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La Turchia nella crisi mediorientale

28.07.2006    Da Istanbul, scrive Fabio Salomoni

Migliaia di profughi in fuga arrivano in Turchia. Ankara in bilico tra la tradizionale amicizia con Israele e le aperture di Erdogan nei confronti di Siria e Palestina. Tensione con l'Iraq per la ripresa della guerriglia kurda
Profughi in fuga dal Libano
Da giorni il porto mediterraneo di Mersin sta accogliendo migliaia di cittadini canadesi, australiani, francesi che abbandonano il Libano. Pressoché impossibile trovare posto sui voli provenienti dalla Siria, occupati da cittadini libanesi in fuga. La nuova crisi che sta scuotendo il Medio-Oriente coinvolge anche la Turchia. Mentre i giornali titolano “Non c’è nessuno che fermi Israele”, il ministro degli Esteri Gul al termine della conferenza di Roma ribadisce: “Se ci sarà una forza di pace sotto l’ombrello delle Nazioni Unite, la Turchia è pronta a parteciparvi”.

Fin dalla prima rappresaglia israeliana su Gaza, alla Turchia sono arrivati da più parti inviti a svolgere un ruolo di mediazione. Con la Siria, con la quale il governo Erdogan intrattiene intensi rapporti, e soprattutto con il partito di Hamas. Anche il presidente libanese Siniora si è rivolto ad Erdogan: “Israele colpisce i civili e distrugge le nostre infrastrutture. Noi vi vediamo come un paese amico del Libano, adoperatevi per arrivare ad un cessate il fuoco”. Il presidente palestinese Haniye, dal canto suo suo, in un’intervista al quotidiano Sabah ha apertamente invitato Erdogan a recarsi in Palestina. Appelli che costituiscono in qualche modo una rivincita per le scelte di politica estera del governo a guida AKP [Adalet ve Kalkinma Partisi, Partito della Giustizia e dello Sviluppo, ndc]. Se da anni la “cooperazione strategica” con Israele, rappresenta uno dei cardini della politica estera turca, fin dall’inizio del suo mandato il governo Erdogan ha mostrato una particolare attenzione nei confronti dei paesi arabi e la volontà di assumere rispetto al passato un ruolo più autonomo nella politica mediorientale. Lo ha fatto però prendendo le distanze dalla tradizione dell’islamismo politico turco, rappresentata dal vecchio Erbakan, i cui discorsi grondavano di attacchi al sionismo e favoleggiavano di un mercato economico tra i paesi musulmani. Erdogan ha mostrato un atteggiamento misurato e pragmatico: ha riallacciato le relazioni con la Siria del giovane Assad, con la quale la Turchia aveva una tradizione, che risale alla fondazione delle Repubblica, fatta di diffidenza e tensione che in alcuni casi è arrivata sull’orlo della guerra, come alla fine degli anni ’90.

Rispetto alla questione israelo-palestinese Erdogan si è proposto nel recente passato più volte come mediatore, non facendo mancare critiche alla politica israeliana. Posizioni che hanno contribuito ad alimentare la diffidenza di Washington e Tel Aviv nei confronti del governo dell’AKP. Diffidenza che in alcune occasioni si è tramutata in aperta irritazione, ad esempio quando tempo fa un parlamentare dell’AKP definì genocidio la politica delle forze di sicurezza israeliane in Palestina.

Il governo Erdogan poi ha mostrato fin dall’inizio una particolare attenzione per l’ascesa politica di Hamas. All’indomani della vittoria elettorale, rappresentanti di Hamas vennero invitati ad Ankara. Di fronte alla levata di scudi generalizzata, in patria e all’estero, verso quella che venne giudicata una mossa irresponsabile, Erdogan ricorse ad uno stratagemma piuttosto maldestro, chiarendo che gli emissari di Hamas arrivano in Turchia come invitati del partito e non del governo. Un escamotage che non evitò l’irritazione americana e israeliana. In particolare i rappresentanti di Tel Aviv definirono l’accaduto come “una ferita nelle relazioni tra i due paesi che non si rimarginerà molto presto”.

Fin dall’inizio dell’ultima ondata di attacchi israeliani, prima a Gaza e poi in Libano, il governo AKP non ha esitato a prendere posizione. Lo ha fatto con modalità consolidate: da un lato il linguaggio controllato e cauto del ministro degli Esteri Gul, il quale ha chiesto il cessate il fuoco e l’intervento delle Nazioni Unite. Dall’altro le dichiarazioni poco diplomatiche di Erdogan: ”Mi chiedo, qual è l’obbiettivo di Israele? Occupare completamente la Palestina? Lo vogliamo sapere! Se questo fosse l’obbiettivo di Israele allora l’umanità saprà certamente reagire. I figli dei palestinesi sono preziosi quanto quelli di Israele. Se il rapimento di soldati israeliani è un fatto negativo lo è ancora di più l’uso spropositato della forza. Nessuna ragione giustifica la pioggia di bombe sui civili o la distruzione delle città. Tutto ciò serve solo a spargere i semi dell’inimicizia”.

Nella generale delusione generata dalla mancanza di decisioni concrete scaturite dalla conferenza di Roma e dalle preoccupazioni per il “nuovo Medio-Oriente” a cui ha fatto riferimento Condoleeza Rice, al governo di Erdogan rimane la consolazione di aver visto inserito nel documento finale “l’impegno a cercare di raggiungere urgentemente il cessate il fuoco”.

Mentre però governo, opinione pubblica e mass media condannano le azioni israeliane, tornano a circolare in Turchia i fantasmi di un possibile intervento militare nel Nord Iraq. Il pretesto, gli attacchi del PKK [Partîya Karkerén Kurdîstan, Partito dei Lavoratori del Kurdistan, ndc], che nelle ultime settimane hanno fatto 15 morti tra le forze di sicurezza. Erdogan ed alcuni esponenti del governo sono tornati a parlare della possibilità della Turchia di utilizzare le opportunità fornite dal diritto internazionale per difendere la sua integrità territoriale. In pratica, la possibilità di un'operazione militare in territorio iracheno contro le basi dalle quali i militanti del PKK si infiltrano in territorio turco. Una opzione sostenuta a gran voce da molti dei partiti di opposizione, ma che ha trovato la netta ostilità americana. E senza il consenso statunitense i militari turchi sembrano non avere nessuna intenzione di entrare in Iraq.

Le parole di un deputato dell’AKP riassumono perfettamente l’ambiguità di Erdogan: “Condanniamo Israele per quanto sta facendo in Libano e poi lo portiamo ad esempio per spiegare un nostro intervento nel Nord Iraq. Non potremo giustificarci di fronte all’opinione pubblica mondiale”.

Di fronte all’opposizione americana e ai dubbi dei militari, Erdogan negli ultimi giorni ha cambiato rotta, proponendo un intervento della NATO nel Nord-Iraq.

Nel corso degli anni ’90, l’esercito turco ha condotto almeno due importanti campagne militari nel Nord Iraq, ogni volta con l’obbiettivo di risolvere alla radice il problema del PKK.

Il PKK e la questione curda invece rimangono ancora in attesa di una soluzione. In attesa di uomini e partiti politici che abbiamo il coraggio di tenersi lontano dalla facile demagogia e dalla tentazione di solleticare i pruriti bellicosi di una parte dell’opinione pubblica.

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