Trovato a: http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/4903/1/167>
Una donna coperta da un burqa ricavato dalla bandiera dell’Unione Europea, illuminata da una scritta in kurdo. E’ l’opera di Burak Delier che accoglie i visitatori all’ingresso della Nona Biennale Internazionale di Istanbul: le deformazioni della modernità attraverso video, musica, installazioni. Istanbul chiama, la sentite?
Di: Aysegul Sonmez, per “Sanat” (Arte), Ottobre 2005 (tit. or.: “Istanbul calling”)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Fabio Salomoni
Nonostante Vasif Kortun, uno dei curatori della 9° Biennale Internazionale di Istanbul, prima di cominciare abbia dichiarato: “Quest’anno pensiamo di ridurre le installazioni video che rischiano di affaticare troppo lo spettatore. Voglio invece spingerlo verso modalità artistiche diverse”, anche in questa edizione abbiamo potuto vedere video in gran quantità. In particolare nello spazio al secondo piano dell’Antrepo n.5 dove sono presenti Daniel Bozhkov, Smadar Dreyfus, Cerith Wyn Evans, Hala Elkoussy, Eric Gongrich, Mario Rizzi, Ahlam Shibli, Irwin, Alexander Ugay e Roman Maskalev.
Daniel Bozhkov è il creatore del profumo Eau d’Ernest e qui alla Biennale propone i video pubblicitari utilizzati per la sua promozione. Cerith Wyn Evans, come annunciato alla vigilia, utilizza un proiettore contraereo usato dagli americani nella Seconda Guerra Mondiale.
Erich Gongrich, anch’egli proveniente dal mondo dell’architettura, si costruisce la sua Istanbul personale. Quella che ci troviamo davanti è una sorta di cartina che vista da vicino, da un lato assomiglia all’Istanbul che conosciamo e dall’altro al suo opposto. Sullo stesso piano Mario Rizzi ci presenta un ambiente in grado di far riposare gli stanchi visitatori. Dopo essere rimasto tre mesi ad Istanbul ci presenta un film fantascientifico di 80 minuti dove alcuni protagonisti turchi molto realistici parlano all’interno di un negozio di calzolaio:
“Fratello, io sono di sinistra, sono cresciuto così, io...”
“Va bene fratello mio, ti rispetto, è possibile... ma io sono nazionalista...”
“Quelli che ci salveranno sono gli ottomani, fratello. Continua a pensarla come vuoi ma non ti dimenticare degli ottomani… Ah, come siamo arrivati fino alle porte di Vienna...”
“Ma l’Europa ha un obbiettivo?”
“Farci fuori?”
“Heh...”
Un altro nome che conferma come questa edizione della Biennale sia così internazionale da richiamare una copia in miniatura delle Nazioni Unite è un nome che proviene da Hayfa. Ahlam Shibli è presente con una mostra di fotografie scattate nel villaggio di Arab el-Naim, uno dei 179 villaggi non riconosciuti dallo stato d’Israele dal 1948. Nel 1957 l’amministrazione israeliana prepara una carta della regione senza includervi le case di pietra del villaggio. Una strategia mirata a cancellare dalle carte la popolazione arabo-palestinese e le fotografie di Shibli contribuiscono a far emergere una verità politica molto importante.
Il gruppo sloveno Irwin mette in scena il caos sciorinando su di una parete gli oggetti che produce dal 1984. Simboli incorniciati che rappresentano il caos politico e culturale vissuto dagli elementi del gruppo.
Alexander Ugay è una altro partecipante che proviene da un posto interessante, Alma Ata. Egli è presente alla Biennale con una mostra fotografica nel Deposito del Tabacco e con un film in tre parti, “Yas” (Lutto), nell’Antrepo n.5, un’opera che possiede un spirito veramente particolare. Ugay è uno di quegli artisti che abbiamo potuto scoprire e conoscere proprio grazie alla Biennale di Istanbul. Ugay mette in mostra vecchie immagini accompagnate da un blues nella sua lingua. E’ impossibile rimanere indifferenti per esempio a “La morte dell’eroe”, una delle tre parti del film. Ugay ci rimanda con una lingua e codici a lui propri alle vicende di coloro che in Asia Centrale si sono trovati schiacciati dalla globalizzazione dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Il blues di Ugay costituisce una sorta di omaggio alla tragedia vissuta dalla gente della regione rimasta schiacciata tra due modernità.
Sezer Ozmen che vive a Diyarbakir aggiunge dinamismo alla Biennale con la sua Guida di Istanbul. Ozmen ci (si) chiede “Dov’è Istanbul?”. Non manca nulla nella sua guida che fa però a brandelli il linguaggio standard delle guide turistiche: c’è Pierre Loti, Hemingway e Lord Byron. E’ una di quelle opere che mostra il coraggio di brutalizzare l’Istanbul convenzionale raccontata dalle guide.
Sempre sullo stesso piano ci imbattiamo in un nome completamente nuovo: Hala Elkoussy, che vive tra Amsterdam e Il Cairo. Il video che ci propone “Storie di periferia” è ambientato interamente al Cairo. Elkoussy ci racconta in 28 minuti con inquadrature surreali, un linguaggio sincero e senza scivolare nella tentazione del localismo, un video che si lascia guardare con grande piacere e mai vi stanca per la sua lunghezza. Il video, che possiamo considerare il migliore della Biennale, è accompagnato da una mostra fotografica “Paesaggi di periferia”. Elkoussy riesce a farvi sentire tra le strada sterrate del Cairo, assediati da edifici di cemento. Fotografie che completano perfettamente il discorso cominciato con il video e che riescono a farvi vivere un’ esperienza senza pari.
Se salite al piano di sopra poi vi trovate nello Spazio dell’Ospitalità, uno spazio in cui i curatori della Biennale, Charles Esche e Vasif Kortun, hanno lasciato completamente mano libera agli artisti. Nello spazio vi trovate “Tiro libero” di Halil Altindere, la mostra del gruppo di pittori indipendenti Hafriyat, la mostra fotografica organizzata dalle riviste Roll ed Express “L’Irak prima e dopo l’occupazione”. C’è anche una mostra libera nella quale trovano posto le opere degli studenti delle accademie straniere. I curatori in questo spazio non sono intervenuti in nessun modo, nemmeno sul piano finanziario. Per questa ragione forse le tre mostre avrebbero potuto essere più imponenti e probabilmente ci sono alcune lacune.
La mostra fotografica organizzata da Roll ed Express ha la forza necessaria per trascinare sul palcoscenico artistico messaggi politici. Le foto dell’ospedale psichiatrico scattate dopo l’occupazione dell’Irak riprendono le parole di un’opera di Laurie Anderson “Uno con zero” esposta nel settore della rivista Roll “Quelli che state osservando ora sono i mattoni dell’era del computer moderno”. La critica alla modernità di Laurie Anderson viene poi ripresa da Hafriyat che espone sullo stesso piano.
Il gruppo di artisti indipendenti di Hafriyat così racconta la sua esposizione: “Il progetto riguarda il difetto di fabbricazione di un’incompleta utopia che si vuole universale. Esso comprende anche le analisi/imitazioni meticce che gli sforzi messi in campo nel passaggio dalla società tradizionale al modello universale hanno prodotto”.
Halil Altindere si presenta davanti a noi con una mostra che rivendica le intenzioni più politiche. Con “Tiro libero” Altindere ci promette una mostra come non ne vedremo da altre parti: “Non vi sarà possibile trovare cose simili nelle gallerie di Istiklal Caddesi, loro non le mostrerebbero mai... non troverete nè un curatore nè uno spazio interessati a cose di questo genere”.
All’ingresso della mostra la cosa che vi colpisce è la fotografia della donna coperta da un burka fatto con la bandiera dell’Unione Europea, opera di Burak Delier. La foto poi è illuminata dall’alto da una scritta al neon in lingua curda. Immagini che cercano di farci arrivare messaggi su tutto quanto si sta vivendo in questo periodo in Turchia. La mostra di Altindere ci permette poi di scoprire allo stesso tempo anche un nuovo gruppo di Diyarbakir: Hunera Berxwedani (Arte Resistente). Formatosi nel 2002, nella mostra ci propone le fotografie di un gruppo di bambini armati. Il gruppo decide di attirare la nostra attenzione sulla verità della crudeltà senza limiti della guerra che si vive nel Sud-Est e sulla tragedia del mondo dell’infanzia. Nella stessa mostra il video di Canan Senor “Haydar, versa l’acido!” che con l’aiuto di due schermi esibisce il volto torturato di Asli. Senor, così come aveva già fatto in precedenza con un video sugli scioperi della fame nelle carceri, spinge lo spettatore verso la nuda verità. Questa volta vi trovate sballottati tra la verità della protagonista del film vittima della tortura e la vostra verità personale.
Nella sua mostra Altindere ha spinto verso l’avventura politica un gran numero di nomi, che si occupassero o meno di politica. Per questa ragione le scelte politiche di alcuni di loro producono dei risultati a volte ironici e riducono la politicizzazione della mostra.
Per esempio l’uniforme militante che Altindere ha cercato di cucire addosso a Erinc Seymen, Koken Ergun, Demet Yoruc non funziona. La possente voce di stile punk di Murat Tosyali rende non realistico, quasi si trattasse di un film, il sangue che sgorga dal corpo nudo sul quale sono stati cuciti i gradi di una divisa militare. Il video di Sefer Memisoglu, con linee e confini molto marcati, accanto alle altre opere appare come una scatola chiusa, misteriosa ed incomprensibile. “Tiro libero” con il suo desiderio di colpire con un pugno lo spettatore, nonostante rischi di cadere nella ripetizione, riesce comunque a realizzare un tiro libero. I panorami di Mustafa Kunt e Basir Borlakov così come le pietre di Fatma Ciftci contengono un grande significato per lo spettatore che vuol dare importanza alle nuove relazioni che nasceranno tra la fantasia e le opere all’interno della cornice di una grande mostra.
D’altro canto la mostra merita più di quanto contenuto nelle opere che prendono posto sulle pareti, più del Falso mondo di plastica... la mostra per quanto riguarda la sua organizzazione, per quanto dirompente abbia l’intenzione di essere, in realtà costringe lo spettatore ad tenere sempre la stessa distanza dalle fotografie e dal video. Non gli concede la possibilità di uscire da questa distanza per assumere un atteggiamento più energico ed aggressivo. Da questo punto di vista rimane una mostra politica sulla carta, sulla parete, incapace di far sentire l’emozione della situazione.
La mostra che si trova giusto a fianco, quella del gruppo Hafriyat, racconta l’avventura della modernizzazione della città di Istanbul. Il portavoce del gruppo, Hakan Gursoytrak, urla con tono arabesk scenari da fine del mondo come un fantastico eroe degli anni ‘70 di David Bowie (Ziggy Stardust) con un pezzo che racconta di come la fine del mondo sia dovuta ad un errore di fabbricazione. Non è possibile non essere toccati e non prestare attenzione all’assolo contenuto nel
Cahier des doléances della globalizzazione esibito da Hafriyat. E’ nelle mani dello spettatore, come nella fabbrica del terrorismo di Irfan Onurmen con le sue armi fatte di fogli di giornale, la possibilità di far esplodere la grande modernità. Oppure toccare le pareti scolpite da Erim Batur... oppure cozzare contro i muri evocati dai paesaggi di una Istanbul senza edifici di Kubilay Dagbatiran… oppure guardare non sul piccolo schermo ma con un grande proiettore il film di animazione di Mehmet Erdener… Non è nemmeno possibile non farsi catturare nonostante tutto dalla forza di attrazione, dalla capacità di trasformazione di Istanbul evocata da tutti questi spiriti punk e glam... Sì, Istanbul chiama, la sentite?