Alcune impressioni sulla Sarajevo del 2002. I forti contrasti tra la depressione post bellica e le urla di gioia per Danis Tanovic vincitore dell'oscar, immagini di una città che cerca di guardare avanti.
Danis Tanovic - foto L. Zanoni
Sono a Sarajevo. Mi guardo attorno. Ciò che più colpisce sono gli innumerevoli cimiteri che accompagnano lo sguardo. In ogni parte della città c’è una tomba, una rimembranza, che è lì pronta a far segno e ricordo di ciò che fu. Non si cancellano queste tracce con un semplice restauro di facciata. A distanza di dieci anni dall’inizio di una immane tragedia, il cuore infranto della Bosnia ancora non si è ripreso. Le ferite sono profonde e le sensazioni ancora troppo vive. Certo, in città non ci sono solo macerie e simboli dell’assedio. Come alcuni in questi giorni hanno scritto, Sarajevo è cambiata. Anche qui la generazione di MTV ha fatto il suo ingresso, i Mc Donalds sono approdati con i loro menù globalizzati. Ma che scoperta! Ci si può forse sottrarre a ciò? La domanda appare quanto mai retorica.
Eppure parlando con la gente, stringendo la mano e abbracciando i sarajevesi si sente tutta la loro tristezza. Posso con tutta sincerità dire che Sarajevo ancora piange. La sensazione che mi è giunta sino all’anima ha il sapore amaro della tristezza e spesso della rassegnazione. Parlando con un taxista, un cittadino come molti altri, mi sento invadere da questo sconforto. Eppure, gli dico, qui si dice sempre: bice bolje (migliorerà). Già, ma il suo disincanto gli suggerisce: “è l’unica cosa che ci è rimasta”.
Non voglio sembrare oltremodo pessimista, né tanto meno contrariare chi vede il miglioramento, ma queste sono le nude sensazioni che ho incontrato nella Sarajevo del 2002. Tutto ciò mi riporta alla mente la situazione pressoché simile di un’altra città lacerata: Mostar. Un altro simbolo della cosiddetta convivenza multietnica, ma che con enorme fatica cerca di riprendersi dalle atrocità degli anni passati. Queste sono città malate, città tristi dove il senso di depressione ancora esiste e resiste. Me lo ha confermato anche Senad Pecanin, già direttore della rivista Dani, e le sue parole mi sono entrate nel cuore come una lancia acuminata. Vedi, mi dice, Sarajevo è ricordata per la guerra, non c’è altra associazione mentale riferita a questa città. L’atmosfera che si respira qui è ancora depressiva.
Tuttavia, il contesto in cui ho avuto questo breve scambio di opinioni mi è sembrato aprire uno spiraglio di speranza. Mi sono trovato, grazie a Mario Boccia, ad una festa in onore del regista Danis Tanovic. Con lo sguardo ho incontrato molti sorrisi e la ben nota semplicità balcanica. Semplicità dimostrata anche dallo stesso regista nel momento in cui ha ricevuto dalle mani di un bambino un disegno stilizzato che lo raffigurava nell’atto di ricevere l’Oscar. Il premio per il miglior film straniero, che questo giovane regista ha dedicato alla sua gente e alla Bosnia intera è stato uno dei momenti più significativi per questo paese. Sarajevo è tappezzata di manifesti e striscioni con scritto “Bravo Danise”. Già sabato 6 aprile, Danis Tanovic era comparso in piazza e alzando la statuetta al cielo aveva urlato “questo è per la Bosnia, questo è per voi” la folla ha esultato e gridato “Danise, Danise” e poi “Bosna, Bosna”. Tanovic è riuscito a dare alla sua gente una viva speranza, un motivo di orgoglio e di gaiezza. Che Sarajevo, allora, sia ricordata non solo per le atrocità del passato, ma anche e soprattutto per le persone di talento che la rappresentano.
Vedi anche:
Una confessione di (pre)guerra