Lo scorso agosto si è tenuto un campo estivo a Kraljevo e Peja/Pec. Promosso dal Tavolo Trentino con la Serbia ha rappresentato un' occasione per vivere e vedere dal di dentro, accompagnati dalle persone che vi abitano, due aree dei vicini Balcani troppo spesso rimaste legate nell'immaginario collettivo alla sola dimensione del conflitto. Un reportage di uno dei partecipanti
La fortezza di Maglic, vicino a Kraljevo
Di Fabio Della Piazza
In viaggio
Viaggiamo da qualche ora e il confine orientale si sta ormai materializzando. A dire il vero il Carso sta già annunciando da qualche chilometro che i Balcani sono ormai vicini ed allora la frontiera di Fernetti, oggi stranamente meno permeabile del solito, sembra solo l'ennesima conferma di qualcosa che già si respira.
Siamo in otto, alcuni di noi conoscono l'area dell'ex Jugoslavia ormai da tempo, altri ci entrano per la prima volta. Silvia e Alessia lavorano a Sjenica, nel Sangiaccato serbo come volontarie ormai da nove mesi. Volontarie come Eleonora e Martina, che viaggiano in Serbia per la prima volta. Nicola, invece, partecipa alle iniziative del Tavolo Trentino per la Serbia da ormai quattro anni, mentre Alessandro è fresco di un viaggio in Bosnia. Seguono Loris, studente di lingua serbo-croata e studioso dell'area, ed io, che la Serbia l'ho vista solo di sfuggita.
Di lì a qualche ora abbiamo raggiunto Belgrado e imboccato l'autostrada per Nis, direttrice che potrebbe portarci alla città imperiale, Zarigrad, odierna Istanbul. Ci fermiamo invece a notte fonda nella cittá dei re, Kraljevo, centro medioevale della Serbia meridionale e luogo d'incoronazione dei primi re della dinastia Nemanjic, oggi cittadina di 100 mila abitanti di cui 30 mila profughi provenienti da svariate regioni dell'ex Jugoslavia. D'altronde basta attendere la giornata successiva per avere un assaggio della composizione geografica della popolazione locale.
Al Museo Nazionale della città incontriamo gli otto ragazzi serbi che partecipano al campo di lavoro. Viktor, originario di Gorazde e fuggito dalla Bosnia nel '94, Slobodanka (Boba),vissuta a Spalato e giunta qui nei primi anni novanta, Slobodan (Boban) che ha vissuto a Kossovo Polje fino al ‘99 e Jasna, originaria della Macedonia. Gli altri, Darko, Jelena, Milkica, Marina e Aleksandra, sono tutti originari di Kraljevo. Dopo un rapido giro di presentazioni, appare evidente che quello che ci ha spinto a partecipare a questa esperienza è una mutua curiosità per qualcosa che non conosciamo e che proprio per questo ci affascina. Non posso che vedere nei volti di questi ragazzi dai tratti slavi e nei loro capelli e sopracciglia corvine la storia di questa terra e lo scambiare un paio di battute con loro mi fa comprendere che non è solo la loro fisionomia ad esserne impregnata.
Viktor e Darko non smettono un attimo di descrivere con estrema minuziosità le scene della storia dello stato moderno serbo raffigurate negli arazzi e nei quadri esposti nel museo e quando li osservi decantare le imprese del Karageorge nell'insurrezione antiturca del 1804, vedi nei loro sguardi un trasporto emotivo eccezionale, quasi fossero stati presenti fra le file degli insorti. Nei giorni successivi Viktor ci ricorderà più di una volta e con il sorriso fra le labbra che i Serbi sono innanzitutto un popolo di combattenti, che vivono la guerra come un elemento indispensabile della loro identità. Mi piace credere che la sua sia davvero una battuta ma non posso non riconoscere come se non la guerra sia certamente la storia ed il passato, talvolta univocamente interpretati, ad impregnare l'identità di questi miei coetanei. Ed è forse questa la distanza più grande che ci separa.
Kraljevo
Sumadija. La regione dei boschi, quelli che accompagnano il nostro viaggio giornaliero da Lopatnica, piccolo villaggio dove pernottiamo ospiti dell'agritur di Biljana e della splendida signora Zoka, a Maglic, località della valle dell'Ibar, dove si erge la fortezza medioevale attorno alla quale si svolgono le principali attività del campo estivo. Ai piedi del castello, scorre impetuoso e fangosissimo lo stesso fiume che separa le parti albanese e serba di Kosova Mitrovica, qualche centinaio di chilometri più a sud. Il paesaggio ricorda in tutto e per tutto le austere vallate della Bosnia, anche nella deforestazione selvaggia che ha denudato la maggior parte delle colline rocciose che delineano l'orizzonte.
Da qualche giorno stiamo ripulendo da bottiglie di plastica ed altri più improbabili rifiuti le pendici della collina fortificata e rimettendo in sesto un tratto di sentiero che risale una stretta valle scavata dal corso di un torrente dall'acqua cristallina. Di solito lavoriamo in coppie, talvolta composte da un serbo e da un italiano e, pare superfluo dirlo, il valore aggiunto di questo campo sta tutto qui. Nel dialogo continuo e spontaneo che riempie le nostre giornate. Parliamo di tutto e soprattutto ci ascoltiamo come bambini incuriositi e assetati di conoscenza. Inevitabilmente si discute spesso anche della storia più recente di queste terre, confrontandone diverse letture, consolidatesi sulla base di fonti diverse. Ancora una volta non posso non notare la permeante presenza nei discorsi dei ragazzi serbi di una lettura univoca di eventi storici passati che hanno caratterizzato l'evoluzione politico-religiosa del popolo serbo. È qualcosa di inglobante che caratterizza anche il loro sagace sarcasmo, come quando Boban, in risposta ai dubbi espressi da Darko sul futuro status del Kosovo, risponde a denti stretti che della Serbia fra qualche anno non resterà che il pasciallato di Belgrado.
La storia scorre anche sulle pareti della locanda di Miro, fondata nel 1825 e fino ad oggi distintasi per la scrupolosa e gelosa tutela dei piatti più tipici della tradizione serba. I muri del locale sono un susseguirsi di ritratti delle autorità politiche e religiose serbe del 1700 e 1800. Su tutti si staglia una rappresentazione in chiave moderna della torre di Nis, costruita dagli Ottomani con i teschi degli insorti serbi del 1809. È qui che trascorriamo gran parte della nostra prima domenica, in ossequioso rispetto della semantica slava (in serbo domenica si dice "nedelja", letteralmente "facendo nulla").
Kosovo
Ed è ancora la storia ad accompagnare il nostro tragitto verso il Kosovo, dopo dieci giorni di permanenza a Kraljevo, quando ci fermiamo presso uno dei luoghi più sacri della chiesa ortodossa serba, il monastero di Studenica, fondato nel 1196 da Stefan Nemanja, Gran Principe di Serbia e padre del fondatore della chiesa autocefala serba, San Sava. Dei ragazzi serbi solo Viktor e Boba sono rimasti con noi. Entrambi, per ragioni diverse, decideranno di non accompagnarci oltre, in quella terra che hanno ripetutamente bollato come il loro sanctum sanctorum. Prima della partenza per Pec, troveranno ancora il tempo per donare ad ognuno degli italiani un crocefisso ortodosso da portare al collo che in molti ci consigliano di nascondere sotto le magliette una volta superato il primo check-point dell'UNMIK per l'entrata in Kosovo.
Una tempesta di odori e immagini policrome in caotico movimento ha sorpreso i nostri sensi, fino a poco tempo prima intorpiditi dal grigio spettacolo della parte serba di Kosova Mitrovica e dall'agghiacciante visione di un kombinat metallurgico in perfetto stile sovietico che annuncia l'entrata in città. Abbiamo appena attraversato il ponte sull'Ibar che sancisce, se ancora ce ne fosse bisogno, il confine fra la parte albanese mussulmana e quella serbo ortodossa dell'agglomerato.
L'acida puzza di benzina bruciata che m'impregna le narici, l'impressionante via vai di carretti stracarichi trainati da scheletrici cavalli, gli onnipresenti minareti, il disordine che ovunque pare regnare sovrano. Tutto mi fa credere per alcuni interminabili secondi di essere caduto in un baratro spazio temporale in cui le mie categorie interpretative sembrano completamente inutili.
Mai prima d'ora mi era successo di conoscere un luogo in cui lo stacco fra due civiltà fosse così netto e geograficamente limitato. Di lì a qualche giorno la scena si ripete. Anche se il "ponte" che dal centro di Peja, città del Kosovo orientale ormai etnicamente pura, ci porta all'enclave serba di Gorazhdevac è lungo qualche chilometro di aperta campagna. Qui incontriamo Rocky e Ivanko, due ragazzi serbi che partecipano ad alcune delle iniziative sostenute dal Tavolo Trentino per il Kosovo. Vivono e si spostano all'interno di quattro chilometri quadrati e dicono di non sentirsi sicuri nemmeno in quest'area, visto che i soldati della KFOR che presidiano le strade d'accesso a Gorazhdevac non hanno licenza di aprire il fuoco in caso d'attacco armato. Mentre ci stanno descrivendo una loro giornata tipo, chiedo a Ivanko quanto spesso vada a Peja. Rocky mi squadra con uno sguardo glaciale e io frettolosamente mi correggo. Peja qui non esiste. C'è solo Pec, nome serbo della stessa città. La lingua diventa un esasperato strumento d'identificazione, così come i simboli religiosi e, temo, pure i tratti fisionomici.
Pochi giorni prima, nell'incantevole Val Rugova a pochi chilometri da Pec/Peja, ero stato bersaglio dello stesso sguardo, quando, ringraziando il padre della famiglia albanese che ci aveva ospitato lì per qualche notte, mi ero lasciato scappare un serbissimo "hvala". Ma aldilà dei manifesti dell'UCK affissi nella stanza dei maschi riservataci per dormire e dell'onnipresente voce dei muezzin che chiamano alla preghiera, mi risulta abbastanza facile trovare fortissimi segni di continuità nei mondi contadini di Lopatnica, di Gorazhdevac e della Val Rugova. In tutti questi luoghi ciò che mi appare deflagrante, in modi e intensità diversi, è lo scontro con una modernità che si dimostra sempre più escludente ed irrispettosa di ritmi ed equilibri preesistenti ad essa, che potrebbero ancora fungere da eccezionale collante per la convivenza.
La strada del ritorno, attraverso il Sangiaccato montenegrino e serbo, Belgrado e la desolatissima "autostrada dell'amicizia" per Zagabria ci ripropone in mille salse questo stesso contrasto.