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Albania, media e politica
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Data pubblicazione: 16.03.2007 09:19

Television man - M. Lodola
La trasformazione dei media albanesi nel rapporto tra politica e comunicazione. Dalla propaganda di regime durante gli anni del totalitarismo alla odierna tabloidizzazione informativa e mediatizzazione della politica
Pubblicato su Gazeta Shqiptare del 9 marzo 2007 con il titolo Politika dhe media nga skllaveria ne bashkepronesi

Traduzione a cura dell’autore


Durante gli anni del totalitarismo, la politica in Albania guardava ai media in funzione della propaganda, di conseguenza si rapportava ad essi con la fredda logica dell’utente. Nella cucina dove si preparava la propaganda del Partito non c’erano dubbi su come tenere il coltello e da che parte impugnarlo; nemmeno sul ruolo di servi della radio e della Tv di allora c’erano dubbi. La politica aveva inglobato i mezzi di comunicazione di massa fino a tal punto da risultare difficile separare la televisione dall’ufficio stampa del Partito, oppure un articolo giornalistico dal comunicato stampa ufficiale. Radio, giornali, televisione furono trasformati così in canali esclusivi di comunicazione, le cui chiavi andavano ricercate negli uffici alti del Politburo. Lo stesso concetto di manipolazione, risultava estraneo in quel tempo, poiché la comunicazione mediatica veniva veramente manipolata, ma nelle condizioni di un’estrema censura e di un controllo capillare. In realtà la manipolazione presuppone una certa libertà da parte del lettore o dello spettatore, il quale non è consapevole che si sta “rimaneggiando” per determinati fini. Nel totalitarismo i media furono concepiti, usati e percepiti come organi sensoriali del potere guardiano (la radio era la voce, la televisione era l’occhio, il giornale era la mano) che miravano a sovrapporsi ai sensi del pubblico. Le foto ritoccate, i i primi piani delle tribune, le lettere dal popolo sui giornali, oltre a dare diversi segnali politici fornivano anche la sostanza dei rapporti fondamentalmente dipendenti tra politica e media, dove il ruolo del padrone era indubbiamente svolto dalla prima.

La parola indipendenza suona piuttosto ridicola, specialmente se riferita ai media di allora, che nemmeno al plurale si può usare senza causare equivoci. Nello scenario dittatoriale, gli operatori dei media erano considerati semplicemente dei soldati, mentre i media erano mezzi militari, con l’obiettivo di indottrinare le masse. Quest’ultime, ad un certo punto, persero la loro “verginità” iniziale e cominciarono a leggere le immagini televisive, le “dimenticanze” delle telecamere, le foto sui giornali, come decisioni perentorie del Comitato Centrale e del leader stesso. Ovviamente, i rapporti di schiavitù tra politica e media non si possono vedere, oggi come allora, al di fuori del contesto sociale del periodo. La macchina del totalitarismo portava all’eliminazione di qualsiasi elemento che non si sottoponeva alla completa omologazione. Infatti, i media erano parte integrante di quell’organismo, con compiti ben definiti, ma in simbiosi con altri “organi”. La propaganda non veniva fatta solo dal tubo catodico o dagli altoparlanti radiofonici, ma anche da una struttura elefantiaca di partito che arrivava fino alle cellule più periferiche della società.

In sostanza era stato l’arrivo della democrazia, ma anche lo sviluppo delle comunicazioni di massa negli anni Novanta e Duemila, che aveva permesso non solo il prestito ma anche l’utilizzo al plurale della parola “media”. L’epoca del pluralismo politico non poteva non cambiare radicalmente il clima sociale ed i rapporti tra media, politica e pubblico. Nei primi anni postcomunisti, la politica continuò per inerzia ad approcciarsi ai media con una visione meccanicistica, più o meno come prima, ma nel frattempo la fonderia dove quel meccanismo aveva preso forma non esisteva più. Lo spazio pubblico non era più una prerogativa della politica, visto che questa si è gradualmente ritirata (anzi in modo strutturale) dalla società; e per giunta proprio nel momento in cui la gente tentava di vedersi come una comunità di individui, sebbene con forti tendenze centrifughe. La migrazione di massa e caotica della popolazione, la diffusione della Tv e delle antenne satellitari, la moltiplicazione degli organi di stampa, le crisi violente, l’implosione delle strutture sociali tradizionali, la giungla del mercato, l’urbanistica spontanea, inserirono geni nuovi nella società albanese. In tale contesto la politica non poteva parlare più ai propri cittadini con i mezzi di prima. Oltre al sistema politico, era la società stessa in profonda trasformazione. Lo scompiglio generale era l’invito migliore per la politica affinché, nel comunicare con gli albanesi, preferisse innanzi tutto i microfoni e le telecamere. Dall’altra parte, la facilità di comunicare tramite i media era così allettante e semplice da imparare, che l’opzione del rifiuto sembrava inimmaginabile.

Ormai la mediatizzazione della politica in Albania si può considerare un processo chiuso. Il timbro finale è stato messo da alcune caratteristiche della campagna per le amministrative da poco conclusa. Gli slogan concisi, i cieli azzurri come sfondo, le bandiere sventolanti, le convention alla americana, i bambini sorridenti, i fiori multicolore, i palloncini festosi, ma anche la concezione in forma di show della presentazione dei candidati, sono stati gli indicatori più evidenti che tale messinscena era in funzione dei media. I cittadini erano la seconda mano, nel ruolo dei consumatori, così come l’ha chiaramente confermato il carattere pubblicitario dei messaggi della campagna stessa. In questo modo la politica albanese ha definitivamente notificato il ruolo dei media in qualità di intermediari della comunicazione con il pubblico. Che le ricette della politica-spettacolo arrivino dall’Occidente non è un segreto per nessuno, anzi si può dire che i partiti cercano di accaparrarsi i consulenti migliori dell’immagine alla luce del sole, senza nasconderlo, convinti (forse a ragione) che più del “cielo azzurro con alcune nuvole bianche” che si trova ormai dappertutto, è importante la provenienza dei maghi dell’immagine.

Oltre a questo, il velo che divideva la scena (la vita pubblica) dal dietro le quinte (la vita privata) tanto per usare una metafora di Goffman, non solo si è assottigliata sensibilmente, ma è diventata trasparente. Non era mai successo che la vita privata facesse parte così tanto della lotta politica, indipendentemente dai giudizi etici personali del caso ed a prescindere dalle analisi postelettorali sull’influenza di questa o quella foto. Il fatto è che in Albania qualsiasi cosa pubblica si sta spostando gradualmente su una piattaforma mediatica, grazie anche alla forza trainante della tabloidizzazione informativa. Non raramente i politici vengono visti con gli occhi dei fans, come se fossero sul tappeto rosso dell’Oscar, oppure semplicemente dopo una notte avventurosa del tipo “dolce vita”. Va aggiunto che gli stessi politici non è che si siano sottratti dal ruolo di “star”, anzi si sono comportati perfettamente secondo la trama: look, atteggiamento, vestito, battute…; tutto secondo programma, perfino la dovuta trasgressione, che in questi casi fa sempre effetto.

Lo schema della mediatizzazione della politica vuole che ogni atto politico avvenga di fronte alle telecamere. I politici albanesi sono disponibili a viaggiare senza bodyguard piuttosto che senza teleoperatori. Il paradosso arriva a tal punto che l’atto può anche non esistere “politicamente” se i media non lo trasmettono al pubblico. In questa logica si muovono ambedue le parti: politica e pubblico. La politica non vede l’ora di offrire alle “masse” fotogrammi dove si stringono mani e si disperdono sorrisi con politici occidentali, mentre il pubblico, un po’ più freddo che nei primi anni di democrazia, li interpreta secondo i gusti e le congiunture. Le immagini delle folle acclamanti sono le più raccomandate in Tv, mentre il pubblico sgrana gli occhi per carpire alle immagini il significato oracolare. Da questo punto di vista, le ultime elezioni amministrative in Albania sono state esemplari.

Il comportamento complessivamente corretto dei media nella presentazione della campagna elettorale, nel senso albanese dell’affermazione, non può celare il rischio intrinseco della mediatizzazione totale della politica. Questo processo si è verificato da tempo nei paesi occidentali, ma proprio perché tali, essi hanno affrontato diversamente l’interposizione mediatica. In Albania questo processo era quasi inevitabile, per certi versi finanche positivo, dato che i movimenti attuali della popolazione ostacolano la circolazione dell’informazione tramite i canali tradizionali. Nelle condizioni di una mobilità estrema, i nuovi mezzi di comunicazione offrono alla gente la sintesi di essere una comunità, oltre che l’opportunità per interagire in un certo modo. Nessuno può affermare che i media albanesi possiedono la maturità necessaria per svolgere fino in fondo il ruolo conferito dalla “storia”; quindi la loro trasformazione nel corriere esclusivo della politica non va vista con entusiasmo. A maggior ragione questo vale per il corpo sociale albanese, ancora non immunizzato dagli autoritarismi, che possono nascondersi, perché no, anche dietro i panni della modernità. La difesa che la società civile offre ai cittadini occidentali, con la sua funzione da cuscinetto, purtroppo non esiste. Stranamente in Albania parte della cosiddetta società civile ha trovato nei media l’humus adatto per riprodursi, nonché la legittimazione presso il pubblico. L’assurdità arriva a tal punto che la società civile usa le stesse armi mediatiche con un forte carattere pubblicitario e spettacolare.

Se la mediatizzazione della politica è una via senza ritorno, almeno che si cambi un po’ la traiettoria. Naturalmente, i media non possono essere incolpati della loro metamorfosi da mezzi in attori ed, infine, in habitat; né possono essere accusati della scelta di tale percorso, sebbene essi stessi siano i primi testimoni del fatto che il Paese è pieno di contraddizioni, contrasti, complicazioni, problemi. La situazione si presenta molto complessa e sarebbe una pazzia affidarsi alla semplificazione e alla velocità che il sistema mediatico richiede e comprende in sé. Dall’alto lato la democrazia albanese non può crescere in un “utero” che non rispetta le tappe naturali dell’evoluzione. Nemmeno si può pretendere che si alleni nei ring dei talkshow. Fino a prova contraria, la democrazia non si trapianta meccanicamente, ma prospera gradualmente con e nella cultura della persona e della comunità in cui fa parte. L’interazione tra i cittadini e la politica non deve non può esaurirsi nel circolo mediatico, affinché l’individuo non si comporti di fronte alle urne come se fosse davanti agli scaffali del supermarket. Ciò diventa più impellente nelle condizioni di un vuoto sostanziale nelle zone intermedie della società, laddove lo scambio delle opinioni e dei valori si materializza in primis. Trovare rapidamente altre forme di dialogo tra la politica e i cittadini è oltre tutto un’esigenza della cultura democratica, la quale si impara nella misura in cui si pratica. È vero che la scoperta della dimensione umana si scontra con il personalismo estremo che prende forma in Tv e sui giornali, ma questo porterà un altro respiro allo spazio pubblico. Altrimenti le contraddizioni saranno molto più grandi di quella che si consuma tra i rituali dei palchi multicolori sugli schermi senza energia elettrica.