Di Spiralidosa Vai al blog
Posizionamento
Come è facile mettere le persone le une contro le altre. Come è facile fare serrare le file. Basta un tribunale internazionale che sotto la bandiera della giustizia legga per due ore una sentenza ed ecco che la retorica del nemico parte. Sicura, inarrestabile in crescendo.
Nevina (innocente); pod efektivom kontrolom (sotto il controllo effettivo),
Nije sprijecila genocid (non ha impedito il genocidio); genocid u Srebrenici (il genocidio di Srebrenica)
Ed eccole le armate dei politici che nuovamente affilano le parole lungo l'esperienza del dolore: Srebrenica, Omarska, Sarajevo, .. o l'identità collettiva: il popolo Serbo diventa il soggetto. Mentre lo stato serbo, la realtà dello stato serbo degli anni delle guerre bosniache o ex-yugoslave (a seconda delle retoriche: guerra civile vs aggressione), diventa una realtà labile, una responsabilità personale di alcuni, di quelli: ONI.
Una parte grida all'ingiustizia ed al disonore, l'altra tira un sospiro di sollievo e solleva il capo con onore.
Evviva ecco che un'istituzione consumata come UN, rischia con il suo verdetto, di iscrivere anche noi come parti in un giudizio a cui, da opposizione civile, non ci è mai stato permesso di partecipare, da cui, come alternativa civile, siamo state espulse ed ignorate sistematicamente ogni volta che abbiamo tentato di prevenire, fermare, limitare ed ora risanare.
La trappola di chi sente la causa serba, è quella di divenire campione della sentenza, cercando di spiegare perchè è giusta. La trappola di chi si sente bosniaco è quella di rinnegare questa sentenza, di accusarla di ingiustizia in quanto campione dei morti.
Che terribile violenza questa, rischiare di essere ammassate anche noi: attiviste e resistenti di tutte le età e luoghi in questo gioco delle parti. Come un pubblico convocato dentro il format di un talk show.
Tabù
Decisioni come quelle della corte internazionale di giustizia hanno l'effetto di una bomba che una volta esplosa estende intorno a se un largo inattraversabile cerchio di silenzio. E' il tabù della morte, il suo stare fra il prima della bomba ed il suo dopo.
Il rumore, che segue, invece è quello dei politici. Inflessibile ed organizzato, sofisticato e populista inteso a coprire il silenzio di riflessione di molte migliaia di persone che stanno facendo i conti con questa sentenza. La scrutano nel fondo delle proprie vite, la guardano negli occhi dei propri amici: quelli tristi come noi o felici come loro. Il rumore serve ad incitare ancora più rumore, a far credere che oltre la sentenza non via sia nulla, che essa vada discussa, combattuta o sostenuta. Il nostro silenzio diventa tabù e come tale deve essere rotto.
In una società umana un tabù è una forte proibizione (o interdizione), relativa ad una certa area di comportamenti e consuetudini, dichiarata "sacra e proibita". Infrangere un tabù è solitamente considerata cosa ripugnante e degna di biasimo da parte della comunità. (Wikipedia)
Ed è proprio per questo, che è necessario, rompere il tabù, dire ad alta voce cosa di questa decisione ferisce o cosa di questa decisione solleva. Quindi proseguire e attraversare il cerchio di questo silenzio assordante. Parlare
all'altr@ eccellente coscritta in questo verdetto internazionale e come noi assediata dal tabù della propria comunità.
La mattina del verdetto per me era solo un lunedì, avevo spostato tutto al giorno dopo, è stato un mio collega a ricordarmelo ad impormene l'evidenza. L'effetto è stato e sarà di puro dolore. Ho dovuto fermarmi, interrompere, prendere fiato e poi ascoltare, leggere, ascoltare, parlare, straparlare, e nuovamente restare in silenzio.
La ferita non arriva dal giudizio che è ne più ne meno che “cronaca di una morte annunciata”. La ferita vera, quella sorprendente per la sua normalità è scoprire che io e il mio collega non sentiamo allo stesso modo. Che nostro malgrado siamo separati da una linea sottile che sono le nostre vite costruite lungo le linee vaghe ma comunque esistenti delle nostre comunità siano esse di appartenenza linguistica, affettiva, familiare.
Quindi la ferita per me non arriva dal giudizio, o meglio c'è anche quella, ma essa fa parte di quelle ferite che le istituzioni internazionali, immaginate garanti di qualcosa, danno ai cittadini. La vera ferita, arriva da quello che questo giudizio genera: una logica simmetrica, un vortice che fa della riparazione del danno o della sua mancata riparazione il centro del dibattito.
Riconciliazione
E in questa gara lo scontro fra il simbolico essere cittadino di un paese, la Serbia e le morti di un non-paese come la BosniaHerzegovina esplodono e noi ci posizioniamo. Civilmente ma inevitabilmente. Io sono qui dal lato delle morti, dal lato di questa storia, lui è dall'altro lato, cittadino a rischio di marchio d'infamia.
Questo mio dolore e questo suo sollievo mi hanno ammutolita e mi hanno fatto sentire il rischio ed identificare la trappola. Questo non è né il mio, né il suo giudizio. Più ci penso e più mi pare che Bosnia vs Serbia sia come come il finale di una vecchia partita di calcio, quando dopo i supplementari ed i rigori si decide lanciando in aria una monetina.
Ma dopo la monetina, quando le squadre tornano negli spogliatoi e ognuno prende il compenso dovutogli per avere partecipato alla gara, il pubblico sugli spalti rivive la partita, cerca questa o quella azione ed alla fine esasperata o esaltata rivede il volo della moneta fino al momento in cui, per sempre, cade a terra.
Bene, non voglio stare su quegli spalti, non voglio essere pubblico di questa partita. Non voglio essere costretta a guardare in eterno la moviola dell'ultimo volo, non voglio stare a discutere ore, giorni, mesi di come quel volo avrebbe dovuto/potuto essere. E so che non lo vuole neanche il mio amico. Ci siamo parlati, siamo andati a fondo. Abbiamo ammessa la nostra differenza, l'abbiamo riconosciuta. E' là ci sarà ci deve essere fino a quando si dissolverà per nostra abilità o per incuria.
Il mio tabù è rotto e adesso posso dire che quel verdetto non mi/ci riguarda. Quel verdetto appartiene ad un modo di descrivere il mondo, di decidere del mondo e delle persone che non ci appartiene. Quel giudizio fa parte del mondo delle riparazioni, della compensazione del danno. Per me che sono una persona comune , che vive una vita comune, questo serve a poco, se non a farmi gregge. Ho bisogno di molto di più, ed ho bisogno di uscire da questa logica binaria che i politici locali e internazionali gestiscono così bene.
Ho bisogno di uscire da questo cerchio e tentare di ri-conciliare le mie idee con quelle del mio collega, partendo non da chi ha ragione, ma da noi. Dal fatto che vogliamo essere amici e non vogliamo essere nemici. Dal fatto che ognuno di noi è consapevole del proprio grumo identitario e non vuole fare di questo una questione importante. Ri-conciliare dunque l'idea di noi con quella dell'altr@. Uscire dalla spirale di chi ha ragione e proporre un nuovo paradigma. Niente ecumenismo, niente pacifismo di maniera, niente buonismo ma una dichiarazione di intenti: una pratica di politica civile.
Basta con le logiche della riparazione imposte da una società che ha bisogno di fare credere di essere capace di amministrare giustizia, che chiede continuamente di farci parti in causa, per schierarci poi l'una di fronte all'altra, l'una contro l'altra. Le guerre uccidono, distruggono e dividono. Nessun tribunale può fare tornare il tempo a prima della morte, della distruzione.
Il potere riparatore non sta in un verdetto dato da un giudice ... che immagina se stesso super partes. La riparazione non sta nel verdetto, ma nel riconoscimento del danno, nella denuncia del danno. L'unico tribunale che ad oggi abbia in qualche misura saputo dare giustizia è quello della Commissione per la Verità e la Riconciliazione del Sud Africa. Un tribunale dove la testimonianza, l'autodenuncia divengono riconoscimento simbolico e giuridico di quanto accaduto fino a prevedere l'amnistia fra i suoi strumenti. Un tribunale la cui finalità è la verità, la riconciliazione delle persone, non un giudizio tirato seguendo le regole astratte del diritto.
Un tribunale così, un percorso finalizzato alla riconciliazione delle persone e non alla riparazione del danno forse non avverrà mai nei balcani, luogo strozzato da un'occidentalizzazione feroce e sofisticata.
Indipendentemente da ciò questo è il mio/nostro ponte. Quello che mi/ci permetterà di parlare. Senza rancore.