Un viaggio a ritroso, dopo dieci anni, da Sarajevo a Belgrado. L'autrice torna per incontrare i suoi vecchi amici. Alla frontiera non c'è più Arkan, ma dimenticare è difficile. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Chagall, "La passeggiata" (1917)
Pareva un punto nero nel gran bianco di neve che copre l’altipiano ad ovest di Sarajevo, sulla strada verso Belgrado. Avvicinandosi diventava grande. Oh Dio, è un cane! Morto! Mi scappa ad alta voce.
Una cagna. È stata investita tre giorni fa, spiega l’autista con voce impassibile. Un altro cane, un pastore tedesco, seduto vicino al corpo immobile, fa la guardia. A distanza di pochi metri un cucciolo camminava su e giù, confuso.
Altri passeggeri dell’autobus, zitti dall’inizio del viaggio, mi lanciano uno sguardo breve, senza curiosità. Un cane morto non fa impressione alla gente che è sopravvissuta alla guerra in Bosnia.
Dopo dieci anni vado con l’autobus da Sarajevo a Belgrado. Quasi nove ore di viaggio. Ho cercato di avere informazioni sull’orario chiamando la stazione centrale di Sarajevo. La voce femminile che mi ha risposto si è subito fatta brusca e ostile. Non danno informazioni su Belgrado! Tress! E sbatte giù il telefono. Per ottenere informazioni sull’orario, mi arrangio con la mia vicina di casa.
L’autobus parte dalla nuova stazione: una baracca costruita nella parte serba di Sarajevo, la zona che durante le Olimpiadi invernali nell’84 ospitava il villaggio olimpico.
Fa freddo, la mattina presto. Nella semioscurità, con la foschia, la gente appare come nei quadri degli impressionisti: silhouette in movimento. Le donne robuste con i baffi, portano le borsette come un filoncino di pane, gli uomini hanno le sopracciglia quasi unite. Sono vestiti da paesani, con gli stivali pesanti, le giacche di colori scuri e di taglie grandi, sembrano tutte XXL, maglioni fatti a mano. Nessuno parla. Si comunica scambiandosi gli sguardi, piuttosto che con le parole.
Gli autisti silenziosi si aggirano tra i passeggeri come i pastori vanno tra le pecore cercando quella giusta da sacrificare.
Gli autobus sono privati. La veloce transizione dal comunismo al capitalismo si presenta con dei pullman appena in condizione di stare sulle ruote, pieni di buchi, senza riscaldamento.
“È meglio sedersi vicino all’autista, sospira un signore rivolgendosi a me. Fa freddo dietro: ieri sono venuto con loro da Belgrado”.
Dopo solo una ventina di minuti ho capito quanto era preziosa l’informazione che mi aveva fornito. Noi, seduti sui posti davanti, eravamo riscaldati da un piccolo ventilatore. Nel resto del pullman si gelava. La gente protestava debolmente, sapendo già che era inutile.
Il nuovo conoscente mi chiede come mi chiamo. Sentendolo, capisce che sono bosniaca, si avvicina e con voce bassa si confessa in fretta: metà serbo, metà croato, è scappato da Sarajevo, adesso sta a Belgrado, vive in miseria, non ha né lavoro fisso, né casa; capisce che ha sbagliato, è incerto se tornare o andare avanti. Tanto… è la stessa cosa, dice e mi saluta. Scende a Pale, va a visitare la nonna e le porta le uova da Sarajevo.
A Pale il sole splende. È bellissimo: la neve è polverosa e brillante. L’ideale per sciare, penso con tristezza. Pale, era una famosa località sciistica; durante il conflitto era diventata la roccaforte dei serbi ribelli, ora vivacchia a stento.
Alcuni passeggeri scendono, altri salgono, si va avanti. Subito fuori da Pale, a fianco della strada c’è appeso un grande striscione con la scritta in cirillico “Anche a Dio pesiamo così come siamo”.
L’autobus avanza lentamente, la strada è stretta, coperta di neve e sotto c’è il ghiaccio. Il motore fa un rumore strano, speriamo che non si fermi in mezzo al niente. Capita anche quello, dicono i passeggeri più esperti, quelli che percorrono spesso questa tratta.
L’autista ha difficoltà con il cambio, si ferma e chiede all’aiutante di controllare se per caso qualche borsa sotto crei ostacoli. Sotto è tutto a posto. Allora usa più forza e riesce a fare la manovra.
Il conducente fuma senza sosta. Ogni dieci, quindici minuti apre la piccola finestra a fianco e sputa fuori nell’aria. In una curva la porta alla sua sinistra si apre. Anche stavolta sono l’unica a reagire con paura. L’autista la chiude, un po’ assente, come si fa con i gesti che si ripetono spesso.
Il nuovo vicino di posto mi chiede dove vado; riconosce il mio accento di Sarajevo, mi chiede come mi chiami, si sente subito “con i suoi”, si fida di una bosniaca, e comincia a parlare. È serbo, di Sarajevo, scappato a Belgrado con la famiglia durante la guerra. A Sarajevo faceva l’autista per i funzionari municipali. Si lamenta dei Srbijanci, serbi della Serbia. Lui è serbo dalla Bosnia. Non sono fiduciosi, lui lavora con gli albanesi, gente onesta quella, per non parlare poi di noi bosniaci. “Sai, noi bosniaci, siamo diversi, mi dice in conclusione”.
Adesso il pullman va più veloce. Siamo in pianura. La strada corre verso il fiume Drina, verso la Serbia. Osservo il paesaggio. Tutta la zona è molto stretta tra le montagne, la terra è poca e sterile, campi rari, non coltivati. Cerco, stupidamente, i segni delle fosse comuni. In questa zona, vicino al fiume Drina, i serbi hanno fatto scomparire circa sette-otto mila musulmani di Srebrenica. Che lavoraccio! Tutto sbrigato in due-tre giorni. I bosniaci che non sono stati uccisi sono scappati. Nonostante ciò si vedono le moschee, nuove. Inutile tentativo della comunità internazionale di far tornare i musulmani.
Oggi la popolazione sono i serbi. Mi chiedo come fanno gli abitanti attuali a vivere con quella storia d’orrore sulle spalle. Un bel sabato di sole decidi di fare un picnic, porti la moglie e due bambini, ti metti a cucinare un po’ di cevapcici, cerchi i rami secchi per il fuoco e trovi i resti di cinque, cinquanta o cinquecento persone!
Siamo sul ponte sulla Drina. È il confine tra la Serbia e la Bosnia Erzegovina. Ci controllano i documenti. I serbi passano il confine con la carta d’identità, altre cinque persone, me compresa, subiscono un controllo più dettagliato.
Stiamo fermi per una ventina di minuti. L’ultima volta, dieci anni fa, arrivando dalla direzione opposta, da Belgrado, i documenti me li aveva controllati Arkan, il più atroce criminale di guerra. Solo allora, quando l’ho visto in compagnia di ufficiali dell’esercito iugoslavo e di paramilitari serbi, ho capito quello che mi dicevano i giornalisti stranieri: l’armata iugoslava combatteva contro di noi, il popolo che l’adorava e si fidava come uno si fida del proprio padre.
L’aiutante dell’autista conta i soldi: in cinque ore di viaggio, con tutti i passeggeri che salivano e scendevano, hanno guadagnato 50 Euro.
Belgrado non è più l’elegante capitale europea che ho conosciuto e che descrive l’ultimo ambasciatore americano Zimerman nel suo libro ”L’Origine della catastrofe”. La città è trascurata, le facciate dei palazzi in pieno centro sono scalcinate e c’è un impressionante odore di cerosino.
Si preparano le elezioni. I candidati sono le stesse facce che vedevo prima e durante la guerra. Non hanno cambiato i programmi, solo il vocabolario. Usano meno parole come “il patriottismo” o “srpstvo” (che corrisponde all’italianità), e tanto di più “il mercato” o “l’Europa” o “il futuro”. Due donne preferiscono discutere della faccia di un vecchio candidato dell’opposizione che si è fatto fare il lifting, piuttosto che del programma del suo partito.
Trovo vecchi amici. Si va al ristorante. Entriamo alle quattro del pomeriggio. Si comincia con la grappa, un po’ di stuzzichini finché non arrivano le pietanze “vere e proprie”.
Si è sparsa la voce che sono in città. Arrivano altre persone. Un tavolo non ci basta più, ne aggiungiamo un altro. Si raccontano barzellette, immancabilmente sui due scemi proverbiali bosniaci Suljo e Mujo. Arriva il cantante con la chitarra. All’inizio cantiamo le balde “neutrali”, ma come si va avanti con i piatti sempre più pesanti e i vini densi come lo sciroppo, anche le canzoni diventano sempre più cariche di sofferenza, emozione, lacrime, amore e nostalgia.
Il cantante, anche lui serbo scappato dall’Erzegovina, ha la propria canzone sul “maledetto fiume Drina”. Cantano tutti nel ristorante, ci troviamo abbracciati ad altri sconosciuti ospiti del bar. È tutta una vera “fratellanza e unità”, come ci insegnava il presidente Tito. Dalle altre tavole alcuni, ubriachi non meno di noi, gridano il vecchio detto che “il paese che non ha la Bosnia non vale nulla”. Si va avanti, litighiamo per chi pagherà il prossimo giro, la prossima canzone, cadono i soldi nella chitarra. Ormai cantiamo solo le canzoni bosniache.
“Perché non torni?”, mi chiede una collega abbracciandomi, con gli occhi che brillano.
“Perché dieci anni fa mi hanno cacciato via per il fatto che ero musulmana!”
“Solo per questo?”
“Sì, solo per questo!”
Usciamo dal bar alle tre di mattina. Nevica. I fiocchi di neve grandi come gli occhi dei bambini cadono lentamente in silenzio.
Si va a dormire. Due amiche litigano per stabilire chi mi ospiterà.
E io, in questa note shakesperiana, in pieno centro di Belgrado, mi domando perplessa: “E adesso?”
Adesso voglio che qualcuno mi assicuri che non c’è stata la guerra, che non c’è stata la pulizia etnica, né atrocità, né l’odio, che non mi hanno cacciato via e che tutto è stato solo un brutto sogno prima di questa neve vergine su Belgrado.