Dietro un cancello chiuso: Amnesty International denuncia la discriminazione sul lavoro in Bosnia Erzegovina. I casi della Aluminij di Mostar e della Ljubija di Prijedor. Inutile restituire le case ai profughi se assunzioni e licenziamenti sono ancora appannaggio dei signori della guerra
Mostar, la Aluminij
Il 26 gennaio scorso, con una conferenza stampa tenutasi a Sarajevo, Amnesty International ha lanciato il suo ultimo rapporto: “Behind closed gates: Ethnic discrimination in employment in Bosnia ed Erzegovina” [Dietro un cancello chiuso: discriminazione etnica sul lavoro in Bosnia ed Erzegovina, ndr].
Il rapporto affronta il tema della discriminazione sul posto di lavoro in Bosnia ed Erzegovina, un tema di cui non si parla molto ma che è tuttavia ben presente. L’organizzazione per i diritti umani denuncia infatti la discriminazione sul lavoro come uno dei fattori che più ha rallentato il ritorno degli sfollati e rifugiati in Bosnia ed Erzegovina.
Le radici di tale discriminazione si trovano nel conflitto, quando la pulizia etnica fu accompagnata da licenziamenti di massa dei lavoratori appartenenti all’etnia sbagliata. Tali licenziamenti in massa avvenivano durante le fasi iniziali della pulizia etnica ed erano il preludio alle deportazioni forzate delle minoranze. In particolare, le zone sotto controllo serbo e quelle sotto controllo croato furono quelle dove queste pratiche furono più evidenti.
Al giorno d’oggi, se da un lato le proprietà e le abitazioni sono state in larghissima parte restituite, Amnesty constata che non si è fatto abbastanza per favorire la sostenibilità del ritorno e l’eliminazione delle discriminazioni sul posto di lavoro. Poco è stato fatto per permettere ai lavoratori licenziati durante il conflitto di poter ritornare ai loro impieghi. Coloro che ritornano alle proprie case sono sistematicamente discriminati nell’accesso al lavoro. Questi fenomeni perpetuano la pulizia etnica originatasi nel corso del conflitto, e hanno di fatto condizionato negativamente il ritorno degli sfollati e rifugiati alle proprie case.
La riforma delle legislazioni locali in materia di lavoro è risultata largamente inadeguata ad affrontare il problema e per di più non viene nemmeno applicata. Sia la Republika Srpska che la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, nel 2000, hanno adottato delle misure legislative che miravano a regolare i rapporti di impiego che erano stati terminati nel corso del conflitto. Purtroppo, tali misure equivalgono sostanzialmente a dei palliativi, perchè ai lavoratori viene garantito solamente un compenso simbolico per tali licenziamenti, mentre la possibilità di ritornare al proprio impiego è di fatto esclusa. A complicare ancor di più la situazione, la crisi economica del paese e la transizione produttiva che hanno fatto sì che tale compenso simbolico sia pagato solamente in rarissime occasioni.
Gli investitori esteri, che stanno lentamente arrivando nel paese, non sembrano tener conto di questa situazione e si trovano ad agire in un contesto dove la forza di lavoro è praticamente monoetnica. Nonostante non siano attori istituzionali, le imprese multinazionali che vengono ad operare in Bosnia ed Erzegovina sono comunque tenute a rispettare la cosiddetta “corporate responsability”, cioè la responsabilità dell’azienda di rispettare i diritti umani e i principi di non discriminazione come previsto dalle cosiddette “Norms for Business” delle Nazioni Unite, che prevedono per l’appunto che imprese multinazionali non debbano trarre profitto da crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità.
2 casi simbolo
Tali appelli sembrano comunque esser stati largamente inascoltati. Amnesty International porta ad esempio due casi emblematici: l’impresa Aluminij in Mostar e l’impresa mineraria Ljubija in Prijedor.
L’Aluminij prima del conflitto era una delle più grosse imprese sociali dell’ex Jugoslavia ed impiegava lavoratori di tutti e tre i gruppi etnici della zona di Mostar. Alla fine del conflitto, invece, l’impresa, che vanta partenariati importanti tra i quali anche la Daymler Chrisler e la Fiat, rimase sotto il controllo dei croati bosniaci. L’impresa fu poi parzialmente privatizzata in modo poco trasparente e da allora ha condotto una politica di discriminazione etnica. Oggi, il 93% della forza lavoro è composta da croati bosniaci. La testimonianza di Nebojsa Spajic, un serbo che lavorava all’Aluminij, è particolarmente significativa: “Durante la guerra lavoravamo 15-16 ore, assieme a 150 colleghi, anche sotto i bombardamenti: volevamo continuare a far andar avanti la fabbrica, ma poi ci licenziarono, perchè eravamo serbi o musulmani. Non dico di essere un lavoratore licenziato, no, dico di esser un lavoratore serbo e questa è la ragione per cui mi è stato chiesto di non ritornare al lavoro”.
È leggermente diverso il caso delle miniere di Ljubija. Dopo che i serbi presero il potere a Prijedor, l’impresa, che ha ben tre siti minerari nella municipalità di Prijedor, licenziò circa 2.000 lavoratori non serbi, molti dei quali furono poi rinchiusi nei tristemente famosi campi di concentramento di Omarska, Keraterm e Trnopolje. I lavoratori non serbi a quel tempo furono informati dalla radio del loro licenziamento, e a nulla valsero gli appelli e le richieste di essere riammessi. Dopo la guerra, mentre Prijedor è stata teatro di un massiccio ritorno di bosgnacchi [bosniaco musulmani, ndc], le miniere sono rimaste largamente inattive fino al 2004, quando la compagnia Mittal Steel ha acquistato la quota di maggioranza. Mittal Steel, compagnia anglo-indiana, è il più grande produttore di acciaio mondiale. Nonostante questo, la compagnia non ha messo in atto nessuna misura per riassumere i lavoratori non serbi che erano stati licenziati nel corso del conflitto.
Nelle sue conclusioni e raccomandazioni, Amnesty International ribadisce la necessità di risolvere questi problemi: se le imprese sostengono di non essere in grado di pagare degli indennizzi per i lavoratori licenziati, Amnesty suggerisce altri metodi di risolvere il problema, che non rappresentano un onere eccessivo per le imprese, come formazione o creazione di fondi speciali per compensare i lavoratori. Amnesty invita le autorità della Bosnia ed Erzegovina e la comunità internazionale ad adottare un piano coerente e onnicomprensivo per risolvere il problema della discriminazione sul lavoro, soprattutto per quanto riguarda le politiche di assunzione, promozione, livello salariale eccetera. In particolare, Amnesty sottolinea la necessità di una “affirmative action” [discriminazione positiva, ndc] per favorire il ritorno al lavoro di coloro che hanno fatto ritorno alle proprie case. Imprese come Mittal Steel e Aluminij Mostar devono far sì che non solo le prassi di discriminazione cessino, ma anche che le “Norms for Business” delle Nazioni Unite siano applicate, allo scopo di garantire l’uguaglianza di trattamento dei lavoratori e l’eliminazione di ogni forma di discriminazione.