Una comunità internazionale priva di orizzonte politico, la persistenza del “desiderio di Stato” nelle dinamiche politiche post-comuniste dei Balcani. Riceviamo e volentieri pubblichiamo la Master Recherche di Daniele Senzanonna per l'Istituto di Studi Politici di Parigi
Il Kosovo sotto la neve (foto M. Barisone)
Di Daniele Senzanonna
Questa ricerca si propone di analizzare in maniera critica l’azione dell’amministrazione internazionale in Kosovo. Com’è noto, l’impegno assunto dalla missione è di grande portata, sia per le funzioni che per il numero degli attori coinvolti. Questo lavoro si focalizza sugli aspetti politici della missione, tentando di analizzarne i risultati alla luce degli obiettivi fissati.
L’organizzazione della ricerca si fonda sulla teoria di Françis Fukuyama che divide il processo di
state building in due fasi. La prima fase vede la missione impegnata nelle operazioni necessarie per la stabilizzazione del paese, nell’offerta degli aiuti umanitari, nella ricostruzione delle infrastrutture e nel rilancio dell’economia. La seconda fase comincia quando una certa stabilità è assicurata, e la missione può intraprendere il processo di creazione di quelle istituzioni necessarie allo sviluppo di dinamiche politiche democratiche e alla crescita economica.
Sulla base di tale periodizzazione, fondata sulle variabili “tempo-funzioni”, si è organizzata la ricerca in due parti, assumendo come momento di passaggio tra le due epoche la promulgazione del “Constitutional Framework” (maggio 2001).
Adottando un metodo induttivo, lo studio qui presentato si propone di dimostrare tre fondamentali ipotesi.
Prima ipotesi: il limite maggiore dell’azione internazionale in Kosovo risiede nell’assenza di un qualsiasi progetto politico a lungo termine. La NATO ha intrapreso la guerra sulla base di una rappresentazione manichea della questione del Kosovo. Tale rappresentazione, molto forte presso i governi americano e inglese, contribuisce a spiegare l’incapacità della KFOR di far fronte alla vendetta dell’UçK contro le comunità serba e rom nell’immediato dopoguerra.
In questo senso, il vero limite dell’amministrazione internazionale non è nell’ambiguità del mandato creato dalla risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza. In un primo momento, tale ambiguità avrebbe potuto presentare perfino alcuni vantaggi, in quanto dava all’amministrazione internazionale un ampio margine di manovra. Piuttosto, il limite è nell’incapacità della missione e dei paesi del Gruppo di Contatto di tracciare un orizzonte politico verso il quale dirigere la propria azione in Kosovo. In effetti, negli ultimi 7 anni, non è stato delineato alcun progetto politico davvero sostenibile a medio o a lungo termine.
La seconda ipotesi concerne i risultati dell’azione internazionale. Quest’ultima è da considerarsi “abbastanza efficace” quanto al processo di stabilizzazione, ovvero nella prima fase dello
state building, durante la quale l’UNMIK è riuscita a creare un sistema di co-amministrazione (JIAS) che ha avuto il merito di evitare la completa
albanizzazione del sistema politico-istituzionale del Kosovo. Tuttavia, nella seconda fase, la missione sembra aver perso il suo slancio, in quanto il “Constitutional Framework” del maggio 2001 non ha determinato alcun reale trasferimento di poteri dall’UNMIK alle nuove istituzioni locali, finendo piuttosto per gettare le basi di un protettorato di durata indeterminata.
In seguito – ed è la terza ipotesi – la reticenza della missione e dei paesi del Gruppo di Contatto ad affrontare la questione dello status del Kosovo, ha di fatto impedito la realizzazione di quei progressi necessari per intraprendere il percorso di costruzione di una democrazia.
Nel 2003, la missione ha lanciato la strategia degli
“standards before status”, che condizionava l’apertura dei negoziati alla realizzazione di alcuni criteri tipici delle democrazie occidentali. L’errore politico non è stato nel voler fissare degli obiettivi democratici molto elevati, ma nell’aver vincolato l’avvio delle trattative alla realizzazione di questi ultimi. Il progresso democratico non è incompatibile con la definizione dello status. Al contrario, esso necessita di un quadro istituzionale sicuro e dunque di uno status chiaramente definito, o – quanto meno – di un processo di definizione.
Inoltre, mentre a livello ufficiale si creava una sorta di tabù politico, alcuni governi (in particolare quello americano e quello inglese) hanno lasciato officiosamente intendere agli albanesi che il Kosovo sarebbe divenuto presto uno Stato indipendente. Una prova di questo atteggiamento é individuabile nel modo in cui è stata gestita la smilitarizzazione dell’UçK, al quale si è di fatto permesso di perseguire il disegno politico della creazione del proto-esercito di un Kosovo indipendente.
Gli effetti negativi di questa strategia di rinvio nel tempo della questione dello status, risultano evidenti dall’analisi di tre settori. Sul piano politico, tale scelta ha ostacolato qualsiasi processo di responsabilizzazione delle élite serba e kosovaro-albanese, le quali – concentrando tutta l’attenzione pubblica su tale questione – hanno potuto evitare di impegnarsi nella definizione di un’efficace strategia di sviluppo politico ed economico per il Kosovo, qualunque sarà il suo status. Inoltre, tale tabù non ha certamente spinto né Belgrado né Pristina a moderare le proprie posizioni sulla questione dello status, posizioni che restano intransigenti ed incompatibili.
Sul piano delle relazioni intercomunitarie, da una parte gli albanesi continuano a percepire la presenza serba in Kosovo come una minaccia alla propria indipendenza, dall’altra Belgrado persegue la propria politica di sfruttamento degli sfollati serbi, impedendo la loro integrazione nel nuovo Kosovo o nella stessa Serbia. Il risultato è che gli sfollati serbi e rom vivono ancora nelle enclavi e non sono liberi di spostarsi liberamente sul territorio, se non sotto scorta.
Quanto al risanamento dell’economia, l’incertezza sullo status scoraggia l’afflusso degli investimenti esteri diretti e ostacola il meccanismo dei prestiti accordati dalle istituzioni finanziarie internazionali.
Sul piano teorico, la conclusione è duplice. I principali attori internazionali e quelli locali sembrano seguire gli schemi comportamentali della dottrina
realista. La difesa della propria sovranità da parte serba e la speculare richiesta di “riconoscimento della propria indipendenza” da parte kosovaro-albanese dimostrano che lo Stato “resiste” quanto meno in termini di “desiderio di Stato” nelle dinamiche politiche post-comuniste dei Balcani (Samy Cohen,
La Resistence des Etats, 2003). Inoltre, l’amministrazione internazionale, le Nazioni Unite e i paesi del Gruppo di Contatto hanno – fino ad ora – dato prova di una relativa incapacità a pensare la questione del Kosovo in una maniera
non-realista.
Tuttavia, la creazione di un sistema politico democratico e il rilancio dell’economia non saranno possibili se gli attori locali e internazionali non saranno capaci di dare vita a delle forme reali di integrazione locale e regionale. E’ la via dell’ “indipendenza condizionale” e dell’integrazione nell’Unione Europea proposta dalla “Independent International Commission on the Balkans” già nel 2000. Soluzioni di questo tipo mettono l’accento su un approccio di tipo
transnazionalista.
Il predominare di soluzioni
realiste o
transnazionaliste dipenderà dalla scelta cruciale che gli attori implicati in questo processo sapranno effettuare tra sovranità e integrazione.
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