Il quotidiano tedesco Die Welt intervista il presidente serbo Boris Tadic sulla situazione del Kosovo, sul recente studio di fattibilità approvato dall’UE, sulle consegne all’Aja dei generali serbi e sul lavoro dei Tribunale dell’Aja
Boris Tadic durante una cerimonia ufficiale
Di Stefanie Bolzen, Die Welt 15 aprile 2005 (tit. orig. Pavkovic wird in den nächsten Wochen
überstellt)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Flavia Mosca Goretta
Lei voleva invitare il Presidente del Kosovo, Ibrahim Rugova, per un colloquio diretto – ma ancora prima dell’invito ufficiale, questi ha rifiutato. Sorpreso?
In ogni caso mi aspetto che lui si decida a favore di tale colloquio. Se questo rifiuto si basa sull’idea che [la questione del] lo status debba essere risolta da qualcun altro, abbiamo un problema in comune. Lo status non può essere imposto da nessuna delle parti, perché una soluzione imposta non è duratura.
Il gruppo di contatto sul Kosovo questa settimana ha nuovamente sottolineato che un ritorno allo status di prima del 1999 è escluso. La popolazione serba appoggia tale accordo?
Naturalmente. Tanto più che lo status quo non è sostenibile da nessuna delle parti. L’indipendenza del Kosovo, tuttavia, non è per noi accettabile. Ma la Serbia è pronta anche qui al compromesso – che dice: più dell’autonomia, ma meno dell’indipendenza.
E significa?
Il Kosovo deve avere una autonomia, che cerca il suo pari in tutto il mondo. Ma l’indipendenza rappresenterebbe un precedente, con conseguenze per la stabilità di altri Stati europei. Se il Kosovo acquista l’indipendenza grazie al rimando al diritto di autodeterminazione, cosa diremmo nel caso dei baschi in Spagna, degli ungheresi in Romania, dei croati o dei serbi in Bosnia?
Ritiene davvero realistica la possibilità che i kosovari accettino qualcosa di diverso dall’indipendenza?
Forse no. Ma a volte bisogna accettare [alcune] cose, anche se non ci si crede.
Si aspetta nuove violenze in Kosovo, alla vigilia delle trattative?
La Comunità internazionale teme una nuova ondata di violenza da parte dagli estremisti albanesi del Kosovo. Se tali agitazioni fossero così massicce, come a marzo del 2004, ciò rimanderebbe al fatto che si tratta di un problema strutturale. Non riesco a capire le politiche, che per paura di violenze sono pronte a concessioni verso coloro che le mettono in pratica.
A febbraio ha visitato le enclaves serbe in Kosovo, confermando con parole d’ordine a tratti nazionaliste le pretese di Belgrado sulla provincia. Non sarebbe stato più produttivo un modo di procedere più moderato?
Noi siamo serbi. Cosa c'è di nazionalista, se lo mostriamo? Ho rassicurato gli albanesi che i loro interessi nazionali sono legittimi. Ma lo sono anche quelli dei serbi.
La Commissione europea ha approvato uno studio sulla fattibilità di un accordo di associazione con la Serbia – sebbene sia Ratko Mladic che Nebojsa Pavkovic, entrambi accusati di crimini di guerra, non siano stati ancora estradati. Il Consiglio dei Ministri degli esteri potrebbe essere più critico. Malgrado ciò, lei conta in un sì?
Lo spero. Fino a quel momento deve essere trovata una soluzione al caso Pavkovic. Ho appena parlato con il Premier Kostunica, che mi ha detto che ci sarà una soluzione. E dopo l’incontro del Consiglio dei Ministri sia Zagabria che Belgrado avranno ciascuna un caso irrisolto: Mladic in Serbia, Gotovina in Croazia.
E come appare la soluzione?
Che Pavkovic, in un modo o nell’altro, sarà all’Aja in due settimane. Volontariamente o come prigioniero.
E perché questo finora non è stato possibile?
Perché c’erano problemi all’interno del Ministero degli Interni.
Se lei è convinto di prendere Pavkovic in due settimane, perché allora non anche Mladic?
Lo cerchiamo da cinque anni. Ogni giorno, ogni secondo.
Mladic ha contatti migliori?
Forse. Ha molta esperienza, conosce la regione, soprattutto i confini.
In soli sei mesi tredici degli accusati dall’Aja sono stati estradati. Cosa è cambiato in Serbia, da non far più temere al governo una radicalizzazione per la cooperazione con le Nazioni Unite?
Se domani Pavkovic o Mladic fossero mandati all’Aja, ciò non verrebbe più rifiutato da nessuno. Tuttavia in passato esisteva spesso il problema che le prove non venivano presentate in maniera efficace presso l’opinione pubblica.
Carla del Ponte ha fatto un buon lavoro?
Tutti i popoli della regione devono superare il proprio passato. Ma una colpa collettiva secondo me non è accettabile. Per questo il contributo dell’Aja è stato positivo. Il rovescio [della medaglia] è che l’Aja non sempre è stata utile per la democratizzazione. Con questo non intendo le sentenze, bensì le accuse. Inoltre, molti processi avrebbero dovuto avere luogo nei rispettivi Paesi – sebbene io dica molto chiaramente che i tribunali, al contrario dell’Aja, non sempre ne erano e ne sono capaci.