Commento alla sentenza della Corte Costituzionale Bosniaca n. 23/2000
14.02.2002
Corte costituzionale Bosnia Erzegovina, sentenza 1 luglio (14 Settembre) 2000, causa U 5/98, in Službeni glasnik (gazzetta ufficiale) n. 23/2000 del 14 settembre 2000.
Interpretazione della costituzione – Conformità di disposizioni delle costituzioni delle entità con la costituzione statale – Incostituzionalità – Concetto di constituent peoples e di minoranze – Diritto all'autodeterminazione – Non discriminazione e principio di uguaglianza individuale e collettiva – Struttura istituzionale della Bosnia Erzegovina e composizione etnica – Rappresentanza e partecipazione politica – Parametri di valutazione
(la sentenza è attualmente rinvenibile in inglese in: http://www.ustavnisud.ba/english/Default.htm)
Bosnia Erzegovina: la Corte costituzionale fissa i confini della (nuova) società multietnica
1. – La sentenza che si annota può essere definita, senza timore di esagerazione, di portata storica. La sua importanza cruciale per il comparatista è data dall'ampiezza, dalla complessità e dalla delicatezza delle questioni trattate, che vanno a toccare tutti o quasi i "nervi scoperti" del diritto costituzionale, riprendendo i fondamenti essenziali della vita organizzata in una comunità politica regolata dal diritto. Questioni quali il significato della normatività della costituzione, del concetto di popolo, del diritto all'autodeterminazione, dell'appartenenza a minoranze, dei principi dello stato federale e multinazionale, della rappresentanza politica sono affrontati in una prospettiva e con una metodologia moderne, e la pronuncia viene pertanto ad assumere carattere esemplare non solo per la Bosnia Erzegovina, ma, in prospettiva, per l'intera Europa, che sempre più sarà confrontata con questo genere di questioni.
Dati per noti i tratti principali della situazione bosniaca, per poter comprendere la questione è tuttavia necessario ricordare alcuni aspetti particolari e premettere qualche precisazione terminologica. La Bosnia Erzegovina (BiH) è uno stato federale composto da due unità politico-territoriali, denominate «entità» (e non già «stati» membri), con un termine volutamente generico ma che in quel contesto assume una propria connotazione tecnica: la Federazione della Bosnia Erzegovina (spesso detta Federazione croato-musulmana), che costituisce il 51% del territorio, e la Repubblica serba, che ne occupa il 49%. Pertanto, in quel contesto, il termine «Federazione» indica l'entità croato-musulmana, mentre il livello centrale (e solo questo) è detto «stato»; a tale terminologia ci si atterrà nella trattazione. La costituzione statale non è un documento a sé stante, ma è inserita nell'accordo internazionale concluso a Dayton (e firmato a Parigi) il 14 dicembre 1995 (allegato 4) e, tra le sue varie peculiarità, contiene un esplicito riferimento agli standard e ai documenti di diritto internazionale (art. II e preambolo), dichiarando in particolare la prevalenza della convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU) su «ogni altra legge». Il preambolo indica «bosniaci, croati e serbi come popoli costitutivi (insieme ad altri)» dello stato: il termine, tutt'altro che univoco (narod in serbo-croato significa sia popolo che nazione), sembra assumere, nella versione inglese (constituent peoples), una connotazione più neutra che storico-etnica, e per questo si rende qui in italiano con «popoli costitutivi» anziché con espressioni che più enfatizzano il dato etnico come ad es. «nazioni originarie». Tra le istituzioni statali, particolare rilievo viene conferito alla corte costituzionale, composta da nove giudici, tre dei quali di nomina internazionale (gli altri sei sono espressi due ciascuno dai tre popoli costitutivi), e competente, tra l'altro, a conoscere in via principale della compatibilità delle disposizioni delle costituzioni delle entità con quelle della costituzione statale, su richiesta di un membro della presidenza, del presidente del consiglio dei ministri, del presidente o del vicepresidente di ciascun ramo del parlamento, di ¼ dei membri di ciascuna camera del parlamento dello stato o dei parlamenti delle entità (art. VI.3 lett. a) cost.).
In questo contesto, nel febbraio 1998 l'allora capo della presidenza dello stato Izetbegovič ha sollevato questione di legittimità costituzionale di oltre 80 disposizioni delle costituzioni delle entità rispetto alla costituzione dello stato, riguardanti aspetti assolutamente centrali per determinare l'effettiva esistenza e la natura giuridica dello stato della Bosnia Erzegovina. Tra le disposizioni eccepite vi erano in particolare la previsione nella costituzione della Republika Srpska (RS) del diritto all'autodeterminazione del popolo serbo, la definizione della RS come «stato del popolo serbo e di tutti i suoi cittadini», le relazioni preferenziali «con altri stati del popolo serbo», l'ufficialità della lingua serba e dell'alfabeto cirillico, il sostegno statale alla chiesa ortodossa, le limitazioni al diritto di proprietà, le competenze dell'entità in tema di difesa e relazioni internazionali, la creazione di una propria banca nazionale. Con riferimento alla costituzione della Federazione della Bosnia Erzegovina si contestavano la previsione di bosniaci e croati come constituent peoples dell'entità, l'ufficialità delle lingue bosniaca e croata e previsioni analoghe a quelle delle Republika Srpska in materia di difesa e rapporti internazionali.
Data la complessità delle questioni proposte (e le difficoltà anche politiche incontrate, con innumerevoli tentativi di bloccare l'iter deliberativo, anche con le dimissioni di due giudici), la causa è stata ripartita in quattro decisioni parziali. La prima (31 gennaio 2000, in G.U. n. 11/2000 del 17 aprile) aveva ad oggetto alcuni non trascurabili aspetti terminologici, tra cui l'uso della parola «confine» (border anziché boundary nella versione inglese, granica in serbo-croato) per indicare la demarcazione tra le entità. La seconda (19 febbraio 2000, in G.U. n. 17/2000 del 30 giugno) ha trattato problemi ancor più delicati, dichiarando tra l'altro incostituzionale l'istituto della «proprietà sociale» (collettiva) che residuava nella Republika Srpska dal periodo socialista, e soprattutto intervenendo pesantemente in tema di fonti, in particolare ricavando per via interpretativa una dottrina dei poteri impliciti dello stato, secondo un reasoning molto simile a quello utilizzato dalla corte suprema americana in McCulloch v. Maryland (1819) ed introducendo un sistema di competenze concorrenti, dichiarando legittima la legislazione di cornice (non prevista nella costituzione) cui l'Alto rappresentante (organo dell'OSCE non menzionato dalla costituzione ma al momento di fatto unico titolare del potere legislativo ed esecutivo statale) fa ampio ricorso. La decisione in commento costituisce la terza parte della questione, ed è quella più delicata sotto il profilo costituzionale e politico. La quarta, ad oggi ancora da decidere, riguarderà la questione linguistica (meramente ideologica in quanto, come noto, i tre popoli parlano essenzialmente la stessa lingua), quella religiosa e soprattutto il delicato problema dell'organizzazione costituzionale della difesa, anche se l'esito della decisione, in base a quanto emerge dalle tre parti finora decise, appare scontato nella dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni costituzionali delle entità soggette a controllo. Ecco dunque che la decisione parziale in parola diventa, tra le quattro, la più importante e delicata, ed è per questo che merita particolare attenzione.
2. – Il primo punto trattato nella decisione in commento si riferisce alla previsione, nella costituzione della Repubblica serba, del diritto all'autodeterminazione del popolo serbo («inalienabile e intrasferibile», nato dalla «lotta dei serbi per la libertà e l'indipendenza») e dell'intenzione di legare l'entità «ad altri stati del popolo serbo» (preambolo cost. RS), nonché della Republika Srpska quale «stato del popolo serbo e di tutti i suoi cittadini» (art. 1 cost. RS). Al di là del linguaggio quantomeno provocatorio, il punto di diritto riguardava la compatibilità della disposizione con il preambolo e gli artt. II.4, II.6 e III.3 della costituzione statale, in base ai quali nello stato vi sono tre constituent peoples (bosniaci, croati e serbi) i quali, «insieme agli altri cittadini», esercitano la sovranità sull'intero territorio senza poter essere discriminati in base, tra l'altro, all'appartenenza nazionale.
La (debole) difesa della RS sosteneva (citando Kelsen ma dimenticando la giurisprudenza del consiglio costituzionale francese, del tribunale costituzionale federale tedesco e della corte suprema canadese), che i preamboli delle costituzioni «solitamente» non hanno carattere normativo, e che le espressioni questionate dovessero intendersi come un mero richiamo all'«originario, unito, storico movimento nazionale serbo» ed alla sua «nazione dotata di una base etnica unitaria, che forma un sistema indipendente di poteri e legittima l'aspirazione a vivere autonomamente, sia pure come entità indipendente nel quadro di una comunità statuale più ampia» (sub 13).
Con un'argomentazione forse eccessivamente complessa, la corte ricorre essenzialmente alla natura internazionale della costituzione di Dayton per sciogliere il nodo. Semplificando il ragionamento, la corte sostiene che, essendo la costituzione parte integrante di un accordo internazionale, per la sua interpretazione deve valere il principio sancito dall'art. 31 della convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, secondo cui per l'interpretazione di un trattato deve ricorrersi anche «al preambolo e agli allegati». Poiché i principi generali del diritto internazionale (tra cui le regole sull'interpretazione) sono parte integrante della costituzione della Bosnia Erzegovina (art. III.3.b cost. BiH), ecco che i preamboli della costituzione statale e di quelle delle entità, che tali principi contengono, sono parti integranti dei testi costituzionali, hanno forza normativa e possono quindi rispettivamente fungere da parametro ed essere soggetti al sindacato di costituzionalità.
Sotto il profilo puramente formale l'argomentazione sembra reggere, ma in ottica sostanziale essa trascura il fatto che una costituzione, per quanto imposta internazionalmente, assume nel momento stesso della sua entrata in vigore le caratteristiche di una costituzione e non già di un trattato internazionale. La considerazione della costituzione come un trattato indica probabilmente una certa "sfiducia" della corte nell'attuale grado di penetrazione della costituzione imposta nel tessuto sociale dello "stato", e ciò è del resto comprensibile proprio considerando che le disposizioni eccepite miravano, nella sostanza, alla negazione dell'esistenza dello stato della Bosnia Erzegovina. Il ricorso all'ordinamento internazionale quale origine del momento costituente ed ancora unico depositario dei valori e dei principi costituzionali della Bosnia sembra da un lato paradossalmente confermare l'assenza di fatto di uno stato bosniaco, dall'altro rivela l'accoglimento da parte della (maggioranza della) corte della scelta di fondo della comunità internazionale per la concreta creazione di tale stato secondo il modello multietnico precedente al 1991. Per questo motivo il mero ricorso alle usuali tecniche di interpretazione costituzionale (e a quanto recentemente affermato ad es. dalla corte suprema canadese nel parere sulla secessione del Quebec del 1998, 2.S.C.R., 49, secondo cui «i principi [del preambolo] delineano gli elementi portanti dell'architettura della costituzione e ne costituiscono la linfa vitale») non sarebbe bastato a legittimare l'affermazione di principi vincolanti.
Un secondo aspetto, tra i tanti sollevati, merita considerazione. Le disposizioni impugnate della costituzione della RS parlano di «popolo serbo» e di «stato» in riferimento all'entità, e nel processo si è sostenuto (anche stavolta debolmente) che «le entità possono essere chiamate "stati" in base alla loro sovranità» (sub 28 – in senso analogo le dissenting opinions). La corte ha così gioco facile nel dichiarare che in tutti gli ordinamenti federali le costituzioni degli stati membri, la cittadinanza e tutti gli altri elementi connotativi della statualità sono concessi o garantiti dalla costituzione federale/centrale. In Bosnia, inoltre, la scelta terminologica del costituente non è stata casuale, e la decisione di chiamare «stato» soltanto il livello centrale ed «entità» le sue componenti è espressione del principio della statualità (intesa come soggettività internazionale) in capo soltanto allo stato (art. I.1 cost. BiH). Ne deriva che tutti i riferimenti, nel preambolo della costituzione della RS, «alla sovranità, all'indipendenza nelle decisioni, alla natura statale, all'indipendenza dello "stato", alla creazione di uno stato ed al suo collegamento stretto e completo con altri stati del popolo serbo violano gli artt. I.1, I.3, III.2a e 5 della costituzione della BiH, che stabiliscono la sovranità, l'integrità territoriale, l'indipendenza politica e la personalità internazionale della Bosnia Erzegovina» (sub 32). Le contestate disposizioni del preambolo della cost. RS sono dunque dichiarate incostituzionali.
3. – Connesso al tema della sovranità delle entità è l'ancor più complesso problema dell'individuazione del «popolo». Ai sensi dell'art. 1 cost. RS «la Republika Srpska è lo stato del popolo serbo e di tutti i suoi cittadini», mentre l'art. I.1 cost. Federazione indica «bosniaci e croati come popoli costitutivi, insieme ad altri,» della Federazione croato-musulmana. Per contro, il ricorrente sosteneva che in base alla costituzione statale tutti e tre i popoli (bosniaci, croati e serbi) sono constituent peoples nell'intero territorio della Bosnia Erzegovina, e dunque la RS non poteva dichiararsi lo stato nazionale di un solo popolo, né la Federazione lo stato di due soli dei tre popoli costitutivi della Bosnia. Inoltre, il funzionamento delle entità (specie della RS) come stati (mono-)nazionali impedirebbe l'attuazione del diritto fondamentale di profughi e rifugiati in seguito alla guerra e alla pulizia etnica di fare ritorno alle loro case. La corte viene chiamata in definitiva a pronunciarsi sul concetto di popolo, e su chi, in base a quali elementi e con quali garanzie è da considerarsi parte del «popolo/i costitutivo/i» dello stato e delle entità.
Per la corte la costituzione statale distingue chiaramente tra popoli (costitutivi) e minoranze, come risulta dall'art. II.4 cost. BiH che proibisce discriminazioni fondate, tra l'altro, sull'appartenenza a una minoranza nazionale. La questione diviene dunque «quale idea di stato multinazionale è perseguita dalla costituzione» della BiH e se l'accordo di Dayton, nel delimitare territorialmente le due entità, ha riconosciuto una separazione territoriale anche tra i tre popoli costitutivi (sub 53). Ricorrendo all'ausilio interpretativo fornito dal diritto internazionale (convenzione ONU contro la discriminazione razziale, convenzione quadro europea per la protezione delle minoranze nazionali e carta europea delle lingue regionali e minoritarie), dalla comparazione (corte suprema canadese nell'opinione sulla secessione del Quebec e tribunale federale svizzero nella decisione sulle lingue ufficiali) e dalla dottrina in tema di stato democratico e multietnico, la corte riconosce che l'ordinamento democratico richiede il compromesso, e che in uno stato multinazionale il compromesso tra culture e gruppi etnici (costitutivi e minoritari) vieta sia l'assimilazione degli stessi sia la loro segregazione. La delimitazione territoriale tra le entità non può dunque costituire un elemento di segregazione, ma dev'essere funzionale alla convivenza etnica «attraverso il mantenimento del pluralismo linguistico come strumento per l'integrazione di stato e società» (sub 57). Le entità hanno dunque un obbligo costituzionale a non discriminare quei popoli costitutivi dello stato che si trovino di fatto in una posizione minoritaria nel rispettivo territorio. Il divieto di discriminazione, insomma, non vale solo nei confronti degli individui (come espressamente stabilito dall'art. II.3 e 4 cost. BiH), ma anche dei gruppi, ed impedisce pertanto di accordare trattamenti preferenziali, nell'ordinamento giuridico delle entità, soltanto a uno o due dei tre popoli costitutivi. La corte ricava dunque un principio costituzionale di eguaglianza collettiva, che «proibisce qualunque speciale privilegio per uno o due [dei popoli costitutivi], qualsiasi forma di predominio nelle strutture di governo e ogni omogeneizzazione etnica attraverso la segregazione basata sulla separazione territoriale» (sub 60).
Il passaggio è particolarmente delicato, non solo e non tanto per quanto riguarda l'eguaglianza individuale e collettiva tra i constituent peoples e il divieto di segregazione etnica nell'ottica dello stato multinazionale, quanto soprattutto con riferimento alle disposizioni relative alla composizione etnica degli organi e dunque alla rappresentanza politica dei gruppi. Di tali disposizioni, com'è noto, la costituzione statale abbonda, presupponendo una fattuale coincidenza tra gruppi etnici e territorio in riferimento alla composizione degli organi statali (camera dei popoli, art. IV.1, presidenza, art. V, consiglio dei ministri, art. V.4, corte costituzionale, art. VI.1.a, banca centrale, art. VII.2). La corte affronta di petto la questione, leggendo nelle disposizioni sulla composizione della presidenza e della camera dei popoli (camera alta ed etnica del parlamento statale) un criterio di rappresentanza territoriale. Dal fatto che il membro serbo della presidenza non sia eletto solo dai serbi ma da tutti i cittadini della Republika Srpska, o che i delegati delle varie etnie alla camera dei popoli siano nominati dalle rispettive assemblee delle entità, la corte ricava una garanzia costituzionale che i popoli costitutivi "di minoranza" nelle entità (serbi nella Federazione, bosniaci e croati nella RS) possono partecipare allo stesso modo degli altri alla selezione dei rappresentanti del territorio nelle istituzioni statali.
È evidente, in questa lettura, un richiamo normativo ai principi che travalica il dato testuale della costituzione, che continua invece a riferirsi alla rappresentanza etnica. Come conciliare infatti questa interpretazione con la previsione che stabilisce che i rappresentanti della RS debbano essere serbi e quelli della Federazione divisi a metà tra bosniaci e croati? L'interpretazione territorial-funzionale data dalla corte si limita a riconoscere un diritto di partecipazione paritaria delle "minoranze" (in senso atecnico, stante quanto dimostrato in riferimento alla natura di popoli costitutivi delle tre etnie sull'intero territorio statale) alla selezione dei rappresentanti delle entità negli organi statali, ma resta il fatto che questa rappresentanza rimane di natura etnica, con la sola eccezione della camera dei rappresentanti, che infatti non è eletta su base etnica ma territoriale (l'art. IV.2, ad essa riferito, non menziona i gruppi etnici). Certo si potrebbe sostenere che "serbo" significa "rappresentante della RS", indipendentemente dalla sua appartenenza etnica, ma allora come si giustifica la distinzione (e la posizione obbligatoriamente paritaria) tra bosniaci e croati nella rappresentanza della Federazione? Insomma, in questo passaggio la finzione giuridica sembra prevalere sul dato fattuale: il principio ispiratore è quello della ricostituzione dello stato multietnico ed in quest'ottica vanno lette le disposizioni costituzionali anche quando l'effetto che esse nella realtà producono è diverso. Riconoscendo in qualche modo la contraddizione, la corte ammette che le disposizioni costituzionali che tengono conto del dato etnico come fattore per l'attribuzione di speciali diritti collettivi di rappresentanza e partecipazione politica violano il principio di non discriminazione, ma sono legittimate dal loro rango costituzionale, per cui non possono che rimanere in vigore, ma devono essere interpretate in modo restrittivo. Pertanto le disposizioni costituzionali relative alla composizione etnica delle istituzioni statali «non possono costituire una base costituzionale per giustificare il mantenimento della separazione territoriale dei popoli costitutivi a livello di entità» (sub 69).
In definitiva, la corte segue un ragionamento semplice per affrontare, scomporre e risolvere un problema complesso quale quello del dover essere della costituzione come strumento di composizione di un conflitto. La non discriminazione tra gli individui, formalmente rispettata dalla struttura istituzionale delle entità e dello stato (seguendo l'interpretazione territoriale appena vista e con i limiti, dalla stessa corte riconosciuti, dati dalle disposizioni costituzionali che violano il principio di non discriminazione e che per questo necessitano di interpretazione restrittiva), non significa comunque eguaglianza tra i gruppi. Con riferimento alla costituzione della RS, le disposizioni che definiscono la RS come «stato del popolo serbo e di tutti i suoi cittadini» (art. 1), indicano il serbo come sola lingua ufficiale (art. 7) o riconoscono la chiesa ortodossa come chiesa del popolo serbo (art. 28) pongono i serbi in una posizione privilegiata che non può essere giustificata in quanto non si tratta di una minoranza che necessita di misure di privilegio per mantenere la propria esistenza. Queste disposizioni si pongono pertanto in contrasto con la previsione della natura costitutiva dei tre popoli nell'intero territorio della Bosnia Erzegovina. A sua volta, questa previsione si giustifica in base allo spirito (più tecnicamente potrebbe dirsi ai principi super-costituzionali) dell'accordo di Dayton, in base al quale «relazioni pacifiche» si producono meglio in una società pluralista (art. VII dell'accordo), realizzabile solo col ritorno dei profughi e dei rifugiati alle loro case (allegato 7 e art. II.5 cost. BiH) e la creazione delle condizioni «politiche, economiche e sociali che favoriscano il ritorno volontario e l'armonica reintegrazione di profughi e rifugiati, senza preferenza per un gruppo in particolare» (all. 7, art. 2 accordo Dayton). Di conseguenza, tutte le disposizioni che in qualche modo violano o limitano il perseguimento di questi obiettivi pre- e metagiuridici, solo parzialmente giuridicizzati attraverso il richiamo all'ordinamento internazionale e al principio di non discriminazione, sono in contrasto con i principi fondamentali della forma di stato delineata dall'accordo di Dayton, dall'ordinamento internazionale dei diritti umani e dalla costituzione dello stato letta alla luce di tali super-principi.
Dato che lo stesso accordo di Dayton prevede che le parti (dunque le entità) «eliminino ogni atto legislativo o prassi amministrativa che abbia intento o effetto discriminatorio» (allegato 7, art. I.3 a), resta il problema di come accertare l'intento o l'effetto discriminatorio, ed a tal fine la corte si produce in un'elencazione di elementi di valutazione di un certo interesse in ottica comparata. Ricorrendo alla giurisprudenza della corte europea dei diritti dell'uomo e alle teorie sul principio di proporzionalità, la corte ritiene giustificata una discriminazione (intesa come diverso trattamento e violazione del principio di uguaglianza formale) solo quando essa sia riconducibile ad una legittima finalità pubblica, quando gli strumenti impiegati siano in grado di ottenere l'effetto voluto, quando tali strumenti siano necessari (siano dunque il mezzo meno invasivo per raggiungere l'obiettivo) e quando le deviazioni dal principio di uguaglianza siano proporzionate all'intensità dello scopo. Oltre che per violazione di questi criteri, la discriminazione può originare da una prassi amministrativa, dalla genesi storica della norma o dalla semplice inazione delle pubbliche autorità (sub 79). Tutti i pubblici poteri della Bosnia Erzegovina hanno dunque un obbligo positivo di creare le condizioni per la non discriminazione, facendo tutto quanto è necessario per consentire il miglior grado di reintegrazione dei profughi.
Per dimostrare che la RS non si è attenuta a questi obblighi, che i suoi pubblici poteri non hanno eliminato gli effetti della passata discriminazione e della pulizia etnica e che dunque la sua intera legislazione e prassi devono essere abolite o modificate alla luce di tale obbligo, la corte ricorre ai dati statistici. Da una comparazione demografica tra il 1991 e il 1997 (fonte IMG per il 1991 e stima UNCHR per il 1997) risulta così che nell'attuale territorio della Republika Srpska vivevano prima della guerra il 54,3% di serbi, il 28,77% di bosniaci, il 9,3% di croati e il 7,53% di "altri" (ossia minoranze etniche – altri popoli dell'ex Jugoslavia, ruteni, rom, rumeni, albanesi, ecc. – o religiose – ebrei), mentre oggi la realtà è quella di un'entità etnicamente omogenea: 96,79% di serbi, 2,19% di bosniaci, 1,02% di croati e 0% di minoranze. Se è vero che il 25% dei membri dell'assemblea nazionale della RS non sono serbi, è però vero che il governo è totalmente serbo (21 membri su 21), così come le forze di polizia (93,7%) e la magistratura (97,6%). Quanto ai ritorni dei profughi, al 31 gennaio 1999 erano tornati ben 88.003 serbi, a fronte di soli 9.212 bosniaci e 751 croati. Tutto ciò dimostra un'evidente diversità di trattamento tra profughi e rifugiati soltanto in base alla loro etnia, e dunque la presenza di un effetto discriminatorio «sistematico, continuato e consapevole» nella condotta dei pubblici poteri della RS (sub 95). L'art. 1 cost. RS viene dunque riconosciuto incostituzionale nella parte in cui dichiara la Republika Srpska «stato del popolo serbo», per violazione della libertà di circolazione e soggiorno, del diritto di proprietà e della libertà religiosa sulla base dell'etnia e della religione (art. II. 3-5 cost. BiH).
4. – I medesimi parametri così individuati nella valutazione della legittimità costituzionale dell'art. 1 cost. RS vengono applicati dalla corte all'analoga ma più articolata disposizione della costituzione della Federazione, il cui art. 1 dispone che «bosniaci e croati quali popoli costitutivi, insieme ad altri, e i cittadini della Bosnia Erzegovina formano il territorio della Federazione della Bosnia Erzegovina [...]». Rispetto alla costituzione della RS, si prevede qui una distinzione tra popoli e cittadini, e tra i «popoli» anche agli «altri» è riconosciuta natura costitutiva. Inoltre, a differenza di quella della RS, la costituzione della Federazione prevede la rappresentanza proporzionale di bosniaci, croati e «altri» in diversi organi (ombudsman, camera dei popoli, presidenza della camera dei rappresentanti, magistratura, organi dei cantoni) pur riservando a bosniaci e croati il potere di veto sui processi decisionali, la presidenza e la vicepresidenza della Federazione.
Constatando che queste disposizioni danno luogo a un trattamento preferenziale per bosniaci e croati, la corte si chiede fino a che punto le deroghe alla rappresentanza e alla partecipazione paritarie dei gruppi volte alla (con-)divisione dei poteri possano ledere i diritti individuali, in particolare quelli di voto, e se possa darsi «un compromesso tra diritti individuali e finalità collettive quali la divisione dei poteri» (sub 113), posto che nell'ottica dello stato plurinazionale certi trattamenti preferenziali sono necessari proprio per garantire il pluralismo sociale contro rischi di assimilazione o segregazione. Per la corte è necessario ricorrere allo strict scrutiny con riferimento alla possibile violazione del principio sia di uguaglianza collettiva, sia di uguaglianza del voto senza discriminazioni per motivi etnici. Ne consegue che tutte le disposizioni che riservano una determinata carica pubblica solo a bosniaci e croati o riconoscono a questi soli gruppi poteri di veto violano il principio di uguaglianza ai sensi dell'art. 5 della convenzione ONU contro la discriminazione razziale del 1966 e il principio costituzionale di eguaglianza collettiva tra i tre popoli costitutivi, non potendo essere lette come legittime misure positive in quanto i due constituent peoples costituiscono la maggioranza della popolazione della Federazione.
In particolare la violazione si verifica attraverso quei meccanismi che escludono dalla rappresentanza politica e dalla partecipazione alle decisioni sulla base di criteri etnici prestabiliti; ciò vale soprattutto per la lesione di diritti politici individuali, quali il diritto di voto generale e uguale riconosciuto dalla CEDU (art. 3 protocollo n. 1) e dalla giurisprudenza della corte europea dei diritti dell'uomo (caso Mathieu-Mohin e Clairfayt del 1987), e per questo direttamente applicabili in Bosnia Erzegovina, e il diritto di partecipazione al governo e di uguale accesso alle cariche pubbliche garantito dall'art. 5c della convenzione ONU contro la discriminazione razziale. La questione si sposta insomma sull'eventuale violazione di questi parametri internazionali da parte del sistema di proporzionale etnica in favore dei popoli costitutivi previsto all'interno della Federazione. La CEDU non garantisce il diritto di votare per un candidato del proprio gruppo etnico (come le corte europea ha riconosciuto nel caso Mathieu-Mohin, cit.), mentre nella Federazione l'appartenenza etnica è prerequisito per l'elettorato passivo, essendo le cariche elettive già per legge riservate agli appartenenti ai diversi gruppi (a differenza del Belgio, dove chiunque può candidare, e solo dopo l'elezione determina la propria appartenenza etnica attraverso la scelta della lingua in cui prestare il giuramento). La corte, pur ammettendo che questo sistema di consociazione etnica si giustifica come confidence building measure per la convivenza, ritiene tuttavia che esso violi il diritto individuale universale e super-costituzionale (in quanto contenuto nella CEDU) all'eguaglianza del voto ed alla parità di condizioni per l'accesso alle cariche pubbliche, in quanto esclude a priori chi non appartiene al gruppo al quale la funzione è riservata. Nello specifico, questo sistema mette bosniaci e croati in una posizione privilegiata, che è ingiustificata in quanto essi non costituiscono né nell'entità né a livello statale minoranze minacciate nella loro sopravvivenza.
Analogamente a quanto stabilito nell'esaminare l'effetto discriminatorio della previsione del popolo serbo come popolo costitutivo della RS, la corte, dopo aver accertato la violazione, da parte della disposizione in oggetto, del principio di eguaglianza collettiva, si concentra anche sull'effetto discriminatorio della norma in riferimento ai diritti individuali, ed in particolare del diritto al ritorno dei profughi che, come si è visto, costituisce uno degli obiettivi essenziali dell'intera struttura statuale delineata dall'accordo di Dayton. Anche in questo caso il ricorso al confronto tra i dati statistici sulla popolazione precedenti e successivi alla guerra consente di dimostrare la presenza di comportamenti discriminatori da parte delle autorità dell'entità. Se infatti nel 1991, nell'attuale territorio della Federazione, i bosniaci costituivano il 52,09% della popolazione, i croati il 22,13%, i serbi il 17,62% e gli "altri" l'8,16%, nel 1997 i bosniaci erano diventati il 72,61%, i croati il 22,27%, i serbi il 2,32% e gli "altri" il 2,38%, passandosi così da un'area "mista" ad una realtà binazionale composta da due popoli costitutivi. Anche per quanto riguarda i ritorni dei profughi la situazione è in tutto analoga a quella della RS: al 31 gennaio 1999 solo 19.247 serbi avevano fatto ritorno alle loro case nel territorio della Federazione, a fronte di 380.165 bosniaci e 74.849 croati, con un'evidente differenziazione di trattamento in base all'appartenenza etnica. In tutto simile anche la copertura dei posti nella magistratura (71,72% bosniaci, 23,26% croati, 5% serbi) e nelle forze di polizia (68,81% bosniaci, 29,89% croati, 1,22% serbi e 0,08% "altri"). Anche nella Federazione, dunque, dopo l'entrata in vigore dell'accordo di Dayton, vi è stata una «sistematica, continuata e consapevole» discriminazione su base etnica (sub 139) volta a prevenire i cd. «rientri di minoranze», ossia nel concreto il ritorno di profughi serbi, così violandosi il già ricordato obbligo di creare le condizioni politiche economiche e sociali per un volontario rientro e la pacifica reintegrazione di profughi e rifugiati.
Pertanto, anche l'art. I.1 cost. Federazione, nelle parti in cui dichiara bosniaci e croati come «popoli costitutivi, insieme ad altri» della Federazione e in cui si riferisce ai «diritti sovrani» dei popoli costitutivi, viene dichiarato incostituzionale per violazione non solo del principio di uguaglianza collettiva ricavabile dal tenore della costituzione statale, ma anche perché contrario alla libertà di circolazione e soggiorno, al diritto di proprietà ex art. II.3-5 cost. BiH ed al principio di uguaglianza individuale di cui all'art. 5 della convenzione contro la discriminazione razziale. La declaratoria di incostituzionalità dovrebbe estendere i suoi effetti (ma la corte non interviene sul punto) anche alle analoghe disposizioni delle costituzioni dei dieci cantoni che costituiscono la Federazione, anch'esse basate o sul principio dello stato mono-nazionale sul modello della RS (8 cantoni) o sul criterio dello stato bi-nazionale a segregazione territoriale sull'esempio della Federazione (2 cantoni), sistemi entrambi dichiarati in contrasto con la costituzione statale.
5. – La sentenza fornisce innumerevoli spunti di riflessione. Per ragioni di spazio e chiarezza espositiva conviene limitarsi all'individuazione di tre profili. Il primo riguarda le tecniche di interpretazione cui la corte ha fatto ricorso nella decisione in parola, che rivestono particolare interesse in chiave comparata e forniscono alla corte una forte legittimazione nel suo ruolo di interprete della costituzione ed al judicial review nel contesto bosniaco e in prospettiva comparata. Il secondo attiene alla natura dello stato che la sentenza delinea, con particolare riferimento alla definizione di concetti chiave per la "forma di stato multietnica" in un contesto di interazione tra fonti internazionali e interne. L'ultimo elemento si riferisce all'effettività della pronuncia e alle sue ricadute sulla situazione politico-costituzionale della Bosnia Erzegovina. Tutti questi fattori acquistano rilevanza non solo nella particolare realtà contingente bosniaca e balcanica, ma anche in riferimento agli elementi caratteristici dello stato multietnico e multinazionale in generale, che costituiscono una chiave di lettura particolarmente interessante in prospettiva comparata e nell'ottica della futura integrazione europea.
5.1. – Quanto alla tecnica interpretativa, dalla lettura della sentenza in commento emerge un fortissimo richiamo alle fonti internazionali e alla comparazione quali parametri di valutazione. Questa tecnica è certo espressione della peculiare situazione bosniaca, e in particolare dell'imposizione costituzionale del diritto internazionale (specie in tema di diritti umani) come fonte superiore ad ogni altra legge e della composizione "mista" della corte costituzionale. Non è un caso che la decisione sia stata assunta con 5 voti a favore e 4 contrari, e che le (debolissime) dissenting opinions siano venute dai due giudici serbi e dai due croati. Anche la pronuncia assume dunque una marcata valenza etnica, dando vita ad una evidente distinzione di posizioni tra la «comunità internazionale» e i bosniaci da un lato e serbi e croati dall'altro. Parimenti, non è casuale che il relatore fosse uno dei tre giudici di nomina internazionale, considerando le fortissime implicazioni etnico-politiche della sentenza. Si può pertanto affermare che la presente decisione è il frutto della composizione mista (con maggioranza della componente internazionale) della corte costituzionale della Bosnia Erzegovina, e che una corte composta da soli giudici locali mai sarebbe riuscita a decidere (e in questo modo) la controversia. Con ogni probabilità una corte sprovvista dell'elemento internazionale avrebbe finito per non funzionare, al pari delle altre istituzioni statali che a tutt'oggi risultano bloccate dai veti incrociati dei tre gruppi, lasciando così il monopolio del potere legislativo ed esecutivo all'Alto rappresentante (organo peraltro di natura transitoria e non previsto dalla costituzione), mentre con questa decisione la corte si profila come l'unico organo (attualmente) funzionante dell'intera struttura statale della Bosnia Erzegovina.
Tuttavia l'elemento internazionale all'interno della corte si giustifica non solo come fattore di equilibrio tra le istanze e gli interessi (ancora fortemente contrapposti) delle tre etnie ma anche, e forse soprattutto, per la prevalenza del diritto internazionale (e segnatamente della CEDU) su «ogni altra legge» nell'ordinamento della Bosnia Erzegovina, compresa evidentemente la costituzione, a sua volta contenuta in un documento internazionale. In questo senso il ricordato ricorso alla convenzione di Vienna sul diritto dei trattati come parametro interpretativo della costituzione riacquista una dimensione costituzionale, data l'impossibilità di distinguere, nel caso bosniaco, tra livello (super-costituzionale) interno e livello internazionale. Ma che non si tratti di un unicum legato alla contingenza bosniaca sembra dimostrato dalla tendenza sempre più diffusa all'abbandono di concezioni dualistiche in favore di soluzioni moniste (o a tendenza monista) quanto ai rapporti tra ordinamento interno e internazionale, come accade ad es. laddove la CEDU ha rango costituzionale (Austria) o supra-legislativo (Spagna, Francia e, mutatis mutandis, Italia e Regno Unito) o, in modo ancora più marcato, in ordinamenti costituzionali plurali e multietnici (ri-)nati di recente sotto la spinta di una più o meno forte pressione internazionale. Salta agli occhi in particolare il parallelo con la costituzione del Sudafrica del 1996, la cui sez. 39 c.1 stabilisce che le corti, nell'interpretare il bill of rights, «debbano» tenere in considerazione il diritto internazionale e «possano» ricorrere al diritto straniero. Anche se la sentenza non menziona mai la costituzione sudafricana, l'analogia appare evidente, perché se l'applicazione diretta del diritto internazionale in tema di diritti fondamentali è obbligatoria per il giudice bosniaco (preambolo e art. II.1 e 2 cost. BiH), non altrettanto è stabilito in riferimento alla comparazione, cui invece la corte ampiamente ricorre (in particolare nel valutare il carattere normativo del preambolo – sub 17 ss. – e nella definizione del concetto di constituent peoples – sub 55 ss.).
Con la decisione in parola la corte costituzionale della Bosnia Erzegovina sembra dunque porsi, quanto alle tecniche interpretative impiegate, come capofila della nuova, ancora minoritaria ma sempre più diffusa tendenza al riconoscimento della crescente integrazione tra livelli di fonti da un lato e circolazione di modelli giuridici dall'altro. La forte copertura internazionale e comparatistica con cui la corte "blinda" la sentenza ha a sua volta una ricaduta immediata e importantissima sul ruolo del judicial review in un ordinamento le cui basi sociali non sono (ancora) uniformemente condivise, ed anche questo elemento riveste un'importanza fondamentale per tutte le realtà multietniche conflittuali (dal Sudafrica al Canada al Belgio) e negli ordinamenti costituzionali in divenire, primo fra tutti l'Unione europea. In altre parole, attraverso questa tecnica il controllo di costituzionalità diviene il momento di chiusura e legittimazione internazionale (dunque anche politica e deontologico-giuridica) della creazione o del rimodellamento del «contratto sociale» in una comunità multinazionale. Che non si tratti di un caso isolato è dimostrato ad es. dalla copiosa giurisprudenza della Corte di giustizia europea in materia di diritti fondamentali e di rule of law, non a caso basata sui medesimi parametri cui ha fatto ricorso la corte bosniaca: la comparazione giuridica (le tradizioni costituzionali comuni in ambito comunitario) e l'ordinamento internazionale dei diritti umani (la CEDU per la corte di giustizia). La sempre maggiore diffusione di questa tecnica interpretativa anche nella giurisprudenza delle corti costituzionali nazionali, di cui la sentenza in commento è l'esempio più emblematico, sembra delineare il tracciato della via giudiziaria (con le sue tecniche e i suoi limiti) alla creazione della nuova statualità nella fase successiva allo stato nazionale. Per questo, riferendosi alla sentenza in commento, non appare azzardato parlare di un nuovo Marbury vs. Madison, che conferisce al controllo di costituzionalità una funzione moderna, aggiornata alle esigenze del 21. secolo: perché questa pronuncia attribuisce un nuovo ruolo (o forse si limita a renderlo evidente) al controllo di costituzionalità in un nuovo ordine mondiale dominato dall'interazione tra fonti internazionali, sovranazionali, statali e substatali, nel quale il ricorso alla comparazione diviene sempre più elemento fondamentale e non già meramente accessorio, strumento decisionale e non solo conoscitivo. La supreme law of the land, cardine del reasoning di Marbury vs. Madison, diventa così qui non più solo la costituzione, ma la risultante dell'intreccio tra bill of rights internazionale, comparazione e principi costituzionali, ricondotti ad unità sistematica attraverso il judicial review, che li connota quali indicatori della forma di stato e ne afferma la forza prescrittiva.
5.2. – Il secondo punto di particolare interesse è il concetto di stato sotteso dalla sentenza e il ruolo della forma di stato nel giudizio di costituzionalità. Com'è noto, la Bosnia Erzegovina è sempre stata una Jugoslavia in piccolo. La guerra e la pulizia etnica l'hanno trasformata da stato multietnico in una struttura multinazionale basata su aree etnicamente omogenee (ampiamente sul punto J. Marko, The Ethno-National Effects of Territorial Delimitation in Bosnia and Herzegovina, in Institut suisse de droit comparé, Commission européenne pour la démocratie par le droit du Conseil de l'Europe (eds.), Autonomies locales, intégrité territoriale et protection des minorités, Schulthess, Zürich 1996, 121 ss.), anche se paradossalmente non sono chiari i parametri per l'identificazione dei gruppi etnici, non potendo facilmente distinguersi tra religione, lingua, etnia, nazione o altro. Oggi, dopo gli accordi di Washington e Dayton e il formale riconoscimento della lingua bosniaca, si è formalizzato fittiziamente un sistema che definisce i «bosniaci» quali «musulmani nel senso di una nazione etnicamente percepita» (W. Libal, Bosnier-Bosniaken-Muslime: Versuche einer Entwirrung, in Europäische Rundschau 1998, 79). Su questa creazione giuridica, volta a conferire identità nazionale ai «bosniaci», il sistema costituzionale di Dayton formalizza una distinzione tra popoli costitutivi, "altri" popoli, gruppi etnici e minoranze, senza però specificare il significato di tali concetti. Il difficile compito è pertanto toccato alla corte, per la quale nei confronti dei popoli costitutivi deve valere il principio di uguaglianza collettiva in tutte le parti del territorio, mentre per le minoranze etniche vige il principio di non discriminazione e sono possibili azioni positive.
La chiave di volta della decisione è l'individuazione del principio di uguaglianza collettiva come necessaria conseguenza della natura costitutiva dei tre popoli prevista dalla costituzione. Senza questo principio si sarebbe infatti dovuto riconoscere (in base all'enumerazione dei poteri della costituzione statale e alla carta europea delle lingue regionali e minoritarie), che sono le costituzioni delle entità a poter disporre in materia di rapporti tra maggioranze e minoranze, individuare le minoranze e disciplinare l'uso della lingua, temi sui quali la costituzione statale tace. E in effetti proprio questo le costituzioni delle entità facevano fino alla decisione in commento, e anche l'accordo di Dayton, successivo e sovrapposto alle costituzioni delle entità (RS 1992, Federazione 1994), teneva conto della realtà costituzionale degli stati preesistenti (degradati ad «entità»), delineando la Bosnia Erzegovina come uno stato federale multinazionale formato da tre popoli costitutivi. La pietra angolare della ricostruzione della corte è il diritto al ritorno dei profughi che, letto alla luce dei principi super-costituzionali della (e superiori alla) costituzione, esprime la volontà del costituente (internazionale) di imporre il modello multietnico basato sull'integrazione, secondo il sistema anteriore al 1991, in sostituzione del sistema multinazionale basato sulla segregazione sorto in seguito alla guerra e razionalizzato dalla stessa costituzione di Dayton. Il modello multietnico precedente al 1991 è sfociato nella guerra, e l'accordo di Dayton ha formalizzato un sistema multinazionale per farla cessare, ma ha anche previsto il meccanismo per il suo stesso superamento attraverso il diritto-dovere al ritorno dei profughi e quindi al ristabilimento della società multietnica.
Ecco che, secondo la terminologia italiana, tutto si gioca sull'interpretazione e la giustiziabilità della forma di stato. La corte supera il modello stesso della costituzione ricorrendo ai principi super-costituzionali; emblematica in tal senso la capziosa lettura restrittiva delle disposizioni costituzionali in tema di composizione etnica degli organi, di fatto aggirate e ignorate. La forza prescrittiva della costituzione viene così recuperata attraverso il ricorso a principi sanciti al di fuori della norma costituzionale. La forma di stato, imposta dall'ordinamento internazionale dei diritti umani e basata sull'integrazione, obbliga a superare il dato costituzionale positivo, basato sulla segregazione. In questa prospettiva appare inevitabile la necessità di un futuro superamento della costituzione-tampone di Dayton per tornare ad un sistema anche formalmente multietnico. La decisione rappresenta perciò una difficile scommessa sul futuro ma anche sul passato, tenuto conto che la separazione etnica è stato l'unico punto su cui le tre etnie si sono trovate d'accordo dopo la guerra. Poiché non è pensabile eliminare le conseguenze della guerra (stato multinazionale segregazionista) per rimuoverne le cause (stato multietnico e integrazione), evidentemente la corte (come i costituenti di Dayton e le carte internazionali dei diritti che incorporano la forma di stato della Bosnia) ritiene che la causa della guerra non è stata la convivenza interetnica. Anche perché l'integrazione anteriore al 1991 era data dal regime politico, per cui, più che di integrazione (basata sullo stato di diritto), poteva tutt'al più parlarsi di mera convivenza pacifica. Pertanto l'accordo di Dayton ha costituito un "ritorno al 1991" solo in quanto ha ristabilito la pace. Il compito della costituzione (nel senso complesso sopra delineato) è però ben più ampio, dovendo inquadrare la questione etnica nel contesto dello stato di diritto e dunque individuare il punto di equilibrio tra eguaglianza collettiva e individuale, tra autonomia e integrazione (su cui J. Marko, Autonomie und Integration, Wien, Böhlau, 1995), e dunque, in definitiva, fare un passo avanti rispetto alla stessa costituzione di Dayton. Resta da chiedersi se i tempi sono maturi per una simile interpretazione.
5.3. – Ciò conduce alla riflessione conclusiva sulla reale capacità della decisione di dispiegare i suoi esplosivi effetti e di realizzare effettivamente la rivoluzione copernicana delineata dalla corte. Nel contesto bosniaco non appare scontato che le strutture di governo daranno realmente e compiutamente attuazione alla sentenza. Per rendersene conto basti pensare che le istituzioni statali sono tuttora bloccate e incapaci di funzionare, e vengono integralmente supplite da un organo monocratico (l'Alto rappresentante) non previsto dalla costituzione e che dispone della forza militare del contingente multinazionale di pace. Indicativo della non scontata operatività delle decisioni giudiziarie è il caso di una importante pronuncia del 14 agosto 1999 (caso U 1/99, in G.U. 16/99, reperibile anche in Constitutional Court of Bosnia and Herzegovina, Decisions 1997-1999, Sarajevo 1999, 359) con cui la corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme sulla composizione del consiglio dei ministri (per contrasto letterale con il dettato della costituzione, dovuto all'evidente volontà di creare un sistema di rotazione etnica tra i vicepresidenti, secondo un modello simile a quello delineato dalle disposizioni giudicate illegittime nella sentenza in esame). In quella pronuncia (per molti versi anticipatrice di quella qui in commento, anche se in quel caso l'elemento etnico restava sullo sfondo) la corte dava tre mesi al parlamento per adeguare la legge alla costituzione statale, ma il tempo è trascorso invano per l'incapacità decisionale del parlamento, bloccato da veti etnici incrociati.
Il problema dell'effettività della sentenza è inscindibile da quello della capacità di penetrazione sociale dei principi che hanno ispirato i giudici costituzionali. La corte ricorre, nella decisione in commento, ad un approccio interpretativo liberale (sia pur bilanciato) e soprattutto improntato alla tradizione giuridica occidentale in tema di convivenza multietnica e di rapporti con le minoranze. A ben vedere la corte non poteva atteggiarsi diversamente, perché questa è l'ideologia che sta alla base dell'ordinamento internazionale dei diritti dell'uomo, che in Bosnia ha rango superprimario e deve quindi orientare l'attività interpretativa nei confronti delle leggi e della stessa costituzione. Ma questa ideologia (forma di stato) è la stessa che pervade la percezione dello stato (costituzione materiale) della Bosnia Erzegovina (e di molti altri stati balcanici), o invece la cultura giuridica di quel paese è refrattaria a questo tipo di impostazione liberale e occidentale? Non è certo la grossolana ed emergenziale costituzione di Dayton a poterlo dire, troppo americana da un lato (basti pensare che vieta esplicitamente la schiavitù ma non menziona i diritti linguistici!) e troppo balcanica dall'altro (la coincidenza di etnia e territorio in essa prevista – e, si è visto, superata dalla corte – finiva per sottrarre ai serbi della Federazione ed a bosniaci e croati della Repubblica serba persino il diritto di elettorato passivo!). Così la "patata bollente" è passata ancora una volta alla corte.
La scommessa della corte è dimostrare che la Bosnia Erzegovina può appartenere alla famiglia giuridica occidentale, che la guerra non è stata il prodotto della convivenza interetnica e che la società saprà metabolizzare la svolta storica data dal sostanziale cambio della forma di stato ad opera della decisione in commento. Solo se sarà così per la Bosnia Erzegovina si potrà aprire la via dell'adesione al Consiglio d'Europa e all'Unione europea, e lo stesso vale per altre realtà balcaniche. In caso contrario non resterà che prendere atto del fallimento del tentativo di risolvere i problemi delle relazioni interetniche nei Balcani con strumenti alieni alla tradizione culturale e giuridica di quell'area. Rispetto a un anno fa, al tempo dell'inefficace decisione sull'incostituzionalità della composizione del governo, le condizioni politiche in cui la sentenza viene oggi pronunciata sembrano agevolare il successo della scommessa. Il rapido processo di democratizzazione in corso in Croazia (con la fine del potere di Tudjman e dell'HDZ, le elezioni del dicembre 1999 e gennaio 2000 e la formale rinuncia ad ogni pretesa territoriale sull'Erzegovina) e in Serbia/Jugoslavia (con le elezioni dell'ottobre 2000 e la rimozione di Milosevic) lascia intravedere possibili ricadute positive per la Bosnia Erzegovina.
In questo contesto in ebollizione, la corte si è dovuta confrontare con la nota metafora in tema di conflitti etnici, secondo cui è facile trasformare un acquario in una zuppa di pesce ma è difficile fare il contrario. La disposizione costituzionale sul ritorno dei profughi, letta alla luce dei principi super-costituzionali del diritto internazionale dei diritti umani e in combinato disposto col principio di uguaglianza collettiva nel rispetto del divieto di discriminazione individuale, tenta di fare proprio questo: ricostruire, attraverso un principio giuridico e la percezione della sua obbligatorietà, la società multietnica precedente alla guerra, ma nel nuovo contesto dello stato di diritto. E per far questo è indispensabile che le istituzioni (ri-)prendano a funzionare. Nel principio di eguaglianza collettiva e nell'ordinamento internazionale dei diritti dell'uomo, nella combinazione tra autonomia e integrazione, la corte ha individuato i meccanismi per cercare di avviare il funzionamento delle istituzioni e dare così vita ad un sistema di governo "normale", che solo può "normalizzare" la vita organizzata in Bosnia Erzegovina. Per questo serviva uno sforzo iniziale eccezionale: il motorino di avviamento (la ricordata sentenza del 1999) non era bastata ad accendere il motore, e la pronuncia annotata ha provato a rianimare la batteria attraverso i cavi elettrici, dando una scossa molto più forte. Resta ora da vedere se la corrente immessa servirà a far ripartire il motore istituzionale dello stato e, a più lungo termine, se il motore (la costituzione di Dayton) è in grado di funzionare o se va sostituito, e, in prospettiva, se va cambiata tutta la macchina (la Bosnia Erzegovina). Solo il tempo e il grado di evoluzione della società potranno dunque dare una risposta definitiva alla scommessa e dire se la corte è stata il vero e unico motore della convivenza multietnica fondata sulla rule of law in Bosnia Erzegovina, (ri-)edificando nella società un modello europeo occidentale di costruzione dell'identità, o se questa sentenza è solo un altro dei tanti passi falsi sulla via della riconciliazione nell'area balcanica.
Francesco Palermo
assegnista di ricerca in diritto costituzionale comparato presso il Dipartimento di scienze giuridiche dell'Università di Trento e ricercatore dell'Accademia europea di Bolzano