Nato a Tirana nel 1974, Ervin Hatibi ha acquisito notorietà in Albania fin dall’adolescenza date le sue precoci doti letterarie, che lo hanno reso uno dei poeti più apprezzati della piccola repubblica balcanica. Personalità eclettica e versatile, Hatibi è anche pittore, scrittore e giornalista. Ex direttore della testata
Drita Islame (“La luce dell’Islam”), collabora con i principali quotidiani e periodici albanesi, fornendo interessanti spunti di riflessione sulla società e sulla politica albanesi. Ma l’Albania identifica in Hatibi soprattutto il simbolo di un credo musulmano professato in maniera aperta e serena, riconoscendovi il volto giovane e popolare dell’Islam albanese. Abbiamo pertanto pensato di rivolgergli qualche domanda sulla comunità musulmana albanese, che vive oggi un’ennesima e difficoltosa fase di transizione.
Parlare di Islam in Albania è sempre materia delicata, se non spinosa. Gli stessi albanesi sembrano evitare l’argomento, manifestando un atteggiamento che può apparire inconsueto, se si pensa che siamo in un paese a maggioranza musulmana – il 70% circa della popolazione.
Bisogna storicizzare il problema, partendo dal “cosa” sia l’Islam per gli albanesi. Nel diffondere la sua religione nei Balcani, l’impero ottomano non praticò una politica di islamizzazione programmata – ben lungi dall’imposizione con la spada. La conversione era piuttosto indotta dalla struttura sociale tipica del sistema ottomano, che privilegiava i sudditi musulmani in termini di prestigio e di vantaggi economici. Bisogna inoltre operare una distinzione fra l’Islam incentrato nelle città, dove l’influsso turco era più profondo, e quello delle aree rurali e montane, tenendo presente che l’Albania non era una regione intensamente urbanizzata. Ecco perché è difficile parlare di un Islam fisso e cristallizzato degli albanesi, così come è difficile definire una sola forma di “albanesità”, religiosità inclusa: la popolazione versava in condizioni diverse e la percezione religiosa variava in base alle zone e agli strati sociali. Non si può parlare di un Islam albanese storico, ma di molti Islam al plurale, e non basta sommarli per dedurne la presunta unità.
Ed è proprio sul volgere della dominazione ottomana, nella seconda metà dell’Ottocento, che molteplici osservatori e analisti stranieri scoprirono le terre albanesi, rilevando una sorta di “indifferenza” religiosa da parte dei loro abitanti. Cosa raccontavano dell’Islam locale?
I resoconti dei viaggiatori stranieri confermano l’eterogeneità dell’Albania coeva, descrivendo realtà diverse, spesso in contraddizione l’una rispetto all’altra. Inoltre, questo paese è spesso stato oggetto di proiezioni personali dei singoli osservatori, tesi a individuarvi determinati aspetti e a soddisfare le aspettative politiche delle rispettive nazioni di appartenenza. Ad esempio, molti di loro si sono concentrati sulle confraternite Sufi, soprattutto sui bektashi, che in Albania rappresentano circa il 15% della popolazione. Si è così creato il mito di una presenza sciita nel paese, sebbene l’identificazione fra bektashi e sciiti sia impropria, senza contare che lo splendido pluralismo religioso che contraddistingue il nostro paese è già abbastanza ricco e sfaccettato, senza la necessità di aggiungere nuovi attori sulla scena! La simpatia suscitata dai bektashi presso i viaggiatori del passato, condivisa da diversi studiosi contemporanei, è dovuta alla loro attitudine al sincretismo, al sottofondo occidentale dei loro orientamenti e del loro stile di vita e al conseguente distacco dalle tradizioni orientali e da altri aspetti “scomodi” dell’Islam.
La moschea Ethem Bey
Insomma, agli occhi dell’Occidente si direbbe che i bektashi siano i “parenti presentabili”, mentre i musulmani sunniti sembrano i “cugini di campagna”, quelli che preferisci non invitare al tuo matrimonio. Resta il fatto che il simbolo architettonico dell’Islam albanese è la moschea di Ethem Bey, fondata nel 1792 dal noto poeta bektashi Ethem Bey e ultimata da suo figlio nel 1821: è la prova che, sincretismo e pratiche occidentalizzanti a parte, i bektashi costruivano anche luoghi di preghiera.
L’Islam ha iniziato a perdere terreno in Albania fin dalla dichiarazione dello Stato indipendente, nel 1913, soffrendo le conseguenze del distacco geopolitico dalla Turchia ottomana. Come si è giunti, nell’arco dei successivi cinquant’anni, alla proclamazione dello “Stato ateo” del 1967?
In un paese caratterizzato da profonde divisioni regionali, linguistiche e religiose, l’Islam non poteva detenere gli strumenti per sopravvivere alla repressione e alla violenza perpetrate dal regime comunista e, ancor prima, alla politica di drastica laicizzazione del paese promossa dal re Zog. Fu proprio al tempo della monarchia, negli anni Trenta, che una minoranza di albanesi, la più legata alla religione musulmana, scelse di seguire l’esempio indicato dal Profeta stesso, quello dell’Egira, vale a dire l’emigrazione. Esistono ancora oggi famiglie albanesi disseminate in Turchia e in Siria, che hanno preferito la condizione di esuli a quella di “limitate” in patria dopo le leggi zoghiste del 1928. Tuttavia, il complesso della religiosità albanese era sfibrato ad opera degli eventi storici: l’accettazione del comunismo va vista in quest’ottica, senza contare il beneplacito estero (Yalta è sempre Yalta) e il fatto che, negli anni Quaranta, l’Albania contava meno di un milione di abitanti, era una realtà assai circoscritta e pertanto facilmente controllabile e indottrinabile.
Oggi, buona parte dei musulmani albanesi tiene ancora le distanze dall’Islam, in patria e all’estero. Viviamo ancora le conseguenze del regime di Enver Hoxha o forse si tratta, come ipotizzano gli analisti, del timore di subire ulteriori discriminazioni, stavolta di stampo religioso, da parte di un mondo occidentale tanto diffidente nei confronti dell’Islam?
L’allontanamento dall’Islam in epoca postcomunista è avvenuto sotto l’irresistibile attrazione per la “terra promessa” occidentale. Il fenomeno riguarda soprattutto il cosiddetto “musulmano sociologico”, vale a dire il non praticante o addirittura “ateo” che di musulmano conserva soltanto il cognome e che, se interrogato sulla sua religiosità, risponde vagamente che la sua famiglia è di origine musulmana. Questo stesso musulmano è già reduce da almeno due o tre generazioni di lavaggio del cervello nazional-comunista, che ha instillato dentro di lui un profondo senso di colpa per avere accettato la “fede dell’invasore orientale” – la stessa sorte toccata agli ortodossi, accusati di condividere la “fede del nemico” e “del vicino”.
Inoltre, il mantra che personalità influenti come Ismail Kadare ripetono da più di quindici anni – “gli albanesi erano tutti cattolici e tali devono ritornare” – unitamente alla consapevolezza di un’Europa diffidente verso l’Islam, hanno definitivamente convinto il “musulmano sociologico” a rigettare le proprie radici storiche e culturali. Su questo sfondo si colloca anche il “mimetismo religioso” degli albanesi emigrati in Grecia e in Italia. Se, nel caso ellenico, sono le circostanze politiche che inducono alla conversione al cristianesimo, nel caso italiano si tratta di abbracciare il modello di un mondo “vincente”, a lungo sognato e idealizzato. C’è però da domandarsi come sarebbero andate le cose se, anziché imbattersi nelle Tv occidentali, italiana in testa, gli albanesi avessero guardato le Tv del mondo arabo, e se queste avessero proposto modelli altrettanto allettanti. La questione non è di natura teologica o religiosa, ma concerne solo la spinta alla modernizzazione.
E tuttavia, nei primi anni Novanta, la situazione era diversa, l’Albania postcomunista sembrava aver ritrovato il suo feeling con l’Islam e l’edilizia religiosa musulmana ha conosciuto una nuova fioritura, tanto che alcuni ipotizzavano che Tirana potesse “tornare all’Oriente”.
A livello popolare, la rinascita dell’Islam in quegli anni è stata in realtà equiparata a una ri-nazionalizzazione albanese in funzione antigreca e antiserba, corrispondente alla presidenza statunitense di Bill Clinton, tanto ossessionato dalla lotta al comunismo da promuovere ogni sorta di nazionalismo balcanico, musulmano e non. E’ curioso notare che, dopo il 2001, l’attuale primo ministro Sali Berisha, che aveva abilmente cavalcato quell’ondata nazional-islamica, ha iniziato ad affermare che l’Albania è un paese dalle radici e dalla cultura cattoliche – il vento era cambiato e la politica albanese lo ha seguito.
Oggi bisogna prendere atto che, in Albania, la realtà islamica è ormai culturalmente esclusa. Lo dimostra il fatto che i politici (anche quelli musulmani) fanno giusto un paio di visite annuali presso la sede della Comunità islamica, in occasione delle principali festività, con tutta l’aria di chi è lì solo per rispettare la parità giuridica delle religioni, mentre rendono frequenti visite in chiesa e amano farsi riprendere mentre seguono la messa. Il mio timore è che in questo paese ogni religione possa finire per essere nazionalizzata e mi auguro che il cattolicesimo eviti di finire strumentalizzato in tal senso. Per quanto riguarda l’edilizia, poi, andrebbe notato che quando Tirana contava solo 20.000 abitanti aveva 19 moschee, mentre oggi che ha circa un milione di abitanti ne ha soltanto sei e non si parla di ricostruire le altre. Se togliamo il caso di Scutari, che è un po’ la Belfast dell’Albania e meriterebbe una trattazione a parte, l’edilizia religiosa musulmana dei primi anni Novanta si è concentrata soprattutto sui villaggi, perché le piccole comunità manifestano una maggiore volontà di conferma religiosa, mentre a Tirana la volontà pubblica latita.
Eppure, le moschee albanesi non hanno l’aria di essere propriamente deserte, e l’Islam sembra esercitare una certa attrazione sui giovani. Quanti sono i praticanti in Albania?
Ad oggi è difficilissimo stabilire l’entità numerica dei musulmani praticanti. Non esistono statistiche e si ignorano il numero e la modalità delle conversioni da una religione all’altra. Bisogna pertanto affidarsi ai censimenti dell’anteguerra, fermo restando che, in Albania, è molto difficile definire l’identità “musulmana” odierna, considerata la preponderanza dei “musulmani sociologici”. Il vero problema è che in Albania il discorso confessionale è stato usurpato da gente non religiosa, se non addirittura “profana”, gente assolutamente disinteressata agli studi e agli approfondimenti religiosi, sia sotto il profilo storico sia sotto quello spirituale. La manipolazione è il pericolo più minaccioso che incombe sulla sensibilità confessionale degli albanesi, una manipolazione che assume connotati pericolosamente nazionalistici.
Il rapporto fra “nazione” e “religione” in Albania ha appassionato più di uno storico. Quanto peso esercita oggi il nazionalismo sulla situazione religiosa del paese?
Che gli albanesi siano un popolo profondamente nazionalista non è una novità. Ma va evidenziato che si tratta di un nazionalismo complesso, e che da questa complessità emerge, di tanto in tanto, l’ossessione per una presunta “purezza etnica”. Non manca, purtroppo, una corrente di pensiero che considera “greci” tutti gli ortodossi e “turchi” tutti i musulmani, ritenendo che i cattolici siano gli unici albanesi davvero “puri”. Ed è sempre triste vedere la “nazionalizzazione” di una fede religiosa, che dovrebbe invece essere un qualcosa di universale.
Il fatto è che l’adorazione degli antenati sta diventando la vera religione. Gli “arben” cattolici, le cancellerie dei nobili medievali che scrivevano soltanto in latino (dimenticando il paleoslavo e il greco…), il mito dell’origine dal popolo dei pelasgi, dell’antichità e dell’immutabilità della lingua albanese, e così via, in una sorta di romanticismo nazionalista tardivo, anacronistico e privo di ogni senso. Un romanticismo che sconfina nell’utopia, pascendosi di “università albanesi mancate”, di “gotico albanese mancato” e di tante altre cose albanesi “mancate”. Ma l’unica cosa che sembra mancare è un po’ di sana concretezza.
In che termini questo romanticismo nazionalista investe l’Islam albanese?
In un contesto balcanico che vede l’Islam quale minoranza, il musulmano albanese ama rimarcare la propria distinzione rispetto al resto dei correligionari del sudest europeo, poiché può vantare una tradizione di pacifica convivenza con i connazionali di altra confessione che lo contraddistingue dai paesi confinanti. Insomma, anche l’Islam è stato nazionalizzato, assumendo particolari specificità albanesi: l’Islam albanese non è dogmatico, l’Islam albanese non è rituale, l’Islam albanese non è… musulmano! Questa attitudine albanese fa, d’altra parte, comodo ai detrattori dell’Islam, quelli convinti, più o meno esplicitamente, che “l’unico musulmano buono è quello non musulmano”. La realtà è che l’establishment culturale albanese non riconosce la validità della religione islamica, ecco perché politici e massa si sentono sempre in dovere di giustificarsi.
Quali sono gli strumenti per sostituire alla “giustificazione” un vero dialogo?
Credo semplicemente che, se ogni individuo ricevesse dall’opinione pubblica il permesso “ufficiale” di praticare senza complessi la propria diversità (religiosa e di altra natura), il futuro sarebbe bello e sereno. Tutto dipende dall’Europa, perché il vento, per noi, spira solo da là. Se la paura della diversità e l’ossessione per la sicurezza e per l’identità dovessero istituzionalizzarsi in un’Europa arroccata su se stessa, il futuro non riserverebbe nulla di buono per l’Albania e per i suoi musulmani: sarebbe il trionfo del mimetismo, dello snaturamento, del ripudio dell’identità storica, culturale e religiosa.
Allora l’Albania ha davvero fretta di entrare nell’Unione europea, sebbene gli albanesi siano divisi fra “europeisti entusiasti” ed “europeisti diffidenti”?
Ritengo che l’ingresso sia un passo positivo per quanto concerne le politiche economiche e agricole – vorrei ricordare che l’agricoltura albanese versa in condizioni disperate – e per quanto riguarda la dignità personale del cittadino albanese, stanco di sentirsi un europeo “escluso” e desideroso di un’accettazione a pieno titolo. Tuttavia, non condivido l’integrazione “a tutti i costi” sbandierata dai politici nostrani e ritenuta da buona parte della popolazione come la panacea universale. Da parte mia, non ho problemi identitari, Europa o meno, e non considero l’ingresso nell’Ue alla stregua di una promozione spirituale, né tantomeno una “religione”, come sembrano fare tanti miei connazionali, soprattutto in Parlamento.
Eppure – concludiamo sdrammatizzando un po’ – a guardare l’Albania odierna non si direbbe proprio che siate sei secoli indietro: l’abbigliamento femminile, ad esempio, non è propriamente quello che ci si attenderebbe da un paese a maggioranza musulmana…
Mah, cosa dire… Io la trovo una trasgressività da
suk. E’ un’esuberanza tutta orientale, che non ha nulla di occidentale. E’ una forma di eccesso che dimostra una volta di più quanto profondo sia l’influsso culturale dell’Oriente in Albania. E’ quantomeno bizzarro tentare di apparire “occidentali” con tecniche da danzatrici del ventre, no? Il mio unico timore è quello di una spersonalizzazione della donna. Comunque, se le ragazze si sentono a proprio agio negli abiti succinti, ma credono e si sentono musulmane, non sta certo a me giudicarle: non è l’abito che fa la monaca. Ci sono molte donne che osservano il Ramadan, eppure non portano veli. Per quanto mi riguarda, la fede è sufficiente quale prova di appartenenza religiosa. L’unico “test” per stabilire se qualcuno è davvero musulmano è “se credi o no”.