«La posizione degli Albanesi nei futuri negoziati sarà dura, e dietro ad essi vi sarà lo stesso gruppo di pressione di Rambouillet. La Serbia cercherà di proteggere le proprie frontiere, ma deve ancora definire la sua tecnica di negoziazione» spiega Predrag Simic, Ambasciatore di Serbia e Montenegro a Parigi, che nel 1999 aveva participato a Rambouillet
Di Dragan Bisenic, Danas, 5 novembre 2005; traduzione di Persa Aligrudic Le Courrier des Balkans e di Carlo Dall'Asta per Osservatorio sui Balcani
Rambouillet, il castello
L’ambasciatore Predrag Simic, autore del libro La via di Rambouillet, ci parla dei negoziati paralleli del 1999 e dei prossimi dibattiti sullo status definitivo del Kosovo, della probabile soluzione e della sua natura, tra status «futuro» e status «definitivo», come anche della tattica di negoziazione di Belgrado.
«Si tratta di un grande gioco di nervi, in cui la pressione per l’indipendenza è enorme, ma la Serbia non deve in alcun modo sostenere la visione che insiste sull’urgenza e su una soluzione rapida, perché le differenze tra la Serbia del 1999 e quella del 2005 sono più che evidenti. Prima di tutto, la Serbia è attualmente un paese democratico e in questo momento non possiede assolutamente nessuno strumento di forza che potrebbe utilizzare in Kosovo, e che potrebbe servire da argomento a favore per offrire l’indipendenza al Kosovo», spiega Predrag Simic.
Qual’è la differenza tra la posizione della Serbia nel 1999 e quella del 2005?
Vojislav Kostunica è il primo Presidente democratico di Jugoslavia e premier serbo che ha ottenuto una piena credibilità sulla scena politica in nome della democrazia e del rispetto dello Stato di diritto, di modo che l’argomento di una Serbia non democratica e che priverebbe gli Albanesi della democrazia non regge assolutamente. Inoltre, la Serbia è disposta a cooperare. Essa desidera conservare la propria democrazia e sovranità e rispettare gli interessi degli Albanesi. Quelli che si schierano al fianco della rivendicazione degli Albanesi per l’indipendenza dicono che in questi cinque anni dopo che Milosevic se n’è andato è rimasto uno statu quo e nulla è cambiato, e di conseguenza gli argomenti degli Albanesi a sostegno dell’indipendenza del Kosovo non hanno perso valore. Secondo questa posizione la Serbia deve essere punita per quello che il regime di Milosevic ha fatto agli Albanesi, il che mette sullo stesso piano l’epoca di Milosevic e il dopo Milosevic. Ma siccome invece le due epoche non sono identiche, questo finirebbe col punire un regime democratico. Noi abbiamo di fronte un periodo di negoziati molto incerti e complicati perché, per Belgrado, non si tratta solamente di firmare o meno il riconoscimento dell’indipendenza. È certo che nessuno apporrà la firma su un simile documento. Quello che conta è invece sapere come evitare la trappola in cui è caduto il regime di Milosevic a causa della sua non cooperazione e dell’abbandono dei negoziati. Per il momento la più grande incertezza per Belgrado è quella di definire la tattica di negoziazione.
Ci sono diversi scenari possibili per la soluzione della questione del Kosovo. Sembra che la proposta della Commissione internazionale per i Balcani sia la piattaforma per regolamentare lo status del Kosovo...
Effettivamente, ma il problema principale è che una soluzione ottenuta troppo presto potrebbe avere certe conseguenze. Questo comporterebbe una epurazione etnica definitiva e la partenza degli ultimi serbi, la distruzione del patrimonio culturale serbo e l’omogeneità nazionale del Kosovo, che noi spesso dimentichiamo. Per la Serbia, la questione è sapere quale sarà la sua sorte, perché noi entriamo in una delicata fase di transizione, o di recessione temporanea, che hanno subito tutti i Paesi dell’Europa dell’est. La transizione efficace di questi ultimi due anni può essere distrutta da una rapida regolamentazione del problema kosovaro. Quello che noi dobbiamo all’influenza francese in questo rapporto, è la posizione che sostiene che non è ancora giunto il momento di definire lo status definitivo, bensì lo status «futuro» del Kosovo, e che la soluzione deve essere ricercata nel contesto dell’integrazione europea dell’Unione di Serbia e Montenegro [USM]. Lo status definitivo presuppone due fasi: la stabilizzazione del Kosovo, e che lo status finale sia messo all’ordine del giorno solo dopo che l’USM sia nella fase di adesione all’Unione Europea. È evidente che gli Albanesi vogliono liberarsi dell’UNMIK, che li ha liberati della presenza serba, al fine di raggiungere il loro scopo, che è l’indipendenza. Tutta la situazione è il risultato di una politica che dimentica la storia, e non sa più guardare al futuro in una prospettiva di ampio respiro. Altrettanto pericoloso è che certi nostri vicini sostengono questa posizione.
Cosa significa un «Kosovo indipendente senza sovranità», come tappa nella regolamentazione del problema kossovaro, così come viene scritto nei media francesi?
Per noi, è essenziale che la regolamentazione della questione kossovara non metta in pericolo la sovranità della Serbia e Montenegro. È difficile dire fin dove si estenda questa misura nel concetto di «indipendenza condizionale», perché si prevede che il Kosovo non avrà tutti gli attributi della sovranità, dato che resteranno le forze internazionali e un Alto Rappresentante, ma lo status si evolverà in una gamma di possibilità comprese tra la situazione attuale e quella esistente nella Bosnia di Dayton. Questo approccio sottostima in parte la forza del movimento nazionalista albanese, di modo che non è realista attendersi che l’indipendenza condizionale possa soddisfare le ambizioni di questo movimento. Il movimento nazionalista albanese, da vent’anni a questa parte, ha dimostrato una grande abilità ma anche la sua tenacia e la sua disponibilità ad accettare la guerra, se questa potesse servire ai suoi interessi. Mi sembra che nei Balcani si pongono dei problemi importanti, che potrebbero a un certo momento far comparire due bandiere albanesi davanti alla sede delle Nazioni Unite, e si sa come nel corso della storia sono stati risolti questi problemi.
Lei è certo che a Belgrado nessuno firmerà la separazione del Kosovo?
A Belgrado nessuno firmerà, soprattutto non firmerà il governo che dipende dagli attuali elettori. Un’eventuale indipendenza del Kosovo minaccia la transizione e l’ordine democratico in Serbia. La questione è sapere se si possono imporre delle soluzioni a un Paese democratico. Noi sappiamo che la sovranità e l’integrità territoriale dei Paesi membri dell’ONU sono i principali postulati della Carta delle Nazioni Unite, su cui si basa tutto il sistema internazionale. La dottrina americana dei rapporti internazionali parte dal principio che le soluzioni non possono essere imposte alle democrazie perché queste ultime possono arrivare ad una soluzione attraverso dei negoziati, precisamente come propone Belgrado attualmente.
Qual è la prevedibile tattica dei Kosovaro Albanesi?
La loro tattica sarà quella di insistere sull’indipendenza, al fine di cercare – come a Rambouillet – di imporre una soluzione nell’eventualità di un insuccesso dei negoziati. In questo momento in cui gli Albanesi non parlano d’altro che di indipendenza, è difficile aspettarsi altro che dei negoziati infruttuosi. Ciò nonostante, molto dipenderà anche dagli intermediari e dai negoziatori. Le possibilità della parte serba non sono più illimitate, perché dei cambiamenti nello status costituzionale del territorio della Serbia non possono essere accettate senza che il popolo si esprima.
Per rinunciare al Kosovo, si propone alla Serbia una «compensazione europea». È una prospettiva realistica?
Sperare che la Serbia entri a rapidità fulminea nell’Unione Europea non è realistico, prima di tutto perché la Serbia non è pronta. Se domani la nostra industria dovesse essere esposta alla concorrenza dell’UE, cesserebbe semplicemente di esistere. Ma l’essenziale è quello che accade nell’UE e il modo in cui viene proposta questa «compensazione europea». L’UE sarà molto più restìa riguardo agli allargamenti futuri, malgrado le recenti decisioni di aprire i negoziati con la Turchia, la Croazia e il nostro Paese. In Francia si prevede che ogni allargamento futuro non potrà più essere convalidato dal Parlamento ma attraverso un referendum. Tutto questo ricorda la dichiarazione di Richard Holbrooke, secondo cui la Serbia avrebbe dovuto rinunciare al Kosovo, oppure scordarsi l’UE. Questo aveva sempre creato confusione, perché come poteva Holbrooke, dall’America, promettere che l’Europa avrebbe potuto o non potuto fare qualcosa?
Il Consiglio di Sicurezza parla di status «futuro» del Kosovo, non di uno status «finale». Cosa significa questa scelta di parole?
Dietro questo c’è il desiderio d’impedire che la soluzione intesa come uno status finale generi un effetto domino sulla Serbia e su tutta la regione, il che sarebbe invitabile se si prendesse in questo momento una decisione sullo status finale. Anche negli ambienti americani si sottolinea che la capacità democratica in Kosovo deve essere un fattore essenziale. L’Istituto Americano per l’Impresa, che è il centro dell’ideologia di Bush, nota che un Kosovo indipendente, senza sorveglianza internazionale, diverrebbe un nuovo «Djubretistan», un Paese che non sarà mai capace di gestirsi da solo, constantemente in preda al caos, alla pressione sociale, dipendente dalla mafia, e non un Paese stabile in transizione. Perfino quelli che hanno una posizione indipendentista non sono certi che il Kosovo sia in grado di funzionare in quel modo.
Qual è la posizione francese sul Kosovo?
In Francia, come negli altri Paesi del Gruppo di contatto, c’è stato un cambiamento di politica. Al posto di esigere «gli standard prima dello status», si accetta la soluzione de «gli standard e lo status», che è la parola d’ordine dietro la quale si cela il sostegno all’indipendenza condizionale del Kosovo. Gli eventi verificatisi nell’asse Parigi-Berlino hanno diminuito l’influenza politica dell’Europa. Le azioni francesi saranno orientate verso la protezione di quello che resta della popolazione serba in Kosovo, del patrimonio culturale e storico ed eventualmente verso la creazione di condizioni per il ritorno. A mio avviso, la Francia cercherà di impedire che la definizione prematura dello status finale del Kosovo provochi l’effetto causato nel 1991 dalla decisione della Slovenia di uscire dalla Federazione jugoslava. Sarà un tentativo di guadagnare tempo, che rischia però di arenarsi perché le pressioni sono molto forti. La rapidità risponde in questo momento prima di tutto ai bisogni degli USA di lasciare la regione per impegnarsi altrove, e le pressioni vanno nel senso delle esigenze dell’amministrazione Bush. Si avverte nettamente l’assenza di Colin Powell che invocava la prudenza nella regolamentazione dei problemi balcanici.