Da Tuzla a Srebrenica passando per Potocari. Un viaggio nella memoria, per ricordare la strage del luglio ‘95 a pochi mesi dall’anniversario del decennale, cercando di capire il presente di una città simbolo per la Bosnia Erzegovina e per l’Europa
Memoriale di Potocari (foto L. Zanoni)
Srebrenica, Bosnia Erzegovina orientale, poco più in là scorre la Drina, naturale linea di confine con la Serbia. Tra il '93 e il '95 area protetta dall'ONU. Enclave musulmana nel territorio conquistato dall'esercito serbo-bosniaco. Luogo di raccolta di decine di migliaia di profughi evacuati dalle zone limitrofe. Caduta nelle mani dell'esercito serbo-bosniaco l'11luglio del 1995, la storia la ricorderà come uno dei peggiori e vergognosi crimini in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. La Republika Srpska, una delle due entità della Bosnia Erzegovina, solo da poco ha riconosciuto l'uccisione di 7.800 vittime, mentre le associazioni per gli scomparsi e le famiglie delle vittime di Srebrenica affermano che sono oltre 10.000.
Le donne di Srebrenica
Per conoscere Srebrenica oggi occorre prima fare tappa a Tuzla. Una città industriale di medie dimensioni. Fabbriche ed enormi centrali elettriche ai bordi della statale che porta dritto in città. Fino a prima della guerra degli anni novanta Tuzla era tra i maggiori fornitori di sale della ex Jugoslavia.
Qui, a circa 3 ore di auto da Srebrenica, abita la maggior parte delle donne sopravvissute al massacro. L'11 luglio del 1995 l'allora enclave di Srebrenica cadeva in mano alle forze serbo-bosniache, le quali fecero una carneficina. Srebrenica è il primo crimine qualificato come genocidio da un tribunale internazionale dopo l’Olocausto.
A parlare oggi sono le vedove delle migliaia di uomini uccisi, le “Donne di Srebrenica”, che è anche il nome dell’associazione con sede a Tuzla che per tutto questo tempo non ha mai mancato di organizzare la cerimonia di commemorazione. Da quasi dieci anni, ogni 11 del mese le donne di Srebrenica si ritrovano per commemorare quella data e per ricordare al mondo che ancora sono in attesa di sapere che fine hanno fatto i loro cari.
“Questo è il giorno più triste e noi ci ritroviamo qui ogni 11 del mese per testimoniare e per ricordare i nostri scomparsi” - racconta Nura attivista dell'organizzazione “Donne di Srebrenica. Figli, fratelli, mariti, che non sono mai tornati. I cui corpi non sono ancora stati trovati o non sono stati identificati.
Tuzla - Le donne di Srebrenica celebrano il giorno 11
Ogni mese, dallo spazio chiamato “Pinga”, sfila un corteo di donne, collegate tra di loro da una simbolica catena di pezzi di stoffa colorata. Su ogni fazzoletto sventola il nome di una persona scomparsa, anno e luogo di nascita: Adil 1974, Ibrahim 1976, Kemal 1973, Mujo 1966, Mehmed 1938... L'interminabile catena di nomi si avvia lungo la statale che attraversa la città e termina vicino alla moschea, nella piazza che tutti conoscono come la “Fontana” (Cesma). Qui le donne si raccolgono in cerchio, pregano con i palmi delle mani rivolti verso il cielo. Poi il cerchio si scompone, la manifestazione è finita. Quasi tutte le partecipanti si riuniscono nella sede dell'Associazione delle donne di Srebrenica, due piccole stanze tappezzate di fotografie di gente che non ha fatto, e mai più farà, ritorno.
Tutt'oggi la loro è una vita di attesa, viva testimonianza del desiderio, quando non della necessità psicologica, di poter elaborare il lutto, di poter chiudere un capitolo del tragico passato. Ce lo spiega Irfanka Pasagic, psichiatra dell’Associazione Tuzlanska Amica, che dal 1992 lavora con le vittime della guerra e dei lager, in prevalenza donne e minorenni.
“In BiH ci sono circa un milione e mezzo di persone che soffrono di problemi psichici dovuti alla guerra, il cosiddetto PTSD (Posttraumatic Stress Disorder)…. Per poter fare in modo che le vittime metabolizzino il loro vissuto cerchiamo di trovare il modo di dialogare con loro, di far emergere quanto è accaduto, ma la difficoltà è enorme, soprattutto con le famiglie di Srebrenica. Non riusciremo a risolvere i loro traumi, finché l’esumazione e l’identificazione dei corpi non sarà effettuata”.
L'identificazione delle vittime
Del faticoso e imponente lavoro di identificazione degli scomparsi se ne occupa la Commissione internazionale per le persone scomparse (ICMP), che a Tuzla ha un suo laboratorio, dove vengono eseguite le analisi sui resti delle vittime di Srebrenica e che alla fine di un lungo processo di identificazione, coordinato con altri laboratori, stende il certificato di morte della persona trovata. Più ci si avvicina all'edificio, più l'odore intenso e dolciastro del carbone che riscalda le case, commisto a quello solforoso della fabbrica di sale, lascia il posto ad un puzzo acre, stomachevole. Il laboratorio ospita in una stanza di 250 mq, oltre 4.000 sacchi. Come spiega Zlatan Sabanovic, responsabile del progetto, in alto sulle scaffalature sono ben ordinati i sacchi di carta contenenti effetti personali, mentre più sotto in grossi sacchi bianchi sono contenuti i resti umani da analizzare.
Nel laboratorio dell'ICMP di Tuzla
Nella stanza accanto, un'antropologa canadese cerca a fatica di ricomporre i resti ossei di ciò che dovrebbe essere un corpo umano. Sparpaglia il sacco di ossa sul tavolo d'acciaio. L'odore delle ossa è umido e penetrante, fa venire la nausea. Con pazienza e dovizia la dottoressa Laura Yazedjian, come in un puzzle, cerca di ridare forma all'ammasso di resti umani, inanellando una ad una svariate ossa di colore brunastro.
Zlatan ci spiega molto dettagliatamente il lavoro che qui si svolge e i progressi in corso. “Questo progetto è iniziato nel 1997 ed era basato sul riconoscimento visivo delle vittime. Poi si è passati ad un tipo di identificazione cosiddetta del mitocondrio, che ci permetteva di risalire solo lungo l'asse ereditario materno. Ma questo sistema era limitato, dovevamo spedire i materiali in America o in Polonia e aspettare un anno per i risultati. Ora le analisi le possiamo fare molto velocemente e qui in Bosnia. Nel 2001 le identificazioni riuscite erano 52. Da quando si è passati all'esame del DNA il numero è sensibilmente aumentato. Già a partire dal 2002 il numero annuo delle identificazioni è aumentato di dieci volte. Quest'anno sono già state identificate 260 persone, che verranno sepolte nel memoriale di Potocari, a luglio, quando sarà celebrato il decennale della tragedia di Srebrenica”.
Potocari: il Memoriale e l'ex sede dei caschi blu dell'ONU
Potocari è una piccola frazione poco fuori Srebrenica. Ci sono ancora i resti del complesso industriale dove stazionavano i caschi blu dell'ONU. All'interno degli edifici i muri sono ricoperti di scritte lasciate dai soldati delle Nazioni Unite. In inglese, olandese, persino in bosniaco. Alcune mettono davvero a disagio: “No teeth? mustache? smell like shit? Bosnian girl!”, “My ass is like a 'local' it's got the same smell!”.
All'interno della fabbrica di accumulatori di Potocari
In un ampio salone all'interno della fabbrica di accumulatori compare ancora in bella vista una scritta in rosso a caratteri cubitali “Druze Tito mi ti se kunemo” (Giuriamo su di te compagno Tito), ormai nulla più che un segno della propaganda di altri tempi.
Una parte di questo edificio diroccato sarà adibita a museo dove saranno esposti anche i numerosi effetti personali che abbiamo visto al laboratorio di Tuzla.
Sul lato opposto della strada, un vasto memoriale sorge dove prima c'era un campo di grano. Qui furono massacrate centinaia di vittime innocenti. Il memoriale di Potocari è stato inaugurato ufficialmente il 20 settembre 2003, quando l’ex presidente USA Bill Clinton incontrò i membri delle associazioni che si occupano degli scomparsi. Oggi il memoriale ospita le salme di 1327 di persone, su un totale di circa 7.000 esumazioni, di resti umani, ossia quei sacchi che abbiamo visto al laboratorio di Tuzla.
Hanija, donna di Srebrenica, che ci ha accompagnato fin qua, intrattenendoci durante il viaggio con la sua ironia, ora si abbandona al racconto. Con la mano indica il luogo della tragedia, implora e scoppia in lacrime.
“Io ho perso due fratelli, un figlio e mio marito. Non mi hanno ancora detto se sono stati trovati o se sono stati identificati. Il mio desiderio maggiore, oggi, dopo tutto ciò che è successo, è di trovare i miei cari scomparsi e di seppellirli. Quello che vedete qui è stato fatto da Mladic, Karadzic, Milosevic e molti altri, che ancora oggi sono in libertà. Noi tutt'oggi ci sentiamo come vittime, la mia anima sarà in pace solo quando li vedrò in prigione. Come facciamo a riconciliarci con quelli che ci hanno ucciso i fratelli? Con quelli che ci hanno ucciso i genitori? Con quelli che mi hanno lasciata da sola? Con tutti questi non possiamo riconciliarci. Possiamo farlo con quelli che non hanno partecipato al crimine, con loro possiamo vivere insieme. Perché dobbiamo dimenticare tutto questo, perché dobbiamo vivere, i vivi devono vivere”.
Una città fantasma
Pochi chilometri e siamo a Srebrenica. Dieci anni dopo il massacro, davanti agli occhi si staglia una città fantasma, un enorme buco nero tra le montagne della Bosnia orientale. C’è poca gente per le strade e pochi negozi. Si avverte un forte senso di depressione. Srebrenica oggi è una città dimenticata, una città ostaggio, vittima essa stessa del proprio passato, di ciò che è stata e di ciò che ancora rappresenta. Con la guerra ha subito un vero collasso demografico, oggi vi abitano circa 10.000 persone, molto meno della metà di quelle che vi vivevano negli anni prima della guerra. Il 60% è di nazionalità serba mentre il 40% è di nazionalità bosniaco-musulmana.
Srebrenica - Edificio della Energoinvest
Siamo di fronte ad un vero esempio di urbanità ibernata. Guerra e devastazione sono tutt'oggi le note architettoniche più evidenti di uno dei simboli negativi della guerra nella ex Jugoslavia. Le case diroccate lungo la strada principale, gli edifici della piazza principale, l'
Energoinvest e la
Robna kuca, è come se fossero stati distrutti ieri l'altro. Stanno lì, sventrati e anneriti, a segnare una tetra consuetudine per gli abitanti di Srebrenica, testimoni immobili di una guerra che si stenta a credere sia terminata dieci anni fa. Solo la neve caduta di recente nasconde a fatica il degrado e lo stato di abbandono. Fanno eccezione in modo singolare i luoghi delle due maggiori istituzioni religiose, la chiesa ortodossa e la moschea bianca.
Ortodossi e musulmani
Zeljko Teofilovic parroco della chiesa ortodossa di Srebrenica, è piuttosto riluttante ad incontrarci, subito si difende dicendo che siamo pieni di pregiudizi e che vogliamo ascoltare una sola verità. “Niente telecamere né registratori, prima cerchiamo di conoscerci”, ci avverte. Dopo vari convenevoli e alcuni bicchieri di grappa fatta in casa, anche il pope di Srebrenica si apre al dialogo, ma non vuole parlare di politica né di come è Srebrenica oggi, per questo ci rimanda a chi è più competente di lui. Padre Teofilovic vuole parlare della sua chiesa, che durante la guerra era stata bruciata, distrutta e trasformata in stalla, di come è stata restaurata nel corso di 9 anni (1995-2004). Gli chiediamo cosa faranno per il decennale di Srebrenica, e lui ci spiega che la comunità ortodossa si ritroverà, come ogni anno, il 12 luglio, nel giorno dei Santi Pietro e Paolo, per commemorare le vittime serbe. Parla di 3.500 vittime tra il 1992 al 1995. Questa, secondo il pope, è l'altra verità su Srebrenica che nessuno vuole riconoscere.
Il numero delle vittime viene però drasticamente ridimensionato dal segretario dell'Organizzazione dei combattenti di Srebrenica, Milos Milovanovic. Incontrato subito dopo il pope ortodosso, Milovanovic parla di 2.500 morti e ci invita a visitare il cimitero militare di Bratunac, appena fuori Srebrenica, per poter verificare quanto sta dicendo. Milovanovic dice che “poco si parla dei serbi uccisi negli anni '92, '93 e '94, nelle zone di Srebrenica, Bratunac e Milic”. E aggiunge: “Anche oggi i Serbi sono danneggiati. Su quindici case ricostruite dei bosgnacchi se ne costruisce una sola per i serbi”.
Il nostro interlocutore sostiene che la commemorazione delle vittime che si terrà l'11 luglio di quest'anno ha un significato prettamente politico “i loro eventi sono di carattere politico, sono manipolati. Il numero delle vittime di Potocari è manipolato. Noi l'11 luglio avremo i preparativi, perché celebriamo il 12 luglio del 1992, quando furono uccisi i serbi, quando furono incendiati tre dei nostri villaggi, quando furono uccisi i nostri eroi”.
Non lontano dalla chiesa ortodossa c'è la moschea bianca e la casa del rappresentante della fede musulmana. L'imam di Srebrenica è qui da oltre un anno. Entriamo nel suo ufficio e gli chiediamo innanzitutto come e se collaborano con le altre comunità religiose. Ci spiega che collaborano senza problemi con la piccola comunità cattolica, forse meno di cento persone, che qui ha la sua cappella.
“Ma con la comunità ortodossa non collaboriamo concretamente. Ci sono idee, progetti di dialogo inter-religioso, se ne è parlato per oltre un mese, ma non è stato trovato un modo per far partire il progetto. L'obiettivo principale è quello di diminuire la tensione tra le due comunità”. “Noi siamo qui e siamo pronti a realizzare una vita comune con tutti, ma vorrei che ciò lo facessero pubblicamente anche i rappresentanti della fede ortodossa, che escano in pubblico e dicano che vogliono partecipare a questi progetti”.
“Fino alla guerra in città c'erano 5 moschee, e una ventina nella zona del comune di Srebrenica. Oggi ce ne è una sola in città, più un'altra in un villaggio qui vicino. Di 27.500 bosgnacchi che vivevano prima della guerra oggi ce ne sono circa 4.500, ecco questo è lo stato di Srebrenica oggi”.
Tornare a Srebrenica
Tornare oggi a Srebrenica è una scommessa, un punto di domanda. “Le difficoltà maggiori che ostacolano il ritorno riguardano la sicurezza e gli aspetti economici. Le ricchezze della Srebrenica prima della guerra, le fonti termali, le miniere di argento, d'oro, di bauxite e vari altri minerali, le fabbriche che un tempo impiegavano parecchie persone, sono bloccate, non c'è niente che funzioni, le chiavi di questo sviluppo, secondo il sindaco di Srebrenica sono in mano alla Republika Srpska. Allo stesso tempo viene spontaneo chiedere al sindaco Abdurahman Malkic che fine hanno fatto i finanziamenti su Srebrenica: “Molti parlano e dicono di voler aiutare, ma tutto questo non è sufficiente. C'è una differenza tra ciò che si dice e ciò che si fa in concreto”. La pensa diversamente l’UNDP di Srebrenica molti soldi sono finiti nelle infrastrutture, nella ricostruzione dei villaggi limitrofi.
Spesso i rientranti devono scegliere: o la campagna o la città. Non si possono avere entrambe le soluzioni. Vero è che chi sta in campagna, perlomeno ha del lavoro da sbrigare, può avere del bestiame da allevare. Mentre chi è in città è alla deriva. L'occupazione è una rarità, soprattutto per chi ritorna.
Ciononostante alcuni ce l'hanno fatta. Abdulah Purkovic, che tutti meglio conoscono come Dule, è stato uno dei primi a ritornare nel 2000, e in qualche modo si sente soddisfatto del suo albergo ristorante
Misirlije, poco fuori dal centro. “Come sempre all'inizio è stato molto difficile, ma ora va un po' meglio. Sono stato tra i primi a tornare, e non era per niente facile, molti erano dubbiosi sul rientro, mi dicevano che ero matto a tornare qui, ma ecco, come vedete ci sono riuscito”.
Dieci anni dopo, c'è ancora chi vive nei container
Oggi a Srebrenica i Serbi rappresentano la maggioranza, ma tra questa maggioranza ci sono anche le decine di profughi che vivono all'hotel Domavia, un vecchio edificio fessurato, dove al secondo e al terzo piano vivono i cosiddetti IDPs (Internally displaced persons), una trentina circa di famiglie. Altri profughi sono alloggiati nelle baracche di “Baratova”, sulla strada che entra in città, accanto al distributore di benzina. È povera gente, famiglie, anziani, bambini figli della guerra. Costretti in camere d'albergo i primi, abbarbicati nei container i secondi. La maggior parte di loro proviene dal comune di Sarajevo e da Gornji Vakuf.
Entriamo in un alloggio. Un'enorme forma di pane, tonda e profumata, appena tolta dal forno, è pronta sul ripiano della cucina. La disperazione di questa gente è pari alla loro ospitalità. Non esitano a raccontare la loro inquietante storia. Ciò che doveva essere un alloggio di fortuna, temporaneo, si è trasformato in un angusto monolocale in cui vive un'intera famiglia. Djurdjo Trifkovic, sua moglie e i due figli, profughi da 12 anni, hanno vagato in lungo e in largo per la Bosnia, da Vares a Sarajevo, poi a Potocari. Oggi abitano in una delle piccole stanze dell'Hotel Domavia. “Da quasi 3 anni siamo qui, lavoro in una falegnameria, i figli di 4 e 7 anni vanno a scuola, mentre mia moglie, diplomata in economia si occupa della 'casa' e dei bambini”, racconta Djurdjo.
Srebrenica - Campo profughi 'Baratova'
Tutti i rientranti temono, hanno paura, non si sentono sicuri, ma i profughi intrappolati a Srebrenica sentono ancora di più la miseria e l'aberrazione della loro situazione. Vasilije Draskic e sua moglie vivono da quasi un anno nelle baracche di Baratova, container TG4 di fabbricazione tedesca, corrosi e ingialliti dal tempo. Vasilije ha 78 anni, un uomo esile e tremolante, dorme sul divano della stanza, ricavata nel container. Si alza e ci viene incontro, subito si premura di farci notare il tetto fradicio dalle infiltrazioni. Gli spieghiamo che siamo giornalisti, che siamo venuti a documentare come vivono i profughi a Srebrenica. Allora estrae da un cassetto alcune carte, dei ritagli di giornale, tutto quanto possa documentare il suo passato. Al tempo di Tito era un agricoltore, premiato con la medaglia d'argento al lavoro, un eroe della patria socialista. Oggi lui e la moglie Pauna, vivono da soli con un aiuto sociale di 40 centesimi di euro al giorno.
Oggi questi profughi sono anche loro vittime. Vittime viventi di una politica malata, bloccati nella loro condizione di sfollati, fuori dalle cronache del mondo e prigionieri di una città fantasma.