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La Bosnia senza agricoltura

11.05.2005   

Due abitanti della Bosnia-Erzegovina su cinque vivono nelle campagne. Eppure l'agricoltura del Paese è in rovina, e la Bosnia importa massicciamente prodotti alimentari dall'estero. La guerra e la corruzione tra le cause di questo naufragio, mentre la politica sembra indifferente al problema
Di Hamza Baksic, Oslobodjenje, 8 aprile 2005

Traduzione di Ursula Burger Oesch (Le Courrier des Balkans) e Carlo Dall'Asta (Osservatorio sui Balcani)


Decisamente la vita reale non ha nulla a che vedere con la politica attuale, occupata da grandi temi come l'Europa, la Nazione, la transizione... La maggioranza e l'opposizione difendono ciascuna la propria visione, ma si ritrovano d'accordo nell'ignorare la vita reale. Gli allevatori di bestiame di Livno, per esempio, agitano la minaccia di una ribellione cantonale dei contadini. Essi hanno ricevuto dallo Stato quattrocento montoni da riproduzione. Pensano che sia poco perché, ripartita su 40.000 famiglie, la donazione cantonale non apporta alcun cambiamento. Gli agricoltori domandano più di quanto lo Stato può dare, e ritengono che lo Stato glielo debba. Lo Stato risponde invece secondo le sue abitudini perché, in questo genere di affari, non se la cava molto bene. Il gioco dei telefoni staccati perdura anche perché, tra le altre cose, se è vero che ci sono molti abitanti dei paesi di campagna in seno al parlamento, vi si trovano però ben pochi veri agricoltori...

Qualche tempo fa l'élite rigida ed incline alla corruzione del Partito di azione democratica (SDA) di Bihac ha venduto la locale centrale del latte ai suoi compagni turchi – il che vale a dire a sé stessa – per l'incredibile somma di 10.000 KM (5.000 euro). L'affare ha avuto come risultato finale il fallimento della centrale del latte e dei contadini che le gravitavano intorno. Fortunatamente la storia non è finita così perché, nel frattempo, proprietaria della centrale del latte è divenuta l'impresa Megle. Al Comune sono contenti - un impegno in meno - , gli allevatori sono contenti anch'essi: vendono i loro prodotti e ottengono un reddito dalla loro produzione. Contenti sono pure i clienti: possono ottenere a un buon prezzo un latte che offre, come piace dire, «la qualità slovena».

L'esempio positivo è raro. I contadini, che rappresentano i due quinti della popolazione della Bosnia ed Erzegovina, vivono ai margini della politica e dell'economia. Di tanto in tanto ritornano ad essere visti come interessanti, da una elezione all'altra, nel momento dedicato a seminare al vento tutte le promesse. Il raccolto non si farà mai, questo è ben noto.

L'équipe dell'Agenzia per le iniziative locali di sviluppo di Gorazde «Aldi», in una analisi ampia ed affidabile dello sviluppo economico in Bosnia ed Erzegovina prende nota del seguente esempio: «...Nella Federazione, è possibile coltivare solo alcuni tipi di lamponi, che danno fino al 70% di frutti in meno delle nuove varietà attualmente coltivate in Europa. La Federazione proibisce l'importazione di nuove varietà, il che obbliga gli agricoltori a seminare quelle vecchie. Gli investimenti in piantagioni di lamponi sono dei progetti a lungo termine, e i contadini che quest'anno vogliono piantare dei nuovi lamponi solo nel 2014 potranno rimpiazzare le vecchie varietà con delle varietà nuove, più produttive».

La Bosnia ed Erzegovina ha ricevuto dei pomposi complimenti per la sua politica di mercato aperto. Questa è una cosa che è utile comprendere, soprattutto per chi non ha idea di che cosa si tratti. L'Unione Europea, volendo proteggere la sua economia, dispensa 47 miliardi di euro in sovvenzioni. È in questo modo che diventa possibile che un chilogrammo di burro importato costi meno di 5 KM. I due Paesi vicini della Bosnia, la Croazia e la Serbia, proteggono anch'essi la loro produzione. Si tratta di una protezione sotterranea, informale, ma in definitiva di una sorta di sovvenzione contro cui la Bosnia ed Erzegovina non può reggere la concorrenza – non ci sono i soldi per farlo. Il latte bosniaco non arriva in Croazia, malgrado la tecnologia «Megle». La Bosnia ed Erzegovina spende un miliardo di euro per l'importazione di prodotti alimentari.

Il nostro Stato non ha soldi. Questi soldi non possono nascere dall'economia urbana. Non possono più venire dagli impiegati licenziati dalle fabbriche metallurgiche di Zenica, la cui attenzione è rivolta unicamente al computo dei loro anni di lavoro. L'anno scorso, le due entità ed i cantoni hanno messo da parte per l'aiuto all'agricoltura 18 milioni di KM. Su questi 18 milioni, l'aiuto diretto ai "coltivatori diretti" nella Republika Srpska è stato di 9 milioni e nella Federazione di 24 milioni di KM.

Per 1,6 milioni di abitanti dei villaggi. E non poteva essere superiore, salvo che non si paragoni l'aiuto per l'agricoltura con le spese dei due ministeri della Difesa - 51 milioni in Republika Srpska e 24 milioni nella Federazione. O se per esempio si arrivasse ad impedire le malversazioni di cui parla Transparency International – qualcosa come 70 milioni di KM all'anno, una somma ampiamente sufficiente ad avviare l'allevamento del bestiame in un centinaio di villaggi di montagna. D'altra parte, gli agricoltori devono sapere che non esiste nessuno Stato che possa proteggere una bassa produttività, sia essa nel campo dell'agricoltura o in quello dell'industria. Gli agricoltori di Erzegovina hanno, una volta, rovesciato per terra il loro latte perché non riuscivano a venderlo. I produttori di succhi di frutta potrebbero anch'essi versare il loro succo perché non c'è nessuno che lo compri?

Nelle manifestazioni degli agricoltori in questi ultimi mesi, ma anche nella posizione presa dal governo che ha capitolato in un modo masochista di fronte alle pressioni, si può osservare una dose abbastanza rilevante di protezionismo. L'allarmante somma spesa per l'importazione di prodotti agricoli ed alimentari è tanto più preoccupante se si pensa che non ha un contrappeso nelle esportazioni. Si importerà sempre, evidentemente, a meno che la città sia disposta a morire di fame. L'esportazione è tuttavia un lavoro a rischio, che richiede un alto livello di esperienza e il nostro Paese, all'atto delle privatizzazioni, così come sono state condotte, ha liquidato i team di esperti delle imprese specializzate. Ancora molta acqua deve passare sotto i ponti prima che si facciano i conti di ciò che è stato distrutto dalla guerra, e ciò che è stato rovinato dopo la guerra.

Appoggiarsi sulla diaspora e sui legami familiari rappresenta un buon piccolo business, ma che non porta molto lontano perché, vicino a casa, abbiamo dei Paesi come la Turchia e la Bulgaria, che erano molto più avanti di noi anche prima della guerra. E la Bosnia ed Erzegovina, oltre al suo formaggio di Vlasic, non propone un granché d'altro.


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