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Hasankeyf e la diga sul Tigri

17.02.2006    scrive Fabio Salomoni

Cresce la mobilitazione ambientalista in Turchia contro il progetto di edificazione della diga di Ilisu, parte integrante del Progetto dell’Anatolia Orientale. Convocato dal coordinamento “Facciamo vivere Hasankeyf” un convegno per il 19 febbraio prossimo a Diyarbakir. Nostro reportage da Hasankeyf
Hasankeyf
Nel triangolo compreso tra le città di Diyarbakir, Batman e Mardin, il villaggio di Hasankeyf rappresenta uno dei tesori storico-artistici della Turchia sud-orientale. Uno dei più antichi insediamenti della Mesopotomia come recitano le guide turistiche che attribuiscono 12.000 anni di storia a questo villaggio che per la sua gran parte è abbarbicato sulle sponde rocciose della riva destra del Tigri, che qui scorre largo e veloce. “E’ il luogo dove si incontrano le culture provenienti dall’Asia Centrale, dall’Iran, dalla Mesopotamia con quelle provenienti da Occidente” ricorda il professor Arik dell’Università di Canakkale, che ad Hasankeyf scava dal 1985.

Le migliaia di grotte, ancora abitate fino a pochi decenni fa, che scavano lo sperone di roccia che troneggia sul paese testimoniano di quanto antiche siano le tracce di insediamenti umani. I resti della rocca che sovrastano il paese ci ricordano come questa parte della Mesopotamia sia stata a lungo contesa tra Bizantini e i Sassanidi, prima che a partire dal 638 d.C. fossero popolazioni islamiche, iraniche, curde, arabe e turche a contendersi la regione. Una sovrapposizione di civiltà e culture che hanno lasciato ampie tracce del loro passaggio.

A cominciare dalle arcate che stanno maliconicamente piantate al centro del letto del Tigri, ricordo di uno ponte costruito nel 1100 e poi in parte andato distrutto nel 16° secolo. Oppure l’elegante silhouette del minareto della moschea El-Rizk che svetta tra le case del paese. Sulla riva opposta del Tigri poi si erge, nella sua orgogliosa solitudine, la turbe (tomba) che Mehmet il Lungo, capostipite della tribù turcomanna del Montone Bianco, ha voluto erigere intorno al 1400 al figlio maggiore Zeynel, morto in giovane età. Sulla cupola sono ancora visibili alcune delle tessere di ceramica azzurra che un tempo la ricoprivano completamente, testimonianza dei legami con la cultura persiana dell’architetto che l’ha realizzata.

Su questo gioiello della cultura mesopotamica, inserito in un contesto di grande ricchezza naturalistica quale quello della valle del Tigri, incombe però da più di cinquant’anni lo spettro dell’annientamento. Risalgono infatti al 1954 i primi passi per la elaborazione del progetto della diga di Ilisu che, una volta completata, sommergerebbe l’intero paese. Progetti che nel corso degli anni ’70 e ’80 si sono fatti più dettagliati. Nel 1988 lo stato turco ha però dovuto riconoscere l’impossibilità di garantire i finanziamenti necessari. Della diga di Ilisu si è ritornati a parlare nel 1999 con la creazione di un consorzio internazionale, guidato dalla svizzera Sulzer AG, disposto a finanziare e realizzare i lavori. All’epoca però le proteste e le mobilitazioni internazionali avevano fatto desistere dal proposito le ditte coinvolte ed il progetto ancora una volta era finito nel dimenticatoio.

Per poco però, perchè dopo alcuni anni di silenzio, che avevano fatto nascere speranze per un rilancio in chiave turistica di Hasankeyf, le voci di una ripresa dell’attività intorno al progetto della diga hanno ricominciato da mesi a farsi più insistenti.

La ripresa dell’interesse per la diga di Ilisu coincide con il ritorno nell’agenda politica del paese della questione dello sfruttamento delle acque.

Un recente comunicato stampa del MGK (Consiglio per la Sicurezza Nazionale) ad esempio, sottolineava la necessità per il paese “di sfruttare maggiormente la ricchezza delle acque correnti”, raccomandando la costruzione di dighe soprattutto lungo il Tigri e l’Eufrate. L’obbiettivo è quello di fare in modo che “non rimangano acque che scorrono inutilizzate”. Dal canto suo la Direzione Statale per le Acque (DSI), l’ente che gestisce la politica idrica della Turchia, prevede nei suoi documenti di portare la quantità d’acqua usata nel paese - per scopi industriali, agricoli e civili - dagli attuali 40 miliardi di metri cubi a 112 miliardi nel 2030 e raddoppiare la quantità di superficie irrigata, attraverso la realizzazione di un imponente numero di dighe e centrali idroelettriche. Dighe sparse in tutto il paese, nell’Anatolia centrale, in quella nord-orientale, in particolare Artvin/Yusufeli al confine georgiano ma soprattutto nell’Anatolia sud-orientale. Quando si parla di dighe nella Turchia sud-orientale significa obbligatoriamente fare riferimento al Progetto dell’Anatolia Orientale (GAP). Il gigantesco progetto, avviato alla fine degli anni ’70, con l’obbiettivo di arrivare, una volta completato, alla costruzione in 7 province della regione, sfruttando soprattutto le acque del Tigri e dell’Eufrate, di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche, in grado di produrre 27 miliardi di kWh l’anno e di irrigare 1,7 milioni di ettari. La spesa prevista, completamente a carico dello stato turco, è di 18,3 miliardi di dollari.

Il GAP costituisce il primo esempio di un piano di sviluppo economico regionale per le regioni dell’Anatolia sud-orientale, tradizionalmente ignorate dall’intervento dello stato per tutto il corso della storia repubblicana. L’obbiettivo del GAP era sul piano strettamente economico quello di produrre energia elettrica a basso costo ed aumentare la superficie coltivabile della regione favorendo anche una redistribuzione della proprietà terriera che nella regione ha una struttura di tipo latifondista. Il GAP quindi non solo progetto di sviluppo economico ma anche un opera di ingegneria sociale destinata a modernizzare la regione. Come scrive il sociologo Caglar Keyder, “sul piano teorico, per quanto riguarda i suoi obbiettivi, si tratta di un progetto sul quale è difficile non essere d’accordo”.

I problemi invece nascono sul piano della sua realizzazione pratica.

Fino a questo momento sono stati spesi 8,5 miliardi di dollari, completati il 70% dei progetti idroelettrici e solo il 12% di quelli relativi all’irrigazione.

Controversi anche gli effetti che il GAP ha prodotto sugli equilibri ambientali della regione, sulla effettiva efficacia delle politiche agricole che lo hanno accompagnato per non dimenticare le contese sul piano internazionale che ha innescato con i paesi confinanti, l’Irak e la Siria, che vedono diminuire la portata del Tigri e dell’Eufrate una volta varcati i loro confini.

E’ ancora Caglar Keyder a sottolineare poi come la debolezza principale del progetto sia da individuare nel ritardo con cui è stato iniziato: se fosse stato avviato negli anni ’60 avrebbe potuto dare un serio contributo alla risoluzione dei complessi problemi socio-economici che colpiscono la regione e favorirne l‘integrazione con il resto del paese. L’attuale congiuntura interna ed internazionale, sul piano economico e politico, presenta “condizioni che contribuiscono ad abbassare di molto le probabilità che un progetto come il GAP possa raggiungere i suoi obbiettivi”.

Del GAP la diga di Ilisu costituisce parte integrante. Il moltiplicarsi delle voci su un possibile rilancio del progetto hanno riportato l’ombra dell’incertezza sulla vita di Hasankeyf. Camminando per le strade del paese, chiaccherando con i negozianti e gli uomini che stanno a sorseggiare tè seduti per la strada in attesa di qualcosa da fare - la stagione turistica dura pochissimo ed il paese ha un’economia di sussistenza - si percepisce immediatamente il groviglio di sentimenti contrastanti che animano gli abitanti di Hasankeyf ed il loro rapporto con la diga. Irritazione, rassegnazione, la voglia che finisca la sensazione di essere costantemente sospesi nell’incertezza.

Yusuf ha un negozio che si affaccia sulla strada principale che si arrampica per le strade del paese: “Stiamo male da 20 anni, nessuno fa investimenti, i negozianti stanno male, si dice che si farà la diga, che la facciano se la vogliono fare e finiamolo con questa sofferenza. Da 20 anni siamo in queste condizioni, nessuno si preoccupa dei nostri problemi”.

Hasan è un giovane lattoniere: “Ho 24 anni, sono nato e cresciuto qui, si parla sempre della diga e intanto non succede niente, nessuno fa investimenti… Ci sono delle voci ma nessuno ci dice nulla. Ho visto alla tv il progetto di Hasankeyf sott’acqua, se avessi avuto soldi avrei fatto causa, come si permettono?”

Tre camionisti di mezza età, disoccupati: “Abbiamo lavorato trent’anni, adesso non c’è niente da fare. Hasankeyf potrebbe essere un gioiello, la nostra storia è ricca, questa è una regione turistica... ed invece non c’è nemmeno un albergo, ci potrebbero essere ristoranti, caffè... i giovani se ne vanno ma qui perchè non potrebbe essere come Marmaris e Bodrum?”

Inizialmente, di fronte alle voci di una ripresa dei lavori per la diga, era intervenuto nei mesi scorsi anche il presidente Erdogan con l’intento di rassicurare. In tre diversi occasioni aveva data garanzie sul futuro del paese: ”Hasankayf si salverà”. Anche il direttore provinciale del DSI di Batman aveva rassicurato tutti rivelando che “su indicazione del presidente Erdogan il fascicolo della diga di Ilisu è stato archiviato”.

L’ottimismo però ha avuto vita breve. Negli ultimi giorni del 2005 i rappresentanti locali e nazionali del DSI hanno organizzato una serie di incontri nelle città della regione. Accompagnati da rappresentanti del consorzio internazionale, che comprende ditte turche, svizzere, tedesche ed austriache, che finanzierà e realizzerà il progetto, hanno messo la popolazione di fronte alla realtà: la diga si farà. I lavori cominceranno nella primavera del 2006,dureranno sette anni ed il costo dell’intera operazione è previsto in 1.200.000 euro.

Al termine dei lavori, la diga, “una delle opere fondamentali del GAP”, “la seconda diga del paese”, come l’hanno definita, le cui acque raggiungeranno i 526 metri di altezza, produrrà 3833 Gwh l’anno, che in termini economici significano 300 milioni di dollari. Saranno più di 200 gli insediamenti umani che finiranno sommersi dalle acque costringendo più di 80.000 persone ad abbandonare le loro case.

Le parole di Nuri Ozbagdatli, rappresentante dell’associazione Doga (Natura) di Ankara, ben riassumono lo stupore e l’irritazione di quanti – autorità locali, rappresentanti della società civile, semplici cittadini, erano presenti agli incontri: “Si sono presentati all’incontro sostenendo che per gli abitanti della regione si trattava di un giorno di festa. I villaggi saranno reinsediati e la diga creerà 70-80.000 posti di lavoro.”

Irritazione e stupore che hanno avuto come effetto immediato quello di rivitalizzare tutti coloro che non vogliono assistere passivamente alla distruzione di Hasankeyf.

Il 3 gennaio si è così costituito il Coordinamento “Facciamo vivere Hasankeyf” che riunisce una trentina di realtà - autorità locali come i comuni di Diyarbakir, Batman, Hasankeyf, ambientalisti, sindacati, associazioni dei diritti umani.

“Impediamo che 12.000 anni di storia finiscano sott’acqua” è lo slogan che il coordinamento ha scelto per il suo impegno, che spera anche in una mobilitazione internazionale, nella difesa dell’unicità del patrimonio storico, culturale e naturalistico di Hasankeyf nonchè dei diritti civili e culturali delle popolazioni che saranno coinvolte dal progetto della diga. Nel primo documento elaborato dal coordinamento si criticano duramente gli incontri di presentazione del progetto: “Dietro la facciata rappresentata da espressioni quali partecipazione e trasparenza si cela la volontà di chiedere l’appoggio della popolazione ad un progetto deciso altrove e sopra le teste dei cittadini”.

Il coordinamento muove al progetto di Ilisu critiche dettagliate.

In primo luogo, il progetto non avrebbe rispettato gli standard internazionali previsti per opere di questo genere e che stabiliscono l’obbligo di informare costantemente le popolazioni coinvolte, garantirne partecipazione e consenso.

Nè il comune di Hasankeyf nè le associazioni della società civile sono state invitate la scorsa estate alla riunione di Ankara dove si discutevano le modalità di reinsediamento del paese. Il Rapporto di impatto ambientale (CED) ed il Piano di reinsediamento (YYEP) elaborati lo scorso luglio non sarebbero stati nemmeno tradotti in turco, impedendo quindi che le popolazioni della regione potessero essere informati sui particolari del progetto.

Per quanto riguarda poi il progetto di costituire un parco archeologico nel quale trasferire le opere storiche presenti ad Hasankeyf, da più parti si sollevano dubbi sulla reale fattibilità di un’operazione di questo genere e soprattutto si sottolinea come Hasankeyf ed il suo ambiente rappresentino un complesso storico monumentale impossibile da ridurre a singoli elementi, da prelevare e ricollocare altrove. Infine si sottolinea come siano state ignorate le ipotesi alternative al progetto. Da quelle più concilianti che prevedono una riduzione del livello delle acque della diga in modo da salvare Hasankeyf a quelle più radicali che consigliano di rivolgersi a fonti alternative, l’energia solare, per la produzione di elettricità.

I tempi però sono molto ridotti. Se la data di inizio dei lavori è prevista per il marzo prossimo, la prima scadenza è rappresentata dal 20 febbraio, data entro la quale alcune agenzie internazionali sono chiamate a esprimere il loro parere sulla conformità del progetto agli standard internazionali. Da questa valutazione dipenderà la decisione dei governi austriaco, svizzero e tedesco di concedere o meno al consorzio i crediti necessari per la realizzazione del progetto.

In questa prospettiva il Coordinamento “Facciamo vivere Hasankeyf” ha inviato una lettera ad una di queste società, la ERG di Zurigo, nella quale si chiede una proroga di 60 giorni rispetto alla scadenza del 20 febbraio. Proroga che permetterebbe la traduzione in turco dei rapporti CED e YYEP, cosa che darebbe alle popolazioni locali la possibilità di conoscere i dettagli del progetto ed esprimere le proprie valutazioni.

Nella lettera si ricorda anche come anche gli standard fissati dalla Banca Mondiale prevedano che le popolazioni coinvolte da questo genere di progetti debbano avere la possibilità di avere accesso a questa documentazione.

Per il 19 febbraio poi il coordinamento ha organizzato un convegno a Diyarbakir nel quale amministratori locali, ambientalisti, archeologici e società civile discuteranno della diga e del futuro di Hasankeyf.

Lentamente di questa mobilitazione locale in difesa di Hasankeyf si cominciano a vedere i primi timidi effetti anche a livello nazionale, con la comparsa di alcuni articoli sulla stampa e con un’interrogazione parlamentare presentata da un deputato del CHP nella quale, dopo aver ricordato le rassicurazioni fornite da Erdogan, si chiede se il ministero della cultura abbia espresso parere favorevole al reinsediamento di Hasankeyf.

Di fronte a quanto sta accadendo il pensiero corre inevitabilmente all’iscrizione che sovrasta l’ingresso della turbe di Zeynel Bey “ Questa è la tomba di Zeynel. Che Allah non gli faccia mancare la terra!”. Non sono ancora completamente perdute le speranze che Zeynel possa continuare a riposare nella stessa terra che suo padre scelse per lui più di 600 anni fa.

(1 - continua)

Vedi anche: Tigri d'Europa
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