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Perihan Magden sotto accusa

12.06.2006    Da Istanbul, scrive Fabio Salomoni

Si è aperto a Istanbul il processo contro Perihan Magden. La celebre giornalista e scrittrice turca aveva difeso in un articolo la scelta dell’obiettore di coscienza Mehmet Tartan. La cronaca dal nostro corrispondente
Perihan Magden
Una limpida giornata di inizio estate. Frotte di turisti sciamano con il naso all’insù nella zona monumentale di Istanbul, tra la basilica di Santa Sofia e la moschea di Sultanahmet. Ignari che a pochi passi da loro, proprio alle spalle della moschea, nella seconda sezione del Tribunale Penale di Istanbul sta per andare in scena l’ennesimo della lunga serie di atti che compongono il nervoso travaglio vissuto dalla società turca. La prima udienza del processo a Perihan Magden, giornalista e scrittrice – un suo romanzo Due ragazze è stato pubblicato anche in Italia.

La lista di intellettuali chiamati negli ultimi tempi a difendersi di fronte ad un tribunale per il contenuto dei loro scritti o delle loro dichiarazioni è lunghissima. Per alcuni di loro, Hrant Dink, giornalista armeno, ed il professor Murat Belge, i problemi non sono ancora finiti.

Quello che rende in qualche modo speciale il processo Magden è il fatto che la giovane scrittrice è andata a toccare il tabù per eccellenza della società turca: le forze armate ed il servizio di leva obbligatorio. In un suo articolo pubblicato lo scorso 27 dicembre dalla rivista Yeni Aktuel, Perihan Magden ha difeso l’obiettore di coscienza Mehmet Tartan: “Ad attendere Mehmet Tarhan ci sono anni in un carcere militare. Per aver fatto questa scelta, per essere anti militarista, per aver rifiutato di prestare servizio nelle forze armate, perchè non gli viene riconosciuto il diritto all’obiezione”.

Ricordando come tra i 46 paesi membri del Consiglio d’Europa solamente due, l’Azerbaijan e la Turchia, non riconoscono il diritto all’obiezione di coscienza, Magden concludeva chiedendosi: “Il fatto che nel mio paese non sia riconosciuto il diritto all’obiezione mi turba… Perchè Mehmet Tarhan è in carcere? E perchè noi continuiamo a dormire tranquilli? Siamo tranquilli? Possiamo essere tranquilli mentre qualcuno lotta per i diritti umani? E’ normale l’autocensura che i nostri media applicano automaticamente quando si parla di cose militari? E se è normale non è arrivato il tempo di rendere queste norme più umane?”

Il Dipartimento Affari Legali dello Stato Maggiore l’ha denunciata in base all’articolo 318 del Codice Penale per aver “a mezzo stampa raffreddato la popolazione nei confronti del servizio militare”. Rischia una pena massima di 6 anni di reclusione.

Nei giorni precedenti il processo i giornali hanno pubblicato numerosi attestati di solidarietà alla scrittrice. Orhan Pamuk in un articolo sull’inglese The Guardian ha scritto che “i democratici del mondo e della Turchia non lasceranno sola Perihan Magden”.

Due ragazze
In realtà, nonostante i buoni propositi della vigilia, a sostenere la giornalista nel piccolo palazzo di giustizia dal quale si intravedono i minareti di Sultanahmet, oltre al consueto manipolo di giornalisti locali e stranieri, solo qualche curioso, un gruppo di amici, il presidente dell’Associazione dei diritti umani (IHD), due scrittori, un rappresentante del PEN Club. E naturalmente gli immancabili contestatori.

Uno di essi, una signora di mezza età, apostrofa Perihan Magden sulla porta del tribunale: “Mio figlio ha fatto il militare e ne sono orgogliosa, hai capito?!”, mentre una decina di uomini intorno a lei intona un classico della destra nazionalista, “Ogni turco nasce soldato, o ami o abbandoni!”.

Nel corridoio di fronte all’ingresso dell’aula dove si terrà il processo ci vorrà un ora perchè la tensione si raffreddi e l’udienza possa cominciare. A fronteggiarsi, divisi da un cordone di polizia, ci sono due mondi all’apparenza inconciliabili. A simboleggiare questi due mondi, due donne. In un angolo, Perihan Magden, protetta da un premuroso e preoccupato gruppo di amici, si guarda intorno sorridendo nervosamente in cerca di sguardi amici. Dall’altra, proprio di fronte a lei, un’altra donna, molto diversa, la signora Pakize Akbaba. Di mezza età, di corporatura robusta, abiti e foulard sulla testa a comporre il ritratto della perfetta madre anatolica. Al collo una sciarpa che riproduce la bandiera turca. E’ la madre di uno sehit, martire, termine di origine religiosa, utilizzato regolarmente in Turchia per i rappresentanti delle forze dell’ordine caduti in servizio. In piedi sopra una sedia, a sovrastare il cordone di poliziotti che la divide dagli “avversari”, come un tribuno guida il drappello di contestatori. Intorno a lei altre madri, i membri di un associazione di gazi – altro termine di origine religiosa che designa i militari feriti in combattimento - ed i familiari di sehit che di tanto in tanto sventolano le fotografie dei loro congiunti.

Pakize con voce possente rovescia instancabilmente sulla controparte il suo dolore che ha già tutte le risposte ed una valanga di insulti: “Serva del PKK”, “Traditrice della patria”. Di tanto in tanto si interrompe per consultarsi con l’avvocato Kerincsiz, stakanovista della contestazione patriottica nei tribunali del paese. Altre voci si aggiungono al coro degli insulti: “Dov’eri mentre gli sehit salvavano la patria?”. Ad un certo punto compaiono da una porta laterale quattro gendarmi che portano ammanettati due ragazzi. I loro occhi sgranati ed i loro sguardi stupiti mentre attraversano il corridoio fendendo i due fronti per qualche istante gettano su tutta la scena una luce surreale.

L’aula del processo è troppo piccola. Il giudice decide che potranno entrare solo le parti in causa. Solo dopo vibrate proteste acconsente a far entrare un piccolo gruppo di osservatori. Tutto si conclude in fretta. La difesa di Perihan Magden è decisa: “Difendere l’obiezione di coscienza è un mio diritto e rientra anche nei doveri della mia professione. Sarò molto contenta se questo processo in qualche modo contribuirà a far si che nel nostro paese l’espressione del pensiero e della coscienza cessino di essere un reato”. Il giudice decide per il rinvio del processo al 27 luglio.

All’uscita dalla sala ancora insulti e minacce. Il dirigente di polizia incaricato del servizio d’ordine è preoccupato che tutto si concluda “senza che nessun naso sanguini”. La scrittrice Ayse Kulin commenta: “Meno male che sono venuta, altrimenti sarebbe rimasta sola. Guardate questa gente, la farebbero a pezzi e non sanno nemmeno il perchè”. A differenza di quanto accaduto nel passato recente in occasioni simili, questa volta tutto fila liscio e la piccola folla si disperde senza problemi. Sui gradini d’ingresso del tribunale i contestatori, dietro lo striscione “Gli obiettori di coscienza sono servi del PKK”, ne approfittano per un ulteriore esibizione davanti alle telecamere. Nel mirino il ministro degli interni del quale chiedono le dimissioni.

Poi è la signora Pakize a decretare la fine della giornata chiedendo scusa alla polizia per il disagio provocato.

Mentre ci allontaniamo dal tribunale, una delle madri si avvicina: “Tutto questo succede per colpa dell’Europa. L’Europa vuole smembrare la Turchia”. Intorno i turisti continuano a scattare fotografie.
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