Le dichiarazioni del primo ministro della Republika Srpska, Milorad Dodik, su un referendum per l’indipendenza dell’entità hanno provocato il più grande terremoto della Bosnia Erzegovina dopo Dayton. Questa l’analisi dell’autorevole editorialista Senad Pecanin (Dani)
Di Senad Pecanin, Dani, 2 giugno 2006; traduzione di Ursula Burger Oesch per Le Courrier des Balkans e di Carlo Dall'Asta per Osservatorio sui Balcani
Senad Pecanin
La scena risale solo a qualche settimana dopo l’attentato contro Zoran Djindjic, nel marzo 2003. Venuto per la prima volta in vita mia a Laktasi, ho passato delle ore nella sede della Lega dei socialdemocratici indipendenti (SNSD) – partito che faceva all’epoca parte dell’opposizione, attendendo l’arrivo di Milorad Dodik per l’intervista che avevamo fissato. All’epoca ero affascinato dal coraggio con cui quest’uomo lottava contro il Partito democratico serbo (SDS) e la rete estremamente organizzata dei criminali e degli assassini della Republika Srpska (RS). Dopo l’uccisione del primo ministro serbo, i criminali della RS avevano, per giunta, ricevuto il rinforzo di certi loro colleghi della Serbia, che l’operazione «Sablja» [Sciabola, ndc] del governo di Belgrado aveva temporaneamente obbligato a un cambio d’indirizzo. Essi trovavano proprio lì un vicino ed accogliente rifugio.
Mentre io lo attendevo a Laktasi, Milorad Dodik mi chiamò a più riprese da Banja Luka, per scusarsi del ritardo e segnalarmi che era comunque in arrivo. La mia pazienza diminuiva. Nel momento in cui mi apprestavo a rientrare senza aver compiuto il mio incarico, quando l’attesa e il senso della dignità professionale avevano prevalso sul mio desiderio di realizzare l’intervista, Dodik infine apparve, scusandosi per il ritardo. Dopo un’eccellente intervista, nel momento in cui mi apprestavo a partire, egli mi propose improvvisamente di restare per discutere con lui in modo informale, senza microfono e senza registrare.
È stato durante i minuti che sono seguiti che l’ho reso partecipe della mia ammirazione per il suo coraggio e per la sua audacia nell’additare pubblicamente tutti i grandi criminali della RS ed i loro protettori in seno alla polizia ed al governo. Avevo paura per la sua vita, temevo che gli sarebbe toccato lo stesso destino di Djindjic. Egli non cercava di impressionarmi col suo coraggio; avevo l’impressione di riconoscere in lui certe caratteristiche che scopro talvolta in me stesso – una ostinazione e una rabbia spesso confuse, da parte di chi non conosce la situazione, con il coraggio.
Ero certo che fosse sincero. Così, fiducioso, ho deciso di approfittare della situazione per porgli una domanda, legata al suo impegno politico, che mi tormentava da anni. Gli ho detto che la mia équipe di Dani ed i suoi simpatizzanti di Sarajevo erano spesso sorpresi dalle sue posizioni politiche radicali, che destabilizzavano le speranze che noi riponevamo in lui, come persona suscettibile di diventare portatrice di una alternativa democratica, non nazionalista, non solo serba ma anche per la Bosnia ed Erzegovina.
Introducendo la sua risposta con numerosi complimenti per la rivista Dani, spiegando di essere un nostro regolare lettore e che, contrariamente alle critiche provenienti dal Partito di azione democratica (SDA) o dal Partito per la Bosnia ed Erzegovina (SBiH), le nostre critiche alle sue posizioni nazionaliste lo toccavano veramente, ha continuato: «Ma voi dovete capirmi: immaginate, per esempio, la mia campagna elettorale a Teslic. Tutta la città viene al meeting. Io mi metto a parlar loro dei diritti dell’uomo, della democrazia, dell’integrazione europea, dello stato di diritto... ma il pubblico resta in silenzio, non ci sono reazioni, come se parlassi a una mandria di mucche. Poi proclamo: «Non cederemo mai la Republika Srpska!» e la massa si sveglia, applaude, scandisce slogan... Io non gli spiego in che modo ce la vorrebbero togliere, né chi ce la vuol prendere, né perché... ma ho ottenuto l’effetto. Voi dovete capire: se io voglio lottare contro quei criminali in RS, mi devo servire dei loro metodi».
Sapendo che Dodik non parla inglese, ho evitato di citargli la famosa frase inglese «That is about leadership», che tuttavia bene illustra la differenza tra i veri leader politici, che riescono ad attrarre i loro elettori affermando le loro proprie convinzioni politiche ed altri, che raccolgono consensi elettorali assoggettandosi alle masse e dicendo loro esattamente ciò che esse vogliono sentire, anche se ciò è contrario alle loro personali convinzioni. Era difficile accettare la spiegazione di Dodik, ma mentirei se dicessi che non ero comprensivo verso la sua posizione.
Per la Bosnia ed Erzegovina, ma solo contro la Turchia
Alla mia successiva intervista con Dodik ero estremamente irritato con lui a causa della sua dichiarazione: «Io non posso tifare per la squadra di calcio della Bosnia Erzegovina, se non quando gioca contro la Turchia». Era appena prima dell’incontro decisivo durante le qualificazioni per la Coppa del mondo, contro la rappresentativa di Serbia e Montenegro a Belgrado. Il partito di Dodik, in quell’occasione, aveva organizzato il trasporto dei tifosi della RS verso la Serbia. Durante la partita, questi scandivano forte il nome di Ratko Mladic e parole come «Noz, zica, Srebrenica» [“Coltello, filo spinato, Srebrenica”, ndc]. Mi sarebbe piaciuto che egli decidesse di mentire, che mi avesse detto che quella dichiarazione a lui attribuita era inventata. Ma Dodik non era stato travisato, e ha confermato l’autenticità della sua frase. [...]
Da allora non ho più dubbi per quanto concerne il politico Milorad Dodik. Discutere se si tratti di un nazionalista vero o di uno che utilizza il nazionalismo unicamente come modo per conquistare gli elettori è completamente fuori luogo. Si tratta di un politico odioso, pronto ad utilizzare i metodi più ripugnanti se essi risultano utili per la realizzazione del suo obiettivo. Ora, il solo obiettivo di Dodik è il potere. Egli ha compreso che la maniera più facile per realizzare questo obiettivo è quello di aggiungere alla sua aura di prode combattente opposto ai crimini dell’SDS e di Mladen Ivanic, il ruolo del più accanito difensore degli «interessi nazionali serbi».
È avendo presente questa prospettiva che si deve interpretare la sua recente dichiarazione su un eventuale referendum sull’indipendenza della RS. A Milorad Dodik non manca l’intelligenza: egli sa che non potrebbe realizzare questa idea senza scatenare una guerra. D’altra parte, è evidente che se anche al posto di Radovan Karadzic ci fosse Dodik al comando dell’esercito, i cetnici non arriverebbero mai a realizzare le loro ambizioni fallite durante l’ultima guerra. E ciò non solo a causa della presenza della comunità internazionale o del cattivo stato dell’esercito serbo, il cui slogan si riduce a «l’importante è partecipare», ma anche perché i patrioti bosniaci hanno pagato troppo cara l’indipendenza del loro Paese per perderla ora contro un nemico così patetico.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che la dichiarazione di Dodik su un eventuale referendum in RS abbia provocato in Bosnia Erzegovina il più grande terremoto dopo Dayton. È altresì evidente che, prima di raffreddarsi, il suolo della politica bosniaca sarà scosso ancora a lungo da sismi che non si concluderanno prima delle elezioni dell’ottobre 2006. Del resto non è per caso che la suddetta dichiarazione sia stata pronunciata in questo preciso momento: è un buon modo da parte di Dodik di assicurarsi una campagna elettorale basata su uno scambio di colpi d’artiglieria nazionalista verbale di grosso calibro. Attraverso la scelta degli strumenti per la lotta elettorale, che richiamano le prime elezioni dopo la guerra, Dodik ha scelto anche i suoi alleati. Dal punto di vista dei suoi interessi di breve termine, ha messo a segno un colpo eccezionale.
In primo luogo perché attraverso tali dichiarazioni è riuscito a respingere l’SDS e Mladen Ivanic in seconda fila come politici proserbi.
Secondariamente, ha fatto un grande favore a Haris Silajdzic: gli ha facilitato il cammino verso il trono dato che, per la frustrata popolazione bosniaca, Silajdzic è il solo difensore degno di questo nome della dignità e degli interessi bosniaci.
In terzo luogo, simpatizzando col Partito d’azione democratica (SDA) nel fallimentare tentativo di adottare emendamenti costituzionali, agli occhi degli elettori bosniaci ha screditato l’SDA e personalmente il suo presidente Sulejman Tihic.
Ultimo punto, ma altrettanto importante, ha totalmente paralizzato il Partito socialdemocratico di Bosnia ed Erzegovina (SDP), di cui era da anni alleato «naturale» nelle coalizioni.
Tutti perdono, solo Silajdzic vince
Al momento è difficile dire chi farà più fatica a impostare la sua campagna elettorale: Dragan Covic (SDS), Mladen Ivanic (PDP), Sulejman Tihic (SDA) o Zlatko Lagumdzija (SDP).
Per i primi due, che portano il fardello dei pesanti crimini commessi dai quadri dei loro partiti al potere, è praticamente impossibile essere più «grandi serbi» di Dodik.
Quanto a Sulejman Tihic, lotterà ancora a lungo per provare tutta l’insensatezza delle convincenti accuse del «Blocco patriottico» bosniaco, sapendo che è solo a causa dello scacco delle riforme costituzionali se è stata scartata la possibilità di un referendum sull’indipendenza della RS.
La posizione di Zlatko Lagumdzija e dell’SDP è la più complicata. Oltre allo stesso problema che hanno Tihic e l’SDA, essi devono anche immaginarsi come condurre una campagna elettorale nella zona ristretta delimitata dalle coordinate stabilite da Dodik. Da una parte non si deve dimenticare che ancora oggi i voti dei bosniaci rappresentano il più solido sostegno elettorale dei socialdemocratici. Ma fino a che punto il bosniaco medio sarà interessato alle proposte di emendamenti legislativi dell’SDP, all’ integrazione europea o alle misure di politica economica se il nuovo tema chiave della campagna si può riassumere nella domanda: «La RS può o non può diventare indipendente?» D’altra parte, una risposta «bosniaca» alla sfida serba di Dodik svaluterebbe tutto ciò che il partito di Lagumdzija ha fatto fino ad oggi in quanto partito autenticamente multietnico e bosniaco-erzegovese.
Anche se accetta il guanto gettato da Dodik, l’SDP andrebbe a scontrarsi con Haris Silajdzic - il grande mago della demagogia nazionalista bosniaca. In competizione con lui, e sul suo terreno, l’SDP difficilmente può uscirne con il risultato che sembrava ancora del tutto probabile prima dell’ultima avventura nazionalista di Dodik. Dodik ha fatto più danni all’SDP oppure ha aiutato di più Silajdzic?
La Bosnia regredisce
Intanto una cosa è certa: con queste dichiarazioni, Milorad Dodik è riuscito a provocare una regressione della Bosnia ed Erzegovina all’anno politico 1996. Questo fatto dice molto di lui, ma purtroppo anche della Bosnia ed Erzegovina. Quando Dodik dice: «Io ho creduto nell’avvenire della Bosnia ed Erzegovina immediatamente dopo la guerra, più di quanto non ci creda al giorno d’oggi», non sta parlando della Bosnia ed Erzegovina, sta parlando di se stesso. Perché? Ebbene, a quell’epoca Slobodan Milosevic e Radovan Karadzic erano ancora i leader serbi più forti in BiH; Dodik non aveva ancora neanche un centesimo dell’influenza che egli ha oggi come politico nel Paese, Paese che è ostaggio del suo delirio.
Purtroppo l’intera Bosnia ed Erzegovina, così come tutti i suoi cittadini, pagherà il prezzo della mancanza di scrupoli di Milorad Dodik. Tutti coloro i quali non si lasceranno influenzare da demagogie nazionaliste e che non daranno i propri voti a Silajdzic o a Dodik meritano un governo ben migliore di quello che penderà al collo della Bosnia ed Erzegovina fino alle prossime elezioni. Quelle del 2010.