L’Albania sta attraversando una delle peggiori crisi energetiche degli ultimi anni. Nei centri-città la corrente manca almeno cinque ore al giorno, ma nelle periferie si va al raddoppio, per arrivare fino a 18 ore nelle aree rurali
Autunno albanese
Sul piano psicologico, la situazione risulta ancora più deprimente perché il 2006 aveva promesso miracoli: da gennaio a settembre dello scorso anno, i blackouts sembravano finalmente un brutto ricordo e il paese si godeva una situazione di normalità che ne aveva migliorato l’umore generale. E se qualcuno si mostrava scettico davanti al portento, sostenendo che l’inverno sarebbe finito come al solito, gli si dava del disfattista.
A ottobre i sorrisi sicuri hanno iniziato a svanire. L’autunno era secco e le aree rurali dovevano per prime riabituarsi ai gaps, che ben presto hanno investito anche le città. Nei centri urbani, i partigiani filogovernativi ipotizzavano ottimisticamente che si trattasse solo di “guasti”, e per una volta tutti speravano che avessero ragione. Nel frattempo, il premier Sali Berisha rassicurava la popolazione, garantendo 24 ore di corrente al giorno per tutto l’inverno nell’Albania intera. Ma intanto i “guasti” si facevano quotidiani e sempre più lunghi.
Quando era ormai evidente che il paese versasse in piena crisi energetica, il 21 novembre i telegiornali filogovernativi annunciavano che i blackouts erano dovuti alla chiusura di una centrale atomica in Bulgaria. Da quel momento, il governo ha addotto il taglio dei rifornimenti bulgari quale ragione delle tenebre albanesi, sommandolo alla siccità che paralizza le centrali idriche locali. Immediata la reazione dell’opposizione, che ha accusato Berisha di appellarsi a “cause superiori”, nella fattispecie al
deus ex machina bulgaro, per giustificare la cattiva gestione della KESH (Corporazione Elettro-energetica Albanese) e le mancate promesse del mese prima.
Il retroscena bulgaro
Effettivamente, all’inizio di novembre, il ministro dell’Energia bulgaro Ovcharov aveva messo in guardia contro le “tragiche conseguenze” della chiusura dei reattori III e IV della centrale nucleare di Kozloduy, sulle rive del Danubio. Lo spegnimento degli impianti, avvenuto il 31 dicembre, era una precondizione per l’ingresso bulgaro nell’UE, poiché il commissario europeo per l’Energia aveva dichiarato le due unità troppo antiquate per essere rimodernate a costi ragionevoli.
Ovcharov rispondeva che il “panico” scatenato nel mercato dell’energia si sarebbe rivelato assai più costoso e pericoloso, prevedendo scenari catastrofici per l’intero Sudest europeo, e si appellava alle preoccupazioni espresse dagli importatori balcanici dell’energia bulgara – Serbia, Macedonia, Grecia e Albania. La Bulgaria produce circa 45 miliardi di KWh di energia elettrica all’anno, 33 dei quali destinati al consumo interno, mentre le esportazioni ammontano a 7-8 miliardi di KWh annui, andando a coprire dall’80 al 100% del deficit energetico dei paesi circostanti.
Al contrario, l’opposizione bulgara sostiene che il paese disponga di riserve sufficienti a coprire le esportazioni e ipotizza che il catastrofismo governativo abbia secondi fini. Una situazione analoga si era verificata nel 2002, alla chiusura delle unità I e II di Kozloduy, ma nonostante gli allarmismi la produzione energetica bulgara era addirittura aumentata. Pertanto, diversi esperti ritengono che lo spegnimento dei reattori III e IV sia insignificante, ma il governo avvisa che la Bulgaria non sarà in grado di esportare energia oltre la fine di gennaio. L’Agenzia bulgara per l’Efficienza vede come unica soluzione la costruzione della controversa centrale atomica di Belene, un progetto che risale ai tempi del comunismo. L’opera, affidata alla russa Atomstroyexport (gruppo Gazprom), suscita ovvie polemiche di natura ecologica ma anche pratica, perché richiederebbe almeno sei anni di lavoro, mentre altri Stati balcanici avvieranno nel frattempo nuove centrali – ad esempio, l’impianto atomico di Cernavoda in Romania.
Resta il fatto che dalla fine di novembre Sofia non ha partecipato ad alcuna asta per l’esportazione elettrica, provocando l’immediato aumento dei costi energetici presso tutti i suoi ex clienti. A questo punto i Balcani si troveranno a dipendere dalle esportazioni rumene (2,9 miliardi di KWh annui) e bosniache (1,5 miliardi di KWh), contro i 12 miliardi di KWh totali di cui disponeva grazie all’apporto bulgaro – senza contare che il rigore invernale rende gli esportatori dell’area più avari.
Il senno di poi
Sono 15 anni che l’Albania convive con uno stato cronico di crisi energetica. I primi blackouts risalgono al 1992, ma il paese non diede peso al fenomeno, che si aggravava progressivamente. Erano gli anni delle “feste a tema” per l’avvento della democrazia, per la fine della crisi alimentare, per il trionfo del consumismo e dei suoi confort. Fra questi anche stufe elettriche e condizionatori, necessari in un paese privo di riscaldamento domestico a gas. Oggi si fa ironia: “Saremo anche poveri, ma ci siamo sempre scaldati con mezzi di lusso, prima la legna e poi la corrente”.
Nel frattempo proliferavano le attività private e i consumi salivano ulteriormente: la rete elettrica di Enver Hoxha non era in grado di sostenere tanto peso e finì per collassare. Gente pratica, anziché perdere tempo a inveire contro il governo e a pretendere una rapida ricostruzione della rete, i nuovi imprenditori albanesi si armarono di gruppi elettrogeni a nafta, così come i nuovi ricchi andavano a vivere in palazzi dotati di generatori e la middle-class si accontentava di invertitori in grado di tenere una lampada e la televisione. Di conseguenza, tutti i governi albanesi si adagiarono sul pragmatismo della “corrente fai da te” e non avvertirono l’urgenza di risolvere la situazione.
La crisi peggiore fu quella del 2000-2001, cui seguirono anni di tregua che videro i razionamenti ridotti a tre ore nella fascia diurna. Poi, in concomitanza con l’insediamento del governo Berisha, negli ultimi quattro mesi del 2005 l’Albania è ripiombata nelle tenebre – dieci ore al giorno nei centri-città, ma per fortuna non la sera. Ora i blackouts colpiscono anche dal tramonto in poi, esasperando la popolazione. E’ proprio in questi ultimi due anni che la gente ha preso coscienza del problema energetico, mostrando un crescente scontento dovuto al rincaro della nafta per i generatori – le attività private vedono le spese raddoppiate – e alla stanchezza di sentirsi “l’Africa d’Europa”.
Polemiche politiche
Mentre periferie e campagne albanesi languono al buio, il mondo politico si azzuffa. Scettica davanti all’ipotesi bulgara, l’opposizione socialista ricorda che durante la crisi del 2005 l’Albania era affezionata cliente di Sofia, e rimarca che la rete albanese non è in grado di importare più di 10,2 milioni di KWh al giorno, quando ne servirebbe il doppio. “Anziché importare bisognerebbe produrre!” denunciano i socialisti, accusando Berisha di aver impedito la realizzazione di una nuova centrale idrica a Skavica, nel Nordest del paese, prevista fin dal 2002.
La maggioranza è inoltre accusata di aver condotto una politica scriteriata nel 2006, avendo elargito corrente a volontà sia ai cittadini adempienti sia all’esercito degli inadempienti. Se a questo si aggiunge l’alleggerimento delle bollette per gli utenti dell’alta tensione – mentre la Banca Mondiale aveva caldeggiato l’aumento dei prezzi di vendita dell’energia in base al suo costo – ecco spiegata, secondo i socialisti, la rovina finanziaria della KESH. Per curare la Corporazione, l’opposizione propone di privatizzare (parola magica) la distribuzione dell’energia elettrica. Sperando che non finisca proprio come in Bulgaria, dove i nuovi distributori stranieri hanno gonfiato le bollette, sbagliato i voltaggi e provocato blackouts.
Da parte sua, Berisha promette di portare il gas in Albania e a tal fine sta progettando un rigassificatore presso Fier. Non solo, il governo starebbe per lanciare un appalto per la costruzione di “una grande quantità di piccole centrali idriche disseminate nell’intero paese”, secondo la rivista
International Water Plant and Dam Construction del 19 gennaio scorso. Nel frattempo i cittadini albanesi si ingegnano, aspettando di uscire dall'inverno. Nella speranza che la soluzione della crisi energetica non passi attraverso la devastazione di uno degli ecosistemi più ricchi d'Europa.