Una conversazione con Jakob Finci, presidente della Comunità ebraica bosniaca e dell’Associazione per la verità e la riconciliazione. Il ruolo dei Tribunali, i rischi legati all’edificazione di Memoriali e alle dichiarazioni di scuse, il percorso della Commissione per la verità
Di Massimo Moratti, per ICHR, Newsletter n.5, gennaio 2006, (Titolo originale: “A transitional justice strategy in BiH - what is missing?”)
Jakob Finci
Jakob Finci è il presidente dell’Associazione per la Verità e la Riconciliazione ed è da sempre uno principali sostenitori di una commissione per la verità in Bosnia ed Erzegovina, la cui idea è stata recentemente rilanciata dall’iniziativa parlamentare, sostenuta dallo US Institute for Peace, mirante ad adottare una legge sulla Truth Commission in Bosnia ed Erzegovina
In Bosnia ed Erzegovina vi sono state molte iniziative che si sono occupate di giustizia, verità, riparazioni e riconciliazione. Dove pensa che vi sia la necessità di far qualcosa di più?
Personalmente, non credo che vi siano molte iniziative in questo campo che combinino tutti questi elementi. Molte iniziative infatti si sono occupate solo di uno di questi tre elementi. Per esempio, per quel che riguarda le riparazioni, non è facile trovare una soluzione semplice, in particolare prima che la Corte Internazionale di Giustizia si pronunci sulla disputa tra Bosnia ed Erzegovina e Serbia e Montenegro. Chi dovrebbe pagare a chi? Sarebbe anche alquanto sgradevole, o addirittura cinico, stabilire una sorta di “prezziario” per ogni tipo di violazione: quant’è per esempio l’indennizzo per uno stupro o per un giorno trascorso in carcere? In molti casi, la gente ha delle illusioni in merito alle riparazioni. Per esempio le Madri di Srebrenica credono che gli ebrei dopo la seconda guerra mondiale abbiano ricevuto dei compensi per le loro sofferenze, mentre questo in realtà accadde solamente in un numero molto ristretto di casi. Ecco perchè le riparazioni sono difficili da concepire al momento. La riconciliazione presenta anch’essa degli aspetti problematici, dato che ha principalmente un valore simbolico quando si parla di gruppi etnici. Chi infatti può dire di rappresentare un intero gruppo etnico e affermare di essersi riconciliato con gli altri gruppi? La riconciliazione ufficiale avverrà prima o poi, ma la riconciliazione ufficiosa e i rapporti tra i gruppi etnici non si sono mai interrotti durante il conflitto...
Alla luce del lavoro del Tribunale dell’Aja e dei processi per crimini di guerra svoltisi di fronte ai tribunali locali, ritiene che giustizia sia fatta, sia a livello di individui che di società?
Da questo punto di vista il ruolo del Tribunale dell’Aja era essenziale. Il problema era che il programma di
outreach, che divulgava il lavoro del Tribunale, non è stato sostenuto a sufficienza. La procedura stessa poi non è basata sul sistema legale esistente nella ex Yugoslavia, ma piuttosto sul sistema anglosassone, e alcune questioni come il patteggiamento della pena sono difficili da accettare per la gente di qui. In questo caso, puoi avere numerosi processi che si concludono, ma non c’è soddisfazione per le vittime.
Ritiene che la maggior parte delle vittime abbia la senzazione che giustizia sia stata fatta?
Il mio timore è che la Camera per i Crimini di Guerra (la nuova sezione creata all’interno della Corte di Bosnia ed Erzegovina, ndr) possa esser percepita come il Tribunale dell’Aja e quindi creare simili reazioni. Se la persona che per prima viene processata è un serbo, allora tutti i serbi penseranno che la Camera è schierata contro di loro e così via. Le vittime non sono mai soddisfatte dell’operato della Corte e in alcuni casi nemmeno la punizione capitale sarebbe ritenuta sufficiente.
Ritiene che, oltre ai colpevoli, si debba prestare attenzione anche a coloro che hanno collaborato e che seguivano gli ordini e la propaganda nazionalista? Occorre considerare l’impatto che hanno i criminali di guerra che, scontate le condanne, ritornano a vivere dove vivevano prima della guerra?
Molti non si considerano colpevoli e credono che allora stessero facendo la cosa giusta, e tra di loro vi sono quelli che cooperavano con i colpevoli. Per loro è molto difficile accettare il fatto che possano aver sbagliato. C’è bisogno di una serie di gesti per lasciarsi alle spalle certe cose. Quando poi si tratta di coloro che hanno già scontato le pene, se accettiamo il Tribunale e le sue regole, allora dobbiamo riammetterli nella società. Ad ogni modo, queste persone ritorneranno a vivere nella loro comunità, dato che la società è divisa in tre segmenti e per loro in genere non è un problema essere riammessi.
Si riesce a valutare l’impatto del numero crescente di processi per crimini di guerra e il trasferimento dei casi dall’Aja in Bosnia?
I tribunali locali non sembrano esser pronti per questo. L’efficienza della Camera per i Crimini di Guerra sembra essere anch’essa in dubbio ed è ancora aperta la questione se i giudici siano pronti a processare gente del loro stesso gruppo etnico. Se confrontiamo questo con l’esperienza della seconda guerra mondiale, mentre il Tribunale di Norimberga può corrispondere all’Aja, dobbiamo prendere in considerazione il fatto che i processi presso i tribunali locali sono avvenuti solo parecchi anni più tardi. Un altro problema collegato con i processi locali per i crimini di guerra è che c’è una sorta di competizione tra i vari stati per decidere quale degli stati perseguirà giudizialmente le persone indiziate di crimini di guerra. Molti croati bosniaci e serbi bosniaci sono stati trasferiti all’Aja attraverso la Croazia o la Serbia e allora appare logico che lo stato che li ha convinti a consegnarsi, li riottenga indietro. Un’altro aspetto interessante è la cittadinanza: per esempio Lukic, arrestato in Argentina, al momento dell’arresto non aveva la cittadinanza di Serbia e Montenegro, ma più tardi l’ha ricevuta, rinforzando in questo modo le ragioni per cui lui dovrebbe essere processato in Serbia.
Ritiene che vi sia il bisogno di un programma “outreach” sui crimini di guerra mirato a gruppi specifici? Cosa bisognerebbe fare per portare questi processi più vicino alla gente?
Un programma di questo genere è ancor più importante dell’avvio dei processi, e dovrebbe raggiungere l’intera popolazione, non solo le vittime.
Per quel che riguarda il processo di verità e riconciliazione, ritiene che il processo debba puntare alla verità e alla riconciliazione o forse il focus dovrebbe essere solamente sullo stabilire la verità?
Penso che la verità sia molto più importante che la riconciliazione, e che comunque ci porterà molto più facilmente alla riconciliazione. Al momento ci sono tre versioni dei fatti, ma dovremmo includere nel processo anche la versione della comunità internazionale e quella delle vittime. Se, comunque, riuscissimo a stabilire i fatti, sarebbe molto facile per tutti noi. Nessuno vuole ritornare al concetto di fratellanza e unità, ma non possiamo vivere con tre verità che vengono poi ripetute anche nel sistema scolastico ufficiale.
Per quel che riguarda la coesistenza e riconciliazione futura, ha in mente procedure specifiche che possano facilitare questo sviluppo?
La riconciliazione sarà aiutata dal tempo, ma ogni mossa mira a ridurre il periodo necessario per ottenere la riconciliazione. Non abbiamo 50 anni per far questo. La verità cambia col tempo e assume un aspetto diverso. Aprire gli archivi, raccogliere testimonianze orali, aiuterà a trovare più fatti e costruire la verità. In Serbia nell’anniversario di Srebrenica la gente ha sentito cose a cui prima non poteva credere, come il video degli Scorpioni che aiuterà il procuratore nel processo contro Milosevic…
Pensa ci sia bisogno di scuse ufficiali per i crimini commessi da parte delle autorità ufficiali e che provengano da tutte le parti del conflitto? È visibile l’impatto delle recenti dichiarazioni rilasciate dal governo della Republika Srpska (RS), principalmente il presidente della RS Cavic su Srebrenica o altre dichiarazioni simili, come quelle provenienti dalla Serbia?
Penso che, in molti casi, simili scuse e riconoscimenti facciano parte del gioco, purtroppo molte dichiarazioni simili sono rilasciate solamente a uso e consumo della comunità internazionale e infatti la gente non si aspetta da noi che ci assumiamo delle responsabilità per tali atti.
È importante considerare il ruolo dei politici durante e dopo il conflitto, allo scopo di stilare delle possibili “lessons learned”, lezioni apprese, per quel che riguarda la manipolazione politica?
Uno dei punti principali che stiamo considerando per la Commissione Verità e Riconciliazione è che dovrebbe stilare delle raccomandazioni per i politici del futuro. Stabilire delle “lessons learned” per loro, sarebbe senz’altro uno dei risultati della Commisisone per la verità e riconciliazione.
Oltre a dichiarazioni pubbliche da parte dei politici, ritiene che vi sia il bisogno di costruire monumenti e memoriali come per esempio a Potocari o al previsto monumento presso la miniera di Omarska? È preoccupato che questi possano servire come un fattore di ulteriore divisione?
È vero. Sono preoccupato che i memoriali, se mal usati, possano produrre ulteriori divisioni, come è già accaduto in alcuni casi infatti. È difficile paragonare i memoriali di qui con Auschwitz per esempio: ad Auschwitz non era la popolazione locale ad essere la vittima, ma altre persone, mentre qui la popolazione locale è sempre una delle parti in gioco. Un’ottima idea è il Giardino dei Giusti di Svetlana Broz, che merita sostegno. Anche in quel caso, chi fece buone azioni durante la guerra all’inizio aveva paura di parlare dato che veniva considerato come un traditore: ma questi esempi sono necessari, dobbiamo dar loro riconoscimento e riaffermare il fatto che le popolazioni della Bosnia ed Erzegovina sono vissute assieme per 500 anni senza uccidersi a vicenda.
Dove collocherebbe la sua iniziativa e il lavoro della sua organizzazione in questo processo di verità e riconciliazione?
La nostra iniziativa passerà attraverso alcuni mesi cruciali. Stiamo facendo lobby per l’approvazione della legge sulla creazione di una Commissione per la verità e la riconciliazione, ma ciò dovrebbe accadere presto, perchè quest’anno abbiamo le elezioni e non si riuscirà a fare molto. Naturalmente, tutti i politici dicono di essere “a favore della Commissione, ma le altre parti...” Quel “ma” riflette tutte le loro preoccupazioni. Un’altra difficoltà sono le persone della diaspora, che in molti casi sono contro Dayton e vogliono ancora finire la guerra. Dayton non è una soluzione perfetta, ma la gente ha semplicemente troppa paura per cambiarlo. L’Ufficio dell’Alto Rappresentante (OHR) non sembra pronto a spingere per la Commissione prima delle elezioni. Le loro preoccupazioni sono più collegate alle riforme della polizia o del settore difesa. È comprensibile che Ashdown voglia concludere con un successo, come la firma dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione, ma anche in quel caso, non cambierebbe molto. Il futuro della Bosnia non dipende solo dai bosniaci, che spesso non vengono nemmeno interpellati, ma anche dalla situazione nei paesi vicini, come la Serbia, il Montenegro o il Kossovo...