A otto anni da una delle più gravi e controverse tragedie accadute nell’Adriatico, arriva la prima sentenza. Una sentenza del Tribunale di Brindisi che lascia profondamente delusi i familiari delle 108 vittime di quel 28 marzo 1997
Van Gogh - Naufragio
A 8 anni dalla tragedia del Canale d’Otranto - dove il 28 marzo 1997 persero la vita 108 emigranti albanesi – è arrivata la prima sentenza. Il tribunale di Brindisi ha condannato pochi giorni fa a 3 anni di reclusione il comandante della “Sibilla”, la nave della Marina militare italiana che il venerdì Santo del ’97 si scontrò con la motovedetta albanese “Kater I Rades”, partita dal porto di Valona con circa 120 clandestini a bordo che fuggivano da una guerra civile nella quale era crollata in quel periodo l’Albania. A 4 anni invece è stato condannato il comandante della “Kater”.
Ma nell’ottavo anniversario della tragedia, i famigliari delle vittime sono delusi e si sentono abbandonati dallo Stato albanese. Il Premier Nano, in visita a Valona lo scorso 28 marzo per partecipare alla cerimonia commemorativa, si è trovato di fronte alla rabbia di molte persone che gli hanno detto in faccia: “lo Stato ci ha ingannato”.
Una tragedia o …?
Nel marzo del 1997 l’Albania viveva una delle pagine più tristi della propria storia: le truffe finanziarie di quel periodo furono seguite da una protesta popolare contro il governo che alla fine sfociò in una guerra civile. Nel Paese regnava il caos totale e lo Stato cessò di esistere. Migliaia di persone fuggivano verso la speranza più vicina, l’Italia. Il panico si diffuse alla notizia che il Governo italiano, il 3 marzo, aveva fatto evacuare i propri cittadini. Il 13 marzo venivano chiusi l’aeroporto di Tirana e i porti di Saranda, Valona e Durazzo. Infine, il 25 marzo venne firmato il trattato italo-albanese: dal 3 aprile, in cambio degli aiuti promessi, l’Italia si assicurava la possibilità di rimandare indietro gli emigranti albanesi. In acque internazionali, venne predisposto il blocco navale chiamato in codice “Operazione bandiere bianche”. Un fatto che provocò fortissime reazioni internazionali come le accuse di incostituzionalità da parte dell’Unhcr, organismo Onu sui rifugiati.
Intorno alle 15:00 del 28 marzo, la “Kater I Rades” (Battello in rada) salpò dal porto di Valona: una “carretta del mare”, come fu chiamata, di produzione russa lunga 21m e larga 3.5, fatta per un equipaggio di nove persone, ma che quel giorno ne teneva a bordo circa 120. Donne, uomini e bambini che avevano pagato quel viaggio 800.000 lire a testa.
Alle 17:15, la motovedetta venne avvistata dalla fregata “Zeffiro” della Marina militare italiana. Furono immediatamente informate le autorità locali e centrali. Dalla Zeffiro venne intimato il dietrofront - nonostante la “Kater” navigasse ancora in acque territoriali albanesi – ma la motovedetta proseguì per la sua rotta. Il comando delle operazioni passò, alle 17:30, alla corvetta “Sibilla”, più agile e quindi più adatta alle manovre di intimidazione, la quale si avvicina a giri sempre più stretti.
Secondo le testimonianze dei sopravvissuti, alle 18:45 la Sibilla sembrò scomparire, per poi spuntare a dritta, sul fianco, vicina alla poppa. La prua della nave italiana colpì la Kater facendola ruotare su se stessa: “molti corpi sbalzarono fuori”, ricordano quei pochi che quella notte riuscirono a salvarsi. La motovedetta albanese venne colpita di nuovo più avanti: 1200 tonnellate contro le 56 della Kater, la quale questa volta si capovolse.
Ore 19:03: la “Kater i Rades” affonda, mentre in coperta decine di donne e bambini stanno morendo affogati: 108 i morti, 84 i corpi recuperati.
7 anni di carcere per 108 morti
Dopo 8 anni, il 19 marzo scorso è arrivata la prima sentenza: con l’accusa di “naufragio e omicidio colposo plurimo” il tribunale di Brindisi ha condannato a 3 anni di reclusione il comandante della Sibilla, Fabrizio Laudadio, e a 4 anni il comandante albanese della Kater, Namik Xhaferi. Laudadio è stato anche condannato al risarcimento dei danni alle parti civili, compreso lo Stato albanese. Xhaferi dovrà invece risarcire i danni al Ministero della difesa italiano e dovrà pagarne le spese di costituzione parte civile (6.000 Euro).
Con alcuni dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime sono stati concordati risarcimenti che si aggirano attorno ai 20.000 Euro per ogni vittima, a seconda del grado di parentela, e 13.000 Euro per i sopravvissuti al naufragio. Cifre ritenute troppo esigue dalla stampa albanese e dall’opinione pubblica del Paese.
Per i media di Tirana la sentenza era solo un fatto semplice di cronaca e nessuno si aspettava grandi sorprese. Tuttavia, veniva evidenziato il fatto che la colpa andava solo ai due comandanti: per gli albanesi, infatti, rimangono ancora impunite le persone che diedero l’ordine di fermare ad ogni costo quella “carretta”. Mentre resta ancora un grande punto interrogativo: su quali norme del diritto internazionale si basava la decisione di predisporre un blocco navale in acque internazionali dove il passaggio è permesso a tutti?
Famigliari abbandonati
Abbandonati e sempre più soli. È cosi che si sentono i famigliari delle vittime e i sopravvissuti di quella notte. Il 28 marzo scorso il Premier Nano si è recato a Valona per partecipare alla cerimonia commemorativa, ma ha dovuto fare fronte alla protesta dei presenti che hanno accusato lo Stato albanese e il suo Governo di non aver fatto abbastanza per portare a galla la verità. “Il Governo ci ha mentito”, hanno detto i famigliari a Nano, indignati ancora di più dai 45 minuti di ritardo del Premier.
Sotto accusa anche l’avvocato Natasha Shehu - che rappresentava al processo lo Stato albanese e parte dei parenti delle vittime – la quale “ci ha ingannati e ci sta rubando i soldi”. Nano ha cercato di schivare le accuse, promettendo che “tali tragedie non accadranno mai più”. Nei vari contatti, ha detto, “ho trovato nel Governo italiano la stessa solidarietà e responsabilità per stare vicino alle persone che hanno subito questa tragedia”.
Ma al di là delle promesse, l’opinione pubblica albanese è cosciente che il 28 marzo sarà ormai solo il giorno nel quale si va a buttare in mare alcuni fiori, sul molo dal quale 8 anni fa salpò la “Kater I Rades”. Nessuno crede che la sentenza di pochi giorni fa abbia fatto giustizia: ma l’Albania è ancora troppo debole ed italo-dipendente per alzare la voce e chiedere che la verità venga alla luce del sole.