Un resoconto delle ultime convulse giornate di violenza in Turchia. Dalle operazioni militari contro il PKK agli scontri nelle città, la logica della guerra prevale sulla politica. Le violazioni dei diritti umani, la drammatica condizione della popolazione giovanile nell’est del paese. Dal nostro corrispondente
10 morti, centinaia di feriti e di arresti sono il bilancio pesantissimo di una settimana di violenze e scontri che hanno infiammato le città della Turchia orientale. Le violenze si sono poi propagate fino ad Istanbul, dove in due diversi raccapriccianti episodi hanno perso la vita quattro persone. Questo epilogo violento è arrivato al termine di un periodo, la fine di marzo, caratterizzato da diversi e contraddittori sviluppi sul fronte della questione curda.
Vediamo quindi di procedere con ordine.
Il 20 marzo lo stato maggiore delle forze armate aveva comunicato la sua decisione di non concedere l’autorizzazione a procedere nei confronti del capo di stato maggiore dell’esercito, generale Buyukanit, e di altri ufficiali dell’esercito e della gendarmeria. L’autorizzazione era stata richiesta dal giudice Sarikaya titolare dell’inchiesta sullo scandalo di Semdinli. Il giudice aveva mosso accuse molto gravi nei confronti del generale Buyukanit: di aver cercato di influenzare con le sue dichiarazioni le indagini sui membri della gendarmeria implicati nello scandalo. Buyukanit aveva affermato, parlando di uno degli arrestati: “Lo conosco, abbiamo lavorato insieme in passato, è un bravo ragazzo”. Facendo poi riferimento alla testimonianza di un imprenditore di Diyarbakir rilasciate davanti alla commissione parlamentare di inchiesta sul caso Semdinli, Sarikaya aveva accusato Buyukanit e gli altri ufficiali di avere creato una organizzazione illegale e di aver prodotto falsi documenti, nel periodo in cui il generale prestava servizio a Diyarbakir. Le accuse di Sarikaya avevano scatenato una vera e propria tempesta politica ed avevano creato un forte clima di tensione tra le forze armate e il governo Erdogan. I militari accusavano il giudice di essere uno strumento di un disegno politico volto a discreditare le forze armate. Sibilline erano state le dichiarazioni del capo di stato maggiore, generale Ozkok: ”Se le forze armate si trovassero costrette a difendersi, tutti ne risentirebbero, a cominciare dalla borsa e dal processo di adesione alla UE”. Non ha quindi sorpreso nessuno il rifiuto dello stato maggiore di concedere l’autorizzazione al giudice Sarikaya. Con il loro comunicato, però, i militari non si limitavano a motivare dal punto di vista giuridico la loro decisione ma provvedevano anche a una delegittimazione dell’operato di Sarikaya invitando “chiunque avesse responsabilità costituzionali a individuare chi si celasse dietro l’operato del giudice”.
Un inatteso e riservato incontro tra il premier Erdogan ed il generale Buyukanit sanciva poi la raggiunta tregua tra l’esecutivo ed i militari.
Il giorno successivo al comunicato dei militari coincideva con la festa del Newroz, l’occasione nella quale la tradizione curda festeggia l’inizio della primavera. A lungo vietata dalle autorità, in seguito al recente processo riformatore da alcuni anni i curdi sono tornati liberamente a festeggiare questa ricorrenza. Nonostante gli allarmismi della vigilia, anche quest’anno centinaia di migliaia di persone hanno potuto, a parte qualche rara eccezione, festeggiare pacificamente l’evento nelle regioni orientali e nelle metropoli del paese.
Quasi nelle stesse ore, dalle città di Diyarbakir e Urfa, arrivava la notizia che tre televisioni locali avevano cominciato a trasmettere programmi in lingua curda. La possibilità di mandare in onda trasmissioni radio-televisive “in lingue e dialetti usati tradizionalmente dai cittadini turchi nella vita quotidiana” era stata una delle conquiste ottenute dal processo riformatore in chiave europea. Fino a questo momento però solamente la tv di stato TRT aveva inserito nei suoi palinsesti una trasmissione quotidiana di 30 minuti nella quale, a rotazione, venivano usate due varianti della lingua curda, zaza e kurmanji, il bosniaco, il circasso e l’arabo. Ostacoli e impedimenti di varia natura avevano impedito la concessione della necessaria autorizzazione alle radio-televisioni private che chiedevano di mandare in onda trasmissioni in lingua curda. Il 17 marzo il Consiglio Superiore per la Radio e la Televisione (RTUK) aveva concesso l’agognata autorizzazione a due tv di Diyarbakir, Gun TV e Soz TV, ed a una radio di Urfa, Medya FM. Per il momento l’autorizzazione consente un totale di 4 ore di programmazione alla settimana con sottotitoli in turco. Da più parti la decisione del RTUK alla vigilia del Newroz era stata interpretata come un segnale positivo lanciato dall’establishment alla popolazione curda.
Ad una settimana dalla festa del Newroz, però, la situazione nelle regioni orientali precipitava rapidamente. La scintilla l’ha fornita la notizia che l’esercito in un operazione nella regione di Bingol/Mus aveva ucciso 14 militanti del PKK.
Martedì scorso i funerali a Diyarbakir di 4 militanti uccisi a Mus sono sfociati in guerriglia urbana quando la polizia ha cercato di impedire con la forza la formazione di un corteo di 1000 persone diretto verso il centro della città.
Dimostranti trasportano un bambino ferito negli scontri con la polizia, Diyarbakir, 30 marzo 2006
Per tre giorni migliaia di persone, 3000 secondo i dati della polizia, in gran parte giovani e giovanissimi, hanno innalzato barricate, incendiato pneumatici, attaccato edifici pubblici e si sono scontrati con la polizia. Le immagini delle forze speciali della polizia con passamontagna e dei convogli militari che affluivano in città hanno richiamato alla memoria quelle degli anni più bui per la città e la regione, gli anni ‘90. Nonostante le dichiarazioni del prefetto e degli organi di polizia, “Abbiamo dato l’ordine di non usare armi da fuoco”, “Le forze dell’ordine hanno mostrato grande sangue freddo”, il bilancio dei tre giorni di scontri è pesantissimo: 7 vittime, tutte civili, compresi due bambini, colpite da proiettili, veri o di plastica, centinaia di arresti e di feriti, decine di negozi semidistrutti. La protesta e gli scontri si sono rapidamente estesi anche ad altri centri della regione contribuendo ad aggravare il bilancio: un bambino di tre anni ucciso da un proiettile alla gola a Batman e due vittime, sempre per colpi d’arma da fuoco, a Kiziltepe. Le violenze poi non hanno risparmiato nemmeno la lontana Istanbul: sabato un imbianchino di 50 anni è morto nell’esplosione di una bomba abbandonata in un cestino di rifiuti accanto ad una fermata dell’autobus. L’attentato è stato rivendicato dai fantomatici Falchi per la Liberazione del Kurdistan che già in passato avevano rivendicato simili azioni in località turistiche del paese. Domenica invece tre persone hanno perso la vita in un altro quartiere popolare di Istanbul, nell’incendio dell’autobus sul quale viaggiavano, colpito dalle bottiglie molotov dei manifestanti.
Di fronte alla gravità della situazione ci sono le dichiarazioni del presidente Erdogan: “Invito le madri a controllare i propri figli, altrimenti dopo sarà inutile piangere. Le forze di sicurezza sono pronte a contrastare ogni manifestazione in appoggio ai terroristi, che si tratti di donne o di bambini”. Dello stesso tono le parole del ministro dell’Interno Aksu, che ha commentato gli scontri di Diyarbakir definendoli “un tradimento della patria e della persona umana”. Nessun riferimento alle vittime ed alle circostanze in cui sono state uccise. Alle reazioni degli esponenti del governo ha risposto Ahmet Turk, co-presidente del DPT (Partito della Società Democratica): “Le parole del presidente Erdogan non fanno onore al suo ruolo. Non ha detto nemmeno di essere dispiaciuto per la morte di bambini”. Il presidente della Associazione dei Diritti umani (IHD), Alatas, in una conferenza stampa ha condannato l’uso della violenza ed ha definito “disastrosa la prospettiva che essa si possa propagare in tutto il paese” facendo riferimento alle vittime di Istanbul.
Mentre si contano le vittime e si raccolgono i detriti per le strade, si riapre il valzer delle interpretazioni.
Buona parte del mondo politico e delle istituzioni legge gli episodi dei giorni scorsi come il segnale di un cambio di strategia da parte del PKK. La conferma viene indicata nell’atteggiamento della televisione curda Roj-TV che trasmette dalla Danimarca, accusata di aver diretto ed indirizzato gli scontri, ordinato la serrata dei negozi e invitato i manifestanti a colpire i negozianti reticenti. Al di là dell’effettivo ruolo avuto dalla tv lascia quantomeno perplessi vedere esponenti politici e media attribuire al governo danese la responsabilità per quanto accade nell’est del paese. Detto questo, anche ai più appassionati difensori della causa curda appare difficile credere al carattere spontaneo della rivolta, e non intravedere dietro quello che è accaduto la volontà da parte del PKK di riaffermare la sua autorità e la sua visibilità portando lo scontro dalle montagne, dove è nettamente in difficoltà, ai centri urbani. Già in passato, lo scorso 15 febbraio, attraverso la stampa e i siti internet, l’organizzazione aveva fatto appello alla serrata dei negozi per ricordare l’anniversario della cattura di Ocalan. Un invito andato disatteso. Come ricorda Ahmet Insel su Radikal, in quell’occasione attraverso alcuni organi di stampa il PKK aveva accusato le amministrazioni locali di irresponsabilità. I funerali di Diyarbakir hanno rappresentato quindi per l’organizzazione l’occasione per una prova di forza.
Le immagini di Diyarbakir hanno poi mostrato, anche a chi ha finora preferito non vedere, la drammatica realtà in cui vive la popolazione, soprattutto giovanile, delle città della Turchia orientale: giovani cresciuti negli anni ’90 in clima di guerra e di violenza, altissimi tassi di disoccupazione, disgregazione delle strutture familiari prodotta dalla situazione di emigrazione forzata, assenza di politiche sociali. Un quadro che da solo basterebbe a creare le premesse per esplosioni di violenza come quelle dei giorni scorsi.
Ad essere al centro delle valutazioni c’è poi l’atteggiamento dello stato, delle istituzioni e delle forze di sicurezza.
Come rivela ancora Ahmet Insel la base del PKK attaccata sabato 25 era controllata dai militari da più di un anno, e quindi è legittimo chiedersi perchè si sia scelto proprio questo momento per un’azione armata. Una domanda di questo genere porterebbe più lontano, fino ad interrogarsi sulle modalità con cui viene condotta dal punto di vista militare la guerra al PKK, cosa effettivamente accada nelle operazioni militari al di là degli scarni comunicati ufficiali.
Le dichiarazioni poi delle autorità che lodano l’equilibrio delle forze di sicurezza nel gestire la crisi dei giorni scorsi sono smentite dalla gravità del bilancio delle vittime e dalle modalità in cui sono state uccise. Sono pochissime però le voci che si levano per chiedere di fare chiarezza su questo punto. Tra esse quella dell’ex presidente dell’associazione dei diritti umani, Ondul, per il quale “è necessaria un’inchiesta su chi abbia dato l’ordine di sparare e su chi lo abbia concretamente applicato”. In generale sembra passare l’atteggiamento per cui l’epilogo drammatico di manifestazioni come quelle dei giorni scorsi abbia qualcosa di inevitabile e naturale.
L’unico elemento certo è il fatto che le violenze degli ultimi giorni corrono seriamente il rischio di produrre un unico effetto, quello di ridurre di nuovo la questione curda ad un problema di ordine pubblico da lasciare alle forze di sicurezza. Una soluzione che farebbe la gioia di quanti, su entrambi i fronti, vorrebbero che la tensione continuasse a rimanere molto alta nella regione, magari tornando ad applicare lo stato d’eccezione, abolito nel 2002. In questo senso non è certo incoraggiante la notizia che il governo starebbe per mettere mano alla Legge Antiterrorismo nel senso di un suo inasprimento, assecondando pressioni in tal senso che giungono da diversi ambienti.
Sembrano quindi salutari gli appelli che da più parti giungono perchè sia la politica e non la violenza a prendere la parola dando vita ad una vera e propria campagna di mobilitazione nazionale per affrontare la questione curda in tutta la sua complessità. Tra i molteplici elementi che al momento rendono però più difficile questo ritorno al primato della politica, due sembrano essere i più rilevanti:
il primo riguarda lo spazio di manovra effettivo di cui è in possesso il governo Erdogan: la recente crisi con i militari sul caso Semdinli ha mostrato ancora una volta la tragica contraddizione nella quale è avvinghiato il partito AKP: da una parte chiamato a ridisegnare gli equilibri di potere tradizionali della politica turca e dall’altra, per la sua matrice islamica, costantemente a rischio di vedersi delegittimato con l’accusa di attentare alla laicità della repubblica.
Il secondo riguarda il ruolo e lo spazio che il sistema è disposto ad accordare ai rappresentanti politici curdi. In questo senso la decisione di aprire un’inchiesta sul sindaco di Diyarbakir, Baydemir, accusato di aver fraternizzato con i rivoltosi, e le rivelazioni del presidente del DTP, Ahmet Turk: “Noi siamo pronti al dialogo ma ho chiesto dieci volte un appuntamento al ministro degli interni e non l’ho avuto, l’ho chiesto al primo ministro e non me l’ha dato” - per il momento non sembrano autorizzare l’ottimismo.