quelli che hanno aiutato gli altri raccontare quello che hanno fatto? Per la paura, dato che hanno paura di tali persone, devono nascondere le proprie buone azioni. Ma questa è una catastrofe per la società. La società infatti dovrebbe richiamare l’attenzione di tutti su di queste persone e costruire il proprio futuro su di loro.”
Tra i molti esempi che non potranno essere mostrati nel film c’è il fatto, successo a Vukovar, di un Serbo ucciso mentre cercava di spegnere l’incendio che era stato appiccato alla casa di un suo vicino Croato. Il concetto del film richiede che ogni storia sia raccontata da due punti di vista, quello della persone che ha commesso l’azione e quello che ne ha beneficiato. Malgrado la famiglia del Serbo che era morto mentre cercava di spegnere le fiamme era disponibile a raccontare, l’altra parte non voleva farlo.
Ci sono state, peraltro, anche persone che erano pronte ad apparire di fronte alle telecamere. Nel monastero di Visoki Decani, in Kosovo, durante la guerra e l’intervento dell’esercito jugoslavo contro l’esercito dei Kosovaro Albanesi, un gruppo di Albanesi provenienti dalla vicina Decani ha chiesto rifugio in questo monastero serbo. In un momento di conflitti sanguinari, quando il potere in questo territorio era stato assunto dall’esercito jugoslavo e dalle formazioni paramilitari, questo gruppo di Kosovaro Albanesi si sentiva minacciato. I monaci li hanno accolti e protetti, fornendogli cibo. Entrambe le parti – quella serba e quella albanese – hanno confermato che la storia era vera.
Anche alcuni ex soldati dell’esercito della Bosnia Erzegovina a Mostar hanno voluto raccontare una emozionante storia di guerra. Nel pieno del conflitto con le forze dell’esercito croato, rischiando le proprie vite, avevano raccolto dal campo minato un giovane disperso gravemente ferito. Mentre era ancora cosciente, l’uomo ha detto ai soldati come si chiamava, rivelando così la sua nazionalità croata. I soldati bosniaci lo hanno portato via dal campo minato e condotto in ospedale, dove hanno donato il proprio sangue chiedendo anche attraverso una radio locale ad altri donatori di fare lo stesso.
“La gente ha paura del proprio gruppo etnico”, così Antic spiega gli ostacoli che forse impediranno al film “Storie non raccontate” di comprendere racconti che rappresentino gli esempi più evidenti di umanità e di buone azioni avvenute durante le sanguinose guerre nel territorio della ex Jugoslavia. “Parlare in termini positivi dell’altra parte oggi continua ad essere difficile, perché le persone hanno paura di essere considerati traditori e cattivi rappresentanti della propria nazione. La situazione è esattamente identica in Croazia, Bosnia Erzegovina e Kosovo”, conclude Antic.