Mate
18.04.2007
Omarska, una delle pagine più drammatiche della guerra nell'ex Jugoslavia. Un campo di concentramento, di nuovo, nel cuore dell'Europa. Un racconto di Fabio Molon, autore della raccolta ''Nema Problema, racconti dai Balcani'' EGA edizioni
Di Fabio Molon
È strano poter stare qualche giorno o settimana ancora in pantaloni, camicia e giacchetta, fuori, uno fra i tanti che passeggiano sulle terrazze della fortezza di Petrovaradin. Fino a qualche mese fa non avrei nemmeno osato, fratello mio, immaginare una cosa simile.
La lettera che ti sto scrivendo te la farò spedire dopo che il tumore avrà finito di mangiarsi quel che resta del mio pancreas. Ti arriverà a Milano tra un mese, un mese e mezzo, credo.
Guarda, la lettera non vuole essere nulla più di un affettuoso saluto a te e alla tua famiglia (che non conosco, ma sento ugualmente un po’ mia) e, anche se forse è presuntuoso per un “vecchio pazzo” come me, una specie di testamento che lascio a chi (pur scordando) non ha ancora del tutto dimenticato di avere qualcuno, rinchiuso da qualche parte, che attende solo una morte pietosa che lo strappi alla pazzia.
Non sono sicuro che, quando avrai finito di leggere questa lettera-testamento, accetterai l’idea che qualche dottore abbia pensato che non ero poi così matto e che quanto avrò scritto sia opera di una persona normale, ma è lo stesso. Credo proprio di essere normale almeno quanto tanti altri davanti ai quali, quando li incontri per strada, ti togli il cappello.
Quello che accludo a questa lettera è il testamento di Mate G., tuo fratello e fratello di tanti che potrebbero averlo scritto se solo ci fosse un po’ di carta nei nostri manicomi e non solo muri a cui affidare le proprie volontà, i propri pensieri.
“Gornja Toponica, novembre 1999. Forse.
Jozo continua a trascinarsi lungo il muro del corridoio, trentenne pigiama a righe che sorride, occhi azzurri e zolle di capelli corti già bianchi, mani dietro la nuca. Non parla mai, Jozo, ma sorride come sorrideva al kalashnikov che lo accompagnava dietro il reticolato di Omarska. Conta, una volta ancora, le piaghe del muro e le macchie per arrivare a Irena, la sua donna disegnata col cucchiaio, per regalarle il suo bacio quotidiano, per confermarle il suo eterno amore. Il suo sorriso è smarrito. Oggi non la trova. Forse un altro pezzo di intonaco è caduto.
Vlado e Ilir sono vicini. Vicini di spazio, vicini di numero, vicini di pazzia sicuramente se, come serbo l’uno e albanese l’altro, non sono stati ancora capaci di strangolarsi.
Quanti anni sono passati per loro e quanti per Goran, il Rom steso e legato che crea poesie con parole senza forma, con suoni e singhiozzi che fino a ieri erano ancora preghiera a volte e a volte bestemmia. Sono suoni quasi muti oramai, ma affamati, assetati, nudi, disperati e isterici a tratti che si alzano per qualche centimetro sul suo viso per ricadere poi sul lurido pavimento, rosicchiati presto dai piccoli e magri topi di Gornja.
I più audaci cercano, a volte, di liberarlo dai legacci che gli bloccano mani e piedi o forse solo non vogliono bagnarsi nell’urina che gli scorre tra le cosce. Squittiscono, osservano (piccoli occhi neri pazienti) e aspettano fino a quando il mocassino sfondato di Mišo (che ironia) li colpisce e li allontana momentaneamente indignati.
A lui rimane ancora la ciabatta marrone per cacciare la strega (prigioniera anch’essa dell’incomprensibile prigione) che vaga di stanzone in stanzone alla ricerca di chi si sta per arrendere, per conquistare la sua testa e divorare il suo cervello con poche, brevi, intensissime scosse elettriche.
Lazar ha un nome importante, degno di re, degno di martiri ed eroi, ma più importante ancora è la sua ombra che vigila su di lui. Lo accompagna ovunque, anche alla latrina muta e testimone del paziente, eterno lavoro di mosche antiche che succhiano e assimilano i sospiri e gli umori dei tanti (troppi) che appoggiano piedi nudi e natiche bianche su ceramiche ingiallite, consumate più dai sentimenti, ricordi e sogni che dalle deboli deiezioni frutto di pasti frugali.
Io sono tra loro, fratelli aldilà del muro, come Nabucodonosor nei suoi sette anni di superba pazzia. Vivo tempi e spazi non miei, un Purgatorio da cui uscire è troppo difficile perché se ci arrivi, in genere, poi ci muori. Scivolo nel gelo di una morte apparente e riascolto eternamente il vento che tra le sbarre e i vetri rotti delle finestre, accarezzando i pavimenti, facendo rabbrividire le piante dei miei piedi, sussurra loro e a me voglie e ricordi.
È allora che approfitto e gli affido il mio, nostro testamento e la mia Anima affinché, uscendo, li porti oltre il muro, aldilà del fiume e patteggi coi corvi il costo per essere i miei, i nostri messaggeri. I corvi, fratelli miei, portano nel becco le nostre Anime, nel cielo azzurro o in quello innevato, ma non il nostro dolore non gridato: quello è nostro e lo teniamo con noi, nel nostro Getsemani.
Ogni tanto una foglia cade nel fiume, quando i corvi si alzano in volo dalle betulle delle rive.
È, quella foglia, l’Anima di un eletto che affida alle acque e alle correnti la leggerezza di chi ha già pagato, fin troppo, una sua colpa o, spesso, una colpa altrui”.
Ecco, fratello caro, il testamento di Mate. Mate di Putinci, il maestro di scuola che in Vojvodina ha visto il sole sorgere e lo vedrà calare. Iddio mi ha toccato con il Suo sorriso e sono qui ora, sui bastioni della fortezza austro-ungarica e guardo Novi Sad, guardo il Fiume.
Non posso sapere quanto tempo avrò ancora ma, ako Bog da*, voglio vedere ancora due ragazzi innamorati camminare davanti a me; voglio vedere un sorriso allo specchio e voglio che siano gli occhi di un’altra persona lo specchio in cui lo vedo, occhi vivi che guardano me e non, trafiggendomi, il muro dietro le mie spalle; voglio vedere ancora mia madre e mio padre in due anziani seduti su una di queste panchine.
Non voglio scordare, ancora una volta, il bene che è dentro me. Chiedo troppo?
Addio, fratello mio. Abbi cura di te e dei tuoi cari.
Mato
Bolzano, 2 febbraio 2006
*se Dio vuole o a Dio piacendo