Due considerazioni: le divisioni etniche e istituzionali in Bosnia Erzegovina si stanno radicalizzando invece che ammorbidirsi e, soprattutto, emerge in modo sempre più drammatico la questione sociale. Si sviluppa sulle pagine elettroniche di OB il dibattito sulla Bosnia di oggi. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Sarajevo, il Parlamento (luglio 2006)
Di Gian Matteo Apuzzo*
Ho letto con estremo interesse l’intervento di Michele Nardelli sulla situazione della Bosnia Erzegovina, intervento che cade con un tempismo per me incredibile rispetto alle riflessioni che stavo facendo al ritorno da un recentissimo viaggio proprio in quel paese. Dico incredibile ma non sorprendente, perché le parole di Nardelli confermano quanto vado affermando in questi giorni, e cioè che la Bosnia Erzegovina non è solo un paese fermo (sospeso, dice bene Michele) ma sotto certi aspetti è un paese che sta arretrando.
Lo scorso giovedì 20 luglio ad una trasmissione radio della Rai regionale del Friuli Venezia Giulia, alla quale ho partecipato proprio insieme a Nardelli e ad altri autori dei saggi contenuti nel libro “Le città divise”, anche rischiando di esagerare ho lanciato un vero “grido d’allarme” che desideravo e desidero rivolgere a quanti hanno a cuore le sorti della Bosnia, ma anche e soprattutto a quanti lavorano e cooperano con questo paese, a quanti, istituzioni, imprese e associazioni, hanno interessi seppur diversi in quella parte dei Balcani. Ritengo che la situazione sia molto preoccupante e temo fortemente che si stiano sottovalutando le inerzie silenziose ma cariche di conseguenze.
Il mio grido d’allarme, personale, dettato da sensazioni e analisi di osservatore e di studioso, verte su due considerazioni principali: le divisioni etniche e istituzionali si stanno radicalizzando invece che ammorbidirsi e, soprattutto, in Bosnia Erzegovina sta emergendo drammaticamente la questione sociale.
Si sa come questi due fenomeni siano legati tra loro e come una situazione di crescente disagio economico e sociale sia terreno fertile per usare la leva del nazionalismo e dell’appartenenza etnica per dividere ancora e per radicalizzare rancori e paure. E la Bosnia è un paese dove, in una città come Mostar, basta una partita di calcio ai mondiali per scatenare scontri tra giovani di diversa appartenenza e dove l’unica scuola interetnica è continuamente bersaglio di manifestazioni violente.
È un paese dove non riescono ad emergere le voci del dialogo e della ricostruzione della fiducia, dove la “pratica difficile e dolorosa dell’elaborazione del conflitto” (come la definisce Michele) è sommersa mediaticamente sotto la propaganda nazionalista e sotto il paradosso degli estremi che si toccano, degli interessi nazionalistici opposti e in conflitto che però perseguono lo stesso obiettivo, e cioè che nulla cambi. Quanto meno la situazione si muove, tanto più vengono soddisfatti gli interessi delle élites nazionaliste.
Non un passo in avanti, anzi. E mentre si discute a tutti i livelli se Dayton ha fallito o meno, la Bosnia Erzegovina intanto “ha fame”, ma nessuno sembra accorgersene.
E anche Nardelli lo dice, nel dopoguerra sono cresciute le condizioni di povertà. Una povertà che si sente, si tocca con mano, per le strade di Sarajevo, dove non occorre essere ricercatori o statistici per vedere che sono in aumento gli indigenti e quelli che chiedono l’elemosina per le strade. Agli anziani e agli invalidi di guerra, si sono aggiunti i nuovi immigrati, come i rom, con donne e bambini sempre più presenti nelle vie pedonali o ai semafori, rom scappati dal Kosovo o dall’Albania, che hanno visto comunque in Sarajevo un luogo dove, anche grazie ad un turismo in crescita, qualche soldo gira. E infatti Sarajevo per certi aspetti è una città dove ancora pulsa l’anima aperta e dinamica e dove la ricostruzione dà concreti segnali di speranza, tra i quali, uno dei più recenti e fortemente simbolico è senza dubbio l’inizio del recupero del palazzo del Parlamento (grazie ad un finanziamento del governo greco), palazzo simbolo, insieme alla biblioteca nazionale, bombardato durante la guerra e il cui grigio e ferito scheletro ricordava a tutti la tragedia della guerra e dell’urbicidio.
Ma se Sarajevo ci presenta segnali contrastanti, sono altre città che mostrano i segni di una depressione economica che non dà molte speranze. Vorrei qui portare ad esempio Višegrad, la città del ponte sulla Drina, per la quale sembrano lontani i tempi in cui univa due mondi, città multipla in cui oriente e occidente si incontravano. Višegrad continua ad essere meta di turisti e curiosi che vogliono “toccare” le pietre e gli archi del manufatto reso celebre del grande scrittore Andric, eppure non riesce a darsi una nuova anima e un nuovo impulso di sviluppo, anzi, l’impressione che se ne trae è di spaesamento e declino. Una città sospesa, per usare ancora il termine usato da Nardelli.
Come dicevo sopra però è tutto il paese che soffre e tale situazione fa aumentare anche gli yugo-nostalgici. Ne ho incontrati tanti, che dagli anni ’90 in poi hanno perso quasi tutto e ai quali non viene offerto un futuro decente in patria. La Bosnia Erzegovina rischia sempre più di essere un paese dove si sta peggio che nel passato. Come mi ha detto un caro amico, non si tratta della solita frase “si stava meglio quando si stava peggio”, il problema è che per molti vale il “si stava meglio” e basta.
È un paese che non dà lavoro, tanto che si continua ad emigrare, a non tornare, a cercare lavoro dove e come si può. Lungo la strada tra Foča e Goradže su una collina capeggia una gigantesca scritta sull’erba che ricorda Tito, quasi un memoriale. Proprio lì sotto Sasha vende bibite e frutta e ci racconta che prima della guerra aveva tutto, mentre ora lui ha un lavoro molto precario e sua moglie e sua figlia sono costrette ad andare a lavorare sulla costa croata, perché in Dalmazia, almeno d’estate, c’è lavoro.
La Bosnia è un paese dove il servizio sanitario è allo stremo e non riesce più a garantire un diritto alla salute adeguato per tutti. Un paese dove ad esempio, anche per chi può permetterselo, è meglio non andare dal dentista, perché i dentisti sono costretti a usare sempre gli stessi strumenti, con una scarsissima sicurezza e igiene.
Eppure di potenziali leve di sviluppo ce ne sono, ma non ci sono neanche le condizioni perché venga resa veramente una risorsa la straordinaria ricchezza di beni culturali e ambientali. La natura è una straordinaria potenzialità della Bosnia Erzegovina, ma anche qui tutto è fermo o quasi. Oltre al problema delle mine (e dell’uranio impoverito, altro tema trascurato), spesso anche in questo caso divisioni e lacerazioni contribuiscono alla staticità della situazione: così, nel paese che presenta valli e gole dei fiumi tra le più belle al mondo, quelle valli sono ancora simbolo di territori contesi per poter pensare ad uno sviluppo condiviso. Sempre nel recente viaggio sono passato attraverso il parco nazionale della Sutjeska, una natura splendida, incontaminata e selvaggia, non troppo lontano da Sarajevo, ma che difficilmente riuscirà a decollare finché saranno così forti le divisioni tra Federazione e Srpska.
Come ho detto prima il mio “grido d’allarme” è rivolto a tutti quelli che hanno a cuore le sorti della Bosnia Erzegovina. In questo senso credo che una grande responsabilità ce l’abbia l’Europa, un’Europa che quanto più si allarga tanto più vede aumentare i confini al proprio interno. Sembrano drammaticamente attuali le parole di Langer, l’Europa muore o rinasce a Sarajevo. Nei Balcani e in Bosnia in particolare si gioca il futuro dell’Europa: solo se apriamo gli occhi in questo senso eviteremo il fallimento. La Bosnia ha bisogno di noi e noi della Bosnia, per non ritrovarci a parlare di tragedie. Se si continua a lasciar andare le cose come sono, il rischio di una nuova crisi bosniaca è forte. Concludo come ha iniziato Nardelli: spero di sbagliarmi.
* Gian Matteo Apuzzo insegna sociologia del territorio all'Univeristà di Trieste e coordina da quattro anni il Master in cooperazione con l'Europa centro-orientale e balcanica (Università di Padova e Trieste) e ha curato recentemente il libro "Le città divise".