300 persone hanno percorso a ritroso la Marcia della Morte, intrapresa nel 1995 dagli uomini di Srebrenica per sfuggire alle forze serbo bosniache. Bosniaci e stranieri, hanno attraversato a piedi la "densa nube di dolore che avvolge la regione" per ricordare le vittime. Il racconto di una partecipante
Di Senada Šelo Šabić*
"Qui, dietro questa casa, c'è una delle prime fosse comuni che abbiamo scoperto. Dentro c'erano 206 corpi", spiega un funzionario della Commissione per le Persone Scomparse. Accompagna il gruppo di coloro che marciano verso Potocari, presso Srebrenica, per commemorare il decimo anniversario delle uccisioni di massa degli uomini e ragazzi Bosgnacchi {Bosniaco Musulmani], compiuto dalle forze serbo bosniache nel 1995, all'interno della cosiddetta "area protetta" dalle Nazioni Unite.
La marcia, che si chiama
Marcia della Morte – La Strada verso la Libertà è stata organizzata per la prima volta, dieci anni dopo il genocidio del 1995. Il simbolismo è opprimente. Per molti che sono sopravvissuti alle esecuzioni del 1995, camminare in direzione contraria, tornare nei luoghi dai quali erano scappati e nei quali i propri familiari e amici hanno perso la vita, ha un effetto catartico, aiuta a rilasciare parte del dolore e dei ricordi strazianti accumulati.
Circa 300 persone hanno preso parte alla marcia – grosso modo la metà erano persone che avevano già percorso originariamente questa strada nel 1995, mentre un'altra metà erano persone comuni, Bosniaci e stranieri. Questo secondo gruppo, quelli che percorrevano il cammino per la prima volta, provenivano da esperienze diverse, ma avevano un'identica motivazione: fare in modo che le vittime del genocidio di Srebrenica non vengano dimenticate.
Il percorso era di 73 chilometri, circa un terzo della lunghezza del cammino originario fatto dagli uomini di Srebrenica nella loro strada verso la libertà. Il primo giorno la distanza affrontata è stata di 25 km, il secondo giorno bisognava attraversare la montagna Udrc e il fiume Drinjaca, 21 km in tutto, e l'ultimo giorno un cammino di 27 chilometri attraverso boschi e villaggi su strade accidentate e sentieri fangosi, per valli immerse nella fragranza dell'erba fresca e dei fiori di campo.
La marcia è stata una prova, sia dal punto di vista fisico che emotivo. E' stata impegnativa, eppure solo un'infinitesima parte di quello che hanno sofferto gli uomini di Srebrenica nel 1995. I partecipanti alla Marcia del 2005 non sono stati bersaglio di granate, ma erano protetti dalla polizia serbo bosniaca, avevano da mangiare, non morivano di fame, camminavano durante il giorno e non di notte, dormivano in tende e non sul terreno, costeggiavano, non attraversavano, i campi minati. Eppure è stato duro.
Era dura guardare negli occhi di quelli che erano lì nel 1995 e ascoltare le storie di morte raccontate a voce bassa e mestamente. L'orrore delle loro storie è accentuato dal fatto che i massacri si sono svolti solo in pochi giorni – migliaia di uomini e ragazzi sono stati uccisi in meno di una settimana. Anche se si riesce a controllare le emozioni, considerando solo le cifre, il risultato è sconcertante: circondare migliaia di uomini, catturarli, ucciderli, bruciarli, scavare fosse per seppellirli – si tratta di uno sforzo mostruoso che può essere portato a termine in alcuni giorni solo se ci sono migliaia e migliaia di perpetratori. Il solo cercare di comprendere la portata del crimine è insopportabile, ascoltare i particolari delle storie raccontate dai sopravvissuti è straziante. Immaginare migliaia e migliaia di uomini armati che perlustrano i boschi in cerca della loro preda e chiedersi – perché?
E' stato particolarmente emozionante vedere giovani di 16, 17, 18 anni che avevano lasciato Srebrenica con le proprie madri da bambini, e che ora percorrevano a ritroso la strada da cui i propri padri, fratelli, zii non sono mai ritornati. Era triste attraversare villaggi nei quali sono tornati i Bosgnacchi – accoglievano i partecipanti, offrivano acqua e rinfreschi, salutavano, ma tutto a voce bassa e lentamente, quasi senza far rumore. Si poteva quasi toccare la densa nube di dolore che racchiude questa regione, senza poter fare altro che rispettare profondamente il silenzio nel quale queste persone piangono i propri morti.
La polizia della Republika Srpska ha protetto la marcia – centinaia di poliziotti erano disposti sul percorso attraversato dai partecipanti. Non ci sono stati incidenti, provocazioni o minacce. Eppure, c'è anche la consapevolezza che i criminali di guerra ancora in libertà sono di fatto protetti anche da parti di questa stessa forza di polizia.
Quali sono le prospettive per una vera riconciliazione e per una coesistenza pacifica in questa parte del mondo? Nessuno di coloro che marciavano chiedeva vendetta – c'è già troppo dolore e troppa sofferenza nelle loro vite per lasciar spazio a propositi di vendetta. Il loro dolore è così forte che fare un respiro profondo rappresenta una fatica; non lascia il tempo per fare progetti o la forza per condurre atti di vendetta. Niente in questo mondo gli restituirà i loro cari, la loro unica consolazione, che possano riposare in pace, sarà quando i responsabili di questo genocidio saranno condotti di fronte alla giustizia, condannati pubblicamente e puniti per i crimini che hanno commesso.
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Senada Selo Sabic è ricercatrice all'Istituto per le Relazioni Internazionali di Zagabria