Un film, tratto dal romanzo omonimo di Antonia Arslan, che segna il ritorno dietro la macchina da presa della coppia di registi più celebre del cinema italiano. E’ da pochi giorni nelle sale italiane dopo essere stato presentato fuori concorso, nella sezione Berlinale Special, al 57° Festival di Berlino
La causa è nobile ma il risultato artistico molto meno. Capita spesso, con i prodotti del cinema, del teatro, della letteratura, dell’arte o della musica. A volte anche nel caso di artisti di grande spessore, con un curriculum impressionante, dal provato impegno politico e sociale che, alla prova dei fatti, presentano opere modeste e poco efficaci.
E il critico si ritrova “anima divisa in due” a dover scegliere a quale metà del cuore dare retta. Stavolta prevale il lato Billy Wilder (“se vuoi mandare un messaggio manda un telegramma”) e tocca non essere soddisfatti – sia pure con riserva – de “La masseria delle allodole” di Paolo e Vittorio Taviani.
Un film, tratto dal romanzo omonimo di Antonia Arslan, che segna il ritorno dietro la macchina da presa della coppia di registi più celebre del cinema italiano. E’ da pochi giorni nelle sale italiane dopo essere stato presentato fuori concorso, nella sezione Berlinale Special, al 57° Festival di Berlino.
Anticipata da polemiche e preoccupazioni alimentate ad arte su eventuali reazioni della consistente comunità turca berlinese, l’opera è abbastanza deludente.
Siamo nel 1915, in piena guerra mondiale l’Impero Ottomano è in disfacimento e il movimento dei Giovani turchi sta iniziando la costruzione di una nuova Turchia: laica e più moderna, ma anche nazionalista ed etnicamente pura, al prezzo anche di centinaia di migliaia di persone. Sarà il massacro degli armeni, un’operazione che i nazisti prenderanno come esempio un ventennio più tardi.
Avvenimenti mai riconosciuti dal governo turco e ancor oggi fonte di polemiche e contrapposizioni. Così la proiezione in Germania, dove vivono milioni di persone originarie dell’Anatolia, era molto attesa.
Il film ha lasciato fredda la stampa, piuttosto debole e accusato di essere troppo televisivo. Ma ha stimolato il dibattito, anche perché a parte Atom Egoyan (con il bellissimo “Ararat” con Charles Aznavour), pochi altri avevano portato sullo schermo la vicenda.
“La masseria delle allodole” racconta le vicende della famiglia armena Avakian e della casa appena ristrutturata in onore dell’arrivo di un parente dall’Italia. Calda e accogliente, la masseria non verrà mai abitata, ma sporcata dal sangue degli uomini della famiglia uccisi dai Giovani turchi. Le donne saranno deportate ad Aleppo al termine di un viaggio lungo e disumano.
I Taviani mettono insieme una compagnia d’attori variamente assortita. Accanto ai bellissimi Alessandro Preziosi e Paz Vega (la spagnola è poco convincente), ci sono Arsinée Khanjian (moglie di Egoyan e nipote di sopravvissuti al massacro: “Fa parte della mia identità culturale, è il modo attraverso il quale guardo il mondo” ne descrive l’eredità), Tcheky Karyo, André Dussolier, Angela Molina e Moritz Bleibtreu.
Le piccole parti sono poco curate, così come il doppiaggio. Il risultato è un insieme diseguale. In più l’avvio della vicenda è laborioso e la trama segue troppi personaggi, così che lo spettatore non riesce ad affezionarsi davvero a nessuno e dal punto di vista emozionale il film funziona poco.
Anche sotto il profilo visivo il film ha trovate belle, soprattutto di dettagli e piccoli gesti oppure di scene di massa (i trasferimenti in mezzo alle montagne). Ma sembrano piccoli tocchi persi in un insieme confuso, in uno stile che vorrebbe essere semplice per arrivare a tanti spettatori senza considerare che ormai un pubblico molto largo va catturato con altri sistemi.
Il pregio maggiore del lavoro è riuscire a mettere bene in luce che i cattivi e i buoni non stanno mai da una parte sola. Magari non ce la fanno a salvare delle vite umane, ma alcuni turchi si impegnano sinceramente dalla parte delle vittime.