Cifre da record sostengono l’andamento dell’economia turca. Le buone notizie sono tuttavia accompagnate da dati allarmanti relativi a disoccupazione, incidenti, lavoro nero e minorile e da una generale fragilità del sindacato. Le preoccupazioni della UE, il dibattito nel paese. Dal nostro corrispondente
Disoccupazione, lavoro nero, diritti sociali e sindacali sono state questioni per lungo tempo emarginate nel dibattito politico e nei media in Turchia. Emarginazione prodotta dalla combinazione di due elementi diversi: da un lato il processo di adesione all’Unione Europea (UE) che almeno a partire dal 2002, con la nascita del governo Erdogan, ha monopolizzato l’agenda politica ed il dibattito pubblico. Dall’altro i risultati sorprendenti fatti registrare dall’economia turca negli ultimi due anni ed il clima di generale euforia che essi hanno generato.
Il miracolo turco
L’andamento dell’economia nelle ultime rilevazioni di settembre ha mostrato un tasso di crescita del 7,3%, un dato da far invidia anche al miracolo cinese. A fare la parte del leone le esportazioni, che nel 2005 hanno superato i 73 miliardi di dollari. Buone notizie arrivano anche dall’andamento dell’inflazione, per decenni variabile impazzita dell’economia turca: nel triennio del governo Erdogan è scesa sotto il tetto del 10%, e l’obbiettivo per il 2006 è di raggiungere il 5%. La Confindustria (TUSIAD) delinea scenari rosei per il futuro prossimo, arrivando ad ipotizzare, nella migliore delle ipotesi, che il reddito medio procapite dei turchi nel 2014 potrebbe passare dagli attuali 4282 a 11.900 dollari
Le cronache dell’ultimo scorcio del 2005 e delle prime settimane del nuovo anno hanno però riportato l’attenzione sul lato oscuro del miracolo turco.
La prima occasione l’ha fornita una manifestazione organizzata il 18 dicembre da alcuni sindacati e movimenti politici della sinistra. Riunite intorno allo slogan “Per una Turchia democratica/Un bilancio per la gente”, 25.000 persone si sono ritrovate ad Ankara, per dare vita ad quella che è stata “la più grande manifestazione dopo quella del marzo 2003”, in cui in 50.000 avevano detto no alla partecipazione della Turchia all’avventura americana in Iraq.
In un clima di grande effervescenza, accanto a riferimenti all’attualità politica, la manifestazione è stata soprattutto l’occasione per mettere sotto accusa la politica economica del governo: “Ci dicono che l’economia cresce e l’inflazione scende ma crescono anche disoccupazione e povertà”, ha esordito Suleyman Celebi, segretario del sindacato DISK (Confederazione dei Sindacati dei Lavoratori Rivoluzionari). In particolare nel mirino dei manifestanti vi era il progetto per il bilancio statale del 2006, in discussione in parlamento proprio in quei giorni. Un bilancio, ha commentato sempre Celebi “che non è stato certo preparato pensando ai lavoratori ed ai diritti sociali”.
Accanto al governo Erdogan sul banco degli imputati anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI), indicato come il controllore - nemmeno troppo occulto - delle politiche economiche del paese.
Proprio nei giorni precedenti la manifestazione, il vicepresidente dell’FMI Anne Krueger, dopo aver lodato i recenti successi dell’economia turca aveva preso di mira il deficit pubblico, individuandone la causa principale nella spesa sociale. La sua ricetta era stata piuttosto brusca: “Potrebbe essere necessario attuare politiche che portino a stringere la cinghia”.
Alla Krueger i manifestanti hanno risposto chiedendo un bilancio statale “pensato per la gente e non per l’FMI”, reclamando in particolare maggiori investimenti nella sanità e nella scuola.
I dati contenuti in una serie di ricerche promosse da sindacati e dall’Ufficio Turco di Statistica (TUIK) hanno contribuito a confermare le preoccupazioni sullo stato di salute del mondo del lavoro in Turchia.
Cresce l’economia, non il lavoro
In primo luogo il problema della disoccupazione: nonostante la crescita dell’economia del paese, i dati sul numero dei senza lavoro non solo non accennano a scendere ma mostrano anzi una tendenza al rialzo: nel mese di ottobre il tasso di disoccupazione era del 9.7%, con 42.000 disoccupati in più rispetto alle rilevazioni di luglio. Ad un’analisi più ravvicinata si scopre come siano sopratutto due le categorie ad essere colpite: i giovani e le donne. Il 18.2% dei giovani è disoccupato, percentuale che sale al 22.3% nelle zone urbane. Cresce anche il numero di giovani neo-laureati che hanno difficoltà a trovare un impiego. Per quanto riguarda le donne un raffronto con i dati del 1990 sui tassi di partecipazione alla forza lavoro è sufficientemente eloquente per illustrare la situazione: mentre nel 1990 il 34.1% delle donne lavorava, nel 2004 questa percentuale è caduta al 25.4%. In altri termini significa che sono 18 milioni le donne turche escluse dal mercato del lavoro. Secondo il sindacato DISK poi l’età media, 31 anni, in cui le donne abbandonano il lavoro in seguito alla maternità è sensibilmente inferiore alla media europea, 39 anni.
Quando si analizzano i dati sulla forza lavoro occupata in Turchia va poi tenuto presente che le statistiche ufficiali comprendono anche la categoria “Lavorante in famiglia senza salario”, una condizione che interessa soprattutto giovani e donne e che di fatto costituisce una forma di disoccupazione occulta.
Anche le autorità politiche sono ormai costrette a riconoscere come la crescita economica degli ultimi anni non abbia contribuito a alleviare il problema della disoccupazione.
Il presidente del parlamento Arinc ha ammesso che “la mancata riduzione dei tassi di disoccupazione nonostante il tasso di crescita economica registrato negli ultimi anni è una delle principali questioni sulle quali riflettere”. Un rapporto della Banca Mondiale sottolinea come “la crescita degli ultimi anni non ha portato benefici a quei segmenti della società che hanno dato il loro voto al partito di governo”. Anche per i vertici della Confindustria turca, disoccupazione e squilibri regionali rappresentano i due principali rischi per il futuro del paese.
Omicidi bianchi, lavoro nero
Anche per chi un lavoro ce l’ha, la situazione si presenta tutt’altro che rosea. Secondo un rapporto del sindaco dei metalmeccanici MESS, il 51% della forza lavoro turca sarebbe “in nero”.
I dati dell’Ufficio di Statistica in questo senso sono ancora più eloquenti: su di un totale di 22 milioni di persone che compongono la forza lavoro attiva, solo 11 milioni sono coperti da una qualche forma di protezione sociale, garantita da tre diverse istituzioni (SSK per i lavoratori dipendenti, Bag-Kur per i lavoratori autonomi ed Emekli Sandigi per i dipendenti pubblici). Per quanto riguarda i rimanenti 11 milioni, 3.690.000 appartengono alla categoria “Lavoranti in famiglia senza salario” per i quali la legge non prevede nessun obbligo di iscrizione ad una assicurazione sociale. 7.975.000 sono invece i lavoratori privi di qualsiasi forma di protezione sociale a cui avrebbero invece diritto.
A ribadire le difficili condizioni e la mancanza di protezione dei lavoratori turchi è arrivata poi una lunga serie di incidenti verificatisi in diverse fabbriche del paese nelle prime settimane del 2005. Il più grave di questi episodi è accaduto in un’industria di Bursa, la capitale del settore tessile. In un incendio in una fabbrica hanno perso la vita tre operaie, due delle quali minorenni, di 15 e 17 anni.
Secondo Emel Nacir, dell’associazione per i diritti dei lavoratori tessili di Bursa, il settore tessile è tra quelli che presentano le peggiori condizioni in materia di sicurezza sul lavoro, mancanza di assicurazione sociale e diritti sindacali. Nella fabbrica in cui lavoravano le tre vittime erano impiegati almeno duecento operai, per la maggior parte donne, il 70% dei quali senza protezione sociale. Secondo il sindacato TEKSTIL l’impiego di donne e ragazzi, assenza di assicurazione sociale e bassi salari sarebbero condizioni ampiamente diffuse nel settore tessile.
Sindacato al 5%, bambini a quota 469.000
La giovane età di due delle vittime di Bursa ha poi ricordato al paese la realtà del lavoro minorile.
La Turchia è tra i paesi che aderiscono al programma internazionale per la lotta al lavoro minorile promosso dall’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro). La legge turca sul lavoro proibisce l’impiego per i ragazzi che non abbiano compiuto il quindicesimo anno di età. Una eccezione è però prevista per coloro che si trovino tra i 14 e i 15 anni, a condizione che non vengano impiegati in lavori pesanti. Come sottolinea l’avvocato Ozeren di Istanbul, però, nella realtà, soprattutto nel settore tessile, questa indicazione viene spesso disattesa. Le statistiche ufficiali sulle dimensioni del fenomeno del lavoro minorile sono piuttosto contraddittorie. Le più attendibili sono probabilmente quelle fornite dal ministero del lavoro nel 2004, secondo cui i bambini, compresi nella classe di età 12-14 anni, inseriti nel mondo del lavoro sarebbero 469.000.
I sindacati hanno poi più volte ricordato che incidenti come quello di Bursa sono una diretta conseguenza della debole presenza del sindacato nelle fabbriche turche. Per l’ex segretario del sindacato KESK Sami Evren “solamente il 5% dei lavoratori aderisce ad un sindacato.”
E del problema dei diritti sindacali in Turchia ha cominciato ad occuparsi anche l’Unione Europea lo scorso ottobre durante l’elaborazione del Rapporto annuale sullo stato di avanzamento delle riforme. In quella occasione a Bruxelles è stato organizzato un incontro con i rappresentanti dei principali sindacati del paese chiamati a tracciare il quadro della situazione. Un quadro preoccupante che aveva spinto Olli Rehn, responsabile UE per l’allargamento, a dichiarare: “Continuano serie limitazioni per quanto riguarda i diritti di aderire al sindacato, la contrattazione collettiva ed il diritto di sciopero. Siamo ancora lontani dagli standard fissati dall’ILO”. E gli esempi non mancano certo: il divieto di scioperare imposto ai minatori da parte del governo per “ragioni di sicurezza nazionale” oppure la reazione della polizia contro gli insegnanti del sindacato EGITIM-SEN che lo scorso novembre cercavano di manifestare ad Ankara. Il dato più eclatante riguarda però i licenziamenti motivati dall’adesione ad un sindacato. Secondo il rapporto di Turk-Is presentato a Bruxelles, nel 2004 sono stati 11.968 i lavoratori che hanno perso il posto per essersi iscritti al sindacato.
Il vertice di Bruxelles ha fatto nascere molte attese rispetto alla possibilità che la UE possa giocare un ruolo importante su di un aspetto del processo di democratizzazione e di trasformazione della società turca, il mondo del lavoro, fino a questo momento sostanzialmente trascurato. Il bisogno della presenza europea si fa ancora più urgente se si tiene conto della latitanza dell’opposizione politica, in primis il partito CHP (Partito Repubblicano del Popolo), in materia di questioni sociali e sindacali, sulle quali si fa notare per il suo silenzio assordante.
La domanda però che molti si pongono è se l’attuale clima politico che si respira in diversi paesi dell’Unione sia realmente propizio per spingere la UE ad assumere questo ruolo.