Per l'Europa, il ventesimo secolo è nato proprio qui. E sempre in questa città il ventesimo secolo si è concluso con la nostra offerta alla Bosnia Erzegovina di una prospettiva di integrazione nell'UE, di cui l'appello di oggi è il simbolo più elevato
Romano Prodi a Sarajevo
Pubblichiamo l'intero discorso che il presidente della Commissione Europea Romano Prodi ha tenuto il 6 aprile a Sarajevo. Un momento particolarmente significativo che ha segnato l'apice di quattro giorni di forte mobilitazione dal basso, a dieci anni dall'inizio della guerra a Sarajevo e in Bosnia Erzegovina
Sarajevo - 6 aprile 2002
Signori Sindaci di Sarajevo e di Venezia
Rappresentanti di ONG
Organizzatori di questo straordinario appello sull'Europa oltre i confini
Autorità tutte
Il 6 aprile del 2002 è una ricorrenza simbolica per la Bosnia Erzegovina e per tutta l'Europa. Sono passati dieci anni dall'inizio dell'assedio di Sarajevo. 43 mesi di assedio sono costati 10.000 morti e 50.000 feriti. Si è trattato di un periodo traumatico per noi tutti, e mentre in una parte dell'Europa si prendevano decisioni storiche per consolidare ed estendere il processo di integrazione, in un'altra parte il rumore delle armi e delle bombe copriva le voci di dialogo e di cooperazione.
La guerra è venuta in un momento in cui in seguito al successo dell'integrazione europea, l'Europa stessa era convinta che un conflitto armato nel continente sarebbe stato impensabile. In quei mesi atroci, l'importanza di un progetto europeo e il bisogno di un'Europa più grande e più forte ci sono risultati più chiari che mai. Le guerre dei Balcani hanno costretto milioni di persone ad abbandonare la propria casa in condizioni disumane. Le nazioni nate da quella fase storica, prima fra tutte la Bosnia Erzegovina, hanno il dovere di riparare a quest'ingiustizia se vogliono aspirare alla stabilità e allo sviluppo politico e ad un'economia sostenibile e a lungo termine.
Da allora, tutta la regione è passata dalla guerra alla pace, e dal conflitto alla normalità. E come gli altri paesi balcanici, oggi la Bosnia Erzegovina è molto diversa rispetto a dieci anni fa quando in questa città si è accesa la miccia della guerra. Questo paese ha compiuto la transizione da un sistema politico autocratico a una democrazia in crescita, da un'economia centralizzata ad un'economia di mercato in fase di sviluppo. Tutti i paesi della regione si sono dovuti ridefinire come stati indipendenti, per molti si è trattato della prima occasione di indipendenza nella loro storia, e tutti hanno dovuto cercare un proprio posto nella famiglia degli Stati e dei Popoli europei. Insieme hanno iniziato a scrivere un capitolo nuovo della nostra storia comune.
Sappiamo tutti, e ringrazio coloro che prima di me lo hanno sottolineato con vigore, che la storia europea è legata a doppio filo alla storia di questa regione. Non c'è Europa senza la presenza di questi paesi. Per l'Europa, il ventesimo secolo è nato proprio qui, il 28 giugno del 1914, con l'assassinio dell'erede al trono d'Austria. E sempre in questa città il ventesimo secolo si è concluso con la nostra offerta alla Bosnia Erzegovina, e a tutta la regione, di una chiara prospettiva di integrazione nell'Unione Europea, di cui l'appello di oggi è il simbolo più elevato. Si può dire che la Bosnia Erzegovina rappresenti in scala tutta l'Europa, un paese che in dieci anni ha ricapitolato un secolo di storia europea.
Ma la storia avanza senza sosta, e noi dobbiamo cambiare con essa il nostro modo stesso di pensare. Dopo la guerra, il progresso più autentico avviene nella mente e si manifesta nei comportamenti. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il piano Marshall e l'assistenza internazionale non avrebbero avuto successo se gli europei non avessero cambiato radicalmente la loro mentalità. I paesi europei hanno dovuto mostrare tutta la loro risoluzione per superare le divisioni del passato e realizzare una piena cooperazione nell'interesse comune.
La situazione post-bellica nei Balcani favorisce il diffondersi di un nuovo pensiero politico fra la gente. A volte, tuttavia, è più difficile portare avanti questo processo, che ricostruire gli edifici distrutti. E la ricostruzione, di questo processo, non è ancora completa. Ma dobbiamo ricordare tutti che questo nuovo atteggiamento è essenziale per preservare la pace. La normalizzazione e la stabilità dipendono soprattutto dal ritorno dei profughi. Tale nuova prospettiva deve prendere il posto dello scontro, del nazionalismo e dell'estremismo. E su questo punto io devo essere categorico: non c'è posto in un'Europa unita per queste idee e per chi le propone.
L'integrazione europea ha in sé la propria grandezza, perché ci ha permesso di lasciare alle spalle un'identificazione collettiva rigidamente fondata sui concetti di nazionalità e di stato. Oggi, siamo tutti cittadini del nostro stato, e siamo anche cittadini dell'Unione. Non è più un problema far parte della minoranza di uno stato che riconosce all'individuo diritti personali e non diritti derivanti dalla sua appartenenza etnica, religiosa o linguistica. In uno stato che riconosce i diritti dei gruppi e delle organizzazioni della società civile. E nell'era della globalizzazione l'Europa è la migliore salvaguardia della diversità nazionale, regionale e culturale. Dopotutto, l'Europa è fatta proprio di diversità, non è fatta di uniformità. Non abbiamo nessuna idea, nessun desiderio, di costruire l'Europa a similitudine di altre grandi democrazie, cominciando dal melting pot americano. Noi siamo orgogliosi di conservare la nostra diversità, io sono orgoglioso quando mentre in commissione si opera con le lingue di lavoro, quando entro in Parlamento, io parlo italiano e ognuno parla la propria lingua. Questa è l'Europa. E non c'è nessun desiderio di omogeneizzazione e di assimilazione, la nostra è una storia di diversità. Ma dobbiamo finire con la parte conflittuale di queste diversità. E la nuova diversità è una diversità per la collaborazione.
E' stata ricordata prima- e mi ha fatto piacere - la mia definizione di Europa, che è l'unica definizione che ci può guidare verso il futuro. L'Unione Europea è un'unione di minoranze. L'integrazione europea è un processo che si sviluppa di comune accordo, un processo in cui stati e popoli si sforzano di comprendere il punto di vista dell'altro, invece che imporre il proprio. Noi abbiamo fatto, fortunatamente, molta strada dai tempi della prevaricazione bilaterale, in cui gli stati di grande forza imponevano le loro decisioni politiche agli stati deboli.
L'Unione Europea si fonda sul dialogo, sulla cooperazione e sul rispetto reciproco. Dialogo, cooperazione e rispetto sono essenziali anche per il futuro di tutti i singoli paesi e soprattutto per il futuro del paese di cui oggi siamo ospiti. Nulla impedisce alle diverse comunità della Bosnia Erzegovina di collaborare nell'interesse comune e per un futuro prospero. Così come è riuscito nell'Unione a molti popoli e comunità, che erano fra di loro ferocemente nemici. Il dialogo e la cooperazione sono necessarie sia in Europa che a Sarajevo, che deve essere un esempio di città multietnica, capitale europea di uno stato europeo.
La cooperazione regionale è un'ulteriore chiave di volta di una pace stabile e duratura. L'Ex Jugoslavia è definitivamente sparita, relegata ai libri di storia. Tutti i paesi della regione si sono trasformati e sono retti ora da governi democratici e riformatori. Tuttavia, noi dobbiamo sfruttare i legami naturali fra i popoli balcanici, quelli linguistici e di geografia, per rafforzare le riforme politiche ed economiche interne. Ciascun paese è responsabile del proprio destino. Ma è nostro interesse comune favorire l'integrazione di tutti i paesi di questa regione. I Balcani devono tornare solo un luogo di integrazione e di cooperazione, non di frammentazione e di scontro. Non possiamo limitarci alle strategie bilaterali pensate in funzione dei singoli paesi. Queste strategie sono forse necessarie, ma ad esse deve far complemento una strategia globale di carattere regionale.
E' chiaro che per raggiungere questo obbiettivo ci vorrà tempo e occorrono tenacia e pazienza. E' altrettanto chiaro che le condizioni poste per l'adesione e l'integrazione nell'Europa allargata, sono strumenti vitali per riportare pace duratura e sicurezza alla regione. Un'integrazione più stretta implica anche obblighi, e i paesi devono dimostrare di condividere i valori essenziali dell'Unione. Ma mi fa piacere, è una constatazione che stamattina mi ha allargato il cuore, vedere come a distanza di un tempo non troppo lungo ormai non vi è altra prospettiva politica che l'adesione all'Europa da parte di questa regione e da parte dei paesi confinanti.
Io credo di essere stato forse il primo a dire, parlando di quasi membership, cioè di quasi appartenenza, che l'unico destino politico dei Balcani era nell'Unione Europea. Oggi, mi fa piacere che coincida quasi casualmente con il vostro messaggio, possiamo dire con concretezza, perché nell'anno magico per l'Europa, nell'anno 2002 che è l'Europa dell'Euro, l'Europa della Convenzione, ma anche l'Europa dell'allargamento, noi con molta probabilità, se non accadranno nuovi eventi tragici, in dicembre allargheremo l'Europa ad altri nuovi paesi. Avendo dimostrato, non senza difficoltà e non senza opposizione, che questo allargamento si può fare, che si può fare in pace, si può fare con un'adesione da parte di tutti, ora possiamo cominciare a fare un discorso che riguarda anche quest'area.
E non è più il discorso di un'intuizione politica, ma di costruzione reale di questo allargamento. Certo che le difficoltà sono più grandi, i problemi sono più forti. La guerra ha lasciato qui delle tracce che ancora noi vediamo. Ma, vedete, c'è una profonda differenza nell'attitudine di chi è qui a nome dell'Europa, a nome di tutti i paesi che compongono questa Unione, da chi ha portato sollievo a queste zone, ha portato aiuto, ha portato anche un decisivo ausilio economico in momenti drammatici, ma che non può offrire una soluzione politica di lungo periodo in parità, come noi possiamo offrire. Cioè, il dialogo che ho potuto avere con le autorità bosniache stamattina e che voglio avere con voi direttamente, è un dialogo completamente diverso. Noi dobbiamo costruire assieme un destino comune, in un'Europa in cui nel Consiglio Europeo il voto della Bosnia Erzegovina avrà lo stesso significato e lo stesso peso del voto dell'Italia e del voto della Germania, la stessa dignità, lo stesso ruolo. Vedete che si tratta di qualcosa di grandioso? Per cui, mi auguro anch'io che nel 2007 si possa arrivare…Ma non lo so! Non voglio dare per certo questo, ma so qual è ormai precisamente il nostro destino. E so che non ci sono più problemi in nessuno dei paesi dell'area. Ecco la grandezza, e anche la difficoltà di questo messaggio.
Chiaro che, ripeto, non è facile portare nel momento della decisione politica un voto sull'allargamento, che in questa fase riguarda un aumento della popolazione del 30% ed un aumento del reddito dell'8%. Dando, con questa piccola informazione, il segnale della difficoltà e della paura che questo esercita. Ecco, allora, proprio per evitare la paura vostra e nostra, che dobbiamo marciare insieme nella stessa direzione. Capire che ci possono essere problemi e difficoltà, ma che c'è la percezione di un destino comune. Io credo che la Bosnia Erzegovina abbia rappresentato in questi anni un esempio serio di voler camminare in questa direzione.
L'accordo di pace di Dayton, con tutte le sue imperfezioni, ha dato un'occasione di ricostruzione e di riconciliazione. Ha garantito segnali di pace e, io credo, che se implementato con l'Unione potrà garantire la pace, potrà chiudere un capitolo di storia che è durato secoli di tragedie, di tensione, di difficoltà. Il recente accordo di riforme delle due entità della Bosnia Erzegovina, che garantisce uguali diritti a tutti i gruppi etnici del paese, dimostra che l'accordo di Dayton è un accordo dinamico, non è un accordo statico, e che se noi non lo interpretiamo in modo dinamico non lo abbiamo capito. E quindi, io credo che anche per il futuro sia un'indicazione che un buon compromesso è sempre possibile. Noi sappiamo che per il futuro della Bosnia Erzegovina e degli altri paesi dei Balcani, c'è bisogno di molti buoni compromessi.
L'Anfiteatro del Parlamento Federale a Sarajevo gremito
Ecco, però, come dicevo prima, ormai siamo entrati nella fase Europea di questo paese. In questo contesto non è nell'interesse della Bosnia Erzegovina creare nuove frontiere all'interno del suo paese. Né è nell'interesse dei Balcani e dell'Europa consentire che avanzino processi di frammentazione. Ulteriori modifiche dei confini non farebbero che innescare una nuova fase di frammentazione e di disintegrazione. I Balcani resterebbero instabili, si fermerebbe lo sviluppo della regione che resterebbe in balia di nuove mafie e di nuovi signori della guerra. Noi non possiamo permettere di creare altre barriere e dobbiamo sostenere un dialogo che scavalchi i confini, e che si basa sulla cooperazione e sulla comunicazione.
Il processo di integrazione della Bosnia Erzegovina e di tutta la regione dei Balcani nelle strutture politiche europee favorisce il processo di pace. Perché il progetto europeo è un obiettivo strategico, sostenuto da tutti i gruppi etnici e da tutte le componenti politiche. L'integrazione nell'Unione della Bosnia Erzegovina, e della sua comunità bosniaco-musulmana, sarebbe anche un fattore di arricchimento culturale per l'Unione stessa, che a torto alcuni considerano una società esclusivamente cristiana.
Tuttavia, questi processi non possono andare avanti senza un impegno e un'assunzione di responsabilità che provengono dall'interno del paese. L'integrazione nel progetto Europeo non significa lasciare all'Europa la soluzione dei problemi e la rimozione degli ostacoli. Questo compito dipende dalla buona volontà, dall'apertura e dall'intelligenza delle comunità e delle popolazioni locali. Il futuro della Bosnia Erzegovina è infatti in mano ai popoli di questa terra.
Grazie
Vedi anche:
L'intervento di Mauro Cereghini, Osservatorio sui Balcani
L'intervento di Giulio Marcon, ICS
I Balcani in Europa sono un progetto, non un sogno
L'Europa oltre i confini. L'Europa dal basso