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Città e memoria

25.05.2007   

La lenta cicatrizzazione delle ferite lasciate dall'assedio piu' lungo nella storia delle guerre moderne. Ne parliamo con Laura Cipollini, ricercatrice e una delle autrici del libro “Città e memoria - Beirut, Berlino, Sarajevo”
Di Antonia Pezzani

Città e memoria (Mondadori, 2006) attraverso testi di Mazen Haidar, Laura Cipollini e Elmar Kossel ripercorrendo la storia di città disastrate dalla guerra – Beirut, Berlino, Sarajevo – cerca di stabilire quanta e quale sia la rilevanza simbolica delle strutture urbane nel vissuto quotidiano dei suoi abitanti e quanto essa possa essere arricchita o mutilata dalla guerra: spesso sono proprio gli edifici e gli spazi simbolo di una certa cultura e tradizione cittadina specifica a finire sotto i colpi della volontà distruttiva bellica o a incarnare lo strenuo spirito dei suoi difensori. La Biblioteca, le impronte di Gavrilo Princip, l'Imperial e la sede dell' Oslobodjenje.

Città e memoria. Beirut, Berlino, Sarajevo

Haidar Mazen, Cipollini Laura, Kossel Elmar

Mondadori Editore 2006
Laura Cipollini* nel suo intervento dedicato a Sarajevo percorre il lento processo di ricostruzione postbellico della città sintetizzando una ricerca svolta a Sarajevo nel 2001 e aggiornata durante l'inverno 2005-2006. “L'analisi effettuata si è avvalsa di un'indagine caratterizzata da lunghe interviste, sottoposte sia a cittadini ritenuti interessanti in virtù del loro sguardo privilegiato (persone di rilievo nel panorama culturale e strategico della città), sia a cittadini incontrati durante lunghe camminate nei quartieri di Sarajevo”, scrive l'autrice nell'introduzione. Le interviste in questo caso venivano fatte seguendo un questionario elaborato appositamente in precedenza. “Il lavoro effettuato, come evidenzia il numero delle interviste raccolte (150) e delle domande del questionario standard (42),” continua l'autrice, “si caratterizza per il suo valore qualitativo e non ha alcuna pretesa generalizzante. D'altra parte - conclude - ogni descrizione è già di per sé un atto interpretativo”.

I mutamenti più profondi riguardano quelle che Godard definisce le unità mobili di una città, ovvero i suoi abitanti. Vecchi abitanti, molti dei quali non abbandonarono Sarajevo nemmeno durante l'assedio e nuovi insediati si trovano oggi a condividere uno spazio quanto mai ricco di sedimentazioni – storiche, naturali, antropiche. Se i primi si trovano di fronte al dramma di rivivere quotidianamente il trauma dei bombardamenti, o a quello di cercare di dimenticare, i secondi sono spesso abitanti sordi anche a una tradizione urbana lunga diversi secoli. E poi ci sono quelli che a Sarajevo ritornano senza avere vissuto la guerra: avendo in cuore la vecchia Sarajevo non capiscono quella che ha preso il suo posto nel cuore dei vecchi abitanti rimasti. Anche questo processo di mutuo riconoscimento tra le diverse percezioni degli abitanti di Sarajevo sarà presumibilmente lungo. Sopra tutto emerge il bisogno di non fare di Sarajevo un facsimile di se stessa, ma di lasciare che Sarajevo costantemente ci metta davanti agli occhi tutto ciò che è.


Lei è riuscita in questi anni a cogliere, se c'è, una meta nel progetto di ricostruzione di Sarajevo?

Non è semplice rispondere a questa domanda, che io stessa ho posto a numerosi interlocutori durante i miei soggiorni a Sarajevo. Credo che nel primo periodo l’esigenza di ricostruire fisicamente la città, per restituirla ai suoi vecchi abitanti o per dare ospitalità ai nuovi, abbia prevalso su qualsiasi tipo di politica a medio-lungo termine.

Purtroppo la situazione difficile in cui si sono trovati gli amministratori non è stata agevolata da un assetto legislativo chiaro e definito; ciò ha complicato e allungato oltremodo i tempi di quella che avrebbe dovuto essere la naturale fase di passaggio da una situazione di emergenza. Il dibattito in merito al futuro della città, sebbene sia stato aperto in occasione di interventi specifici, non sembra aver mai avuto la forza di coinvolgere l’intera città, proiettando in termini progettuali un’idea ampiamente discussa e condivisa. In un contesto che ha vissuto forti flussi migratori, da e verso Sarajevo, credo sia difficile, tra l’altro, parlare di strategie quando ancora non esistono studi che parlino degli abitanti della città odierna, se non in modo frammentato o in termini di stime soggettive.

Il censimento della popolazione, che dalla dominazione austro-ungarica aveva luogo ogni 10 anni, non è stato effettuato nel 2001, e, forse, sarà possibile avere dati certi sugli abitanti solo nel 2010. Ad oggi, pur in presenza di numerose stime talvolta assai in contrasto fra di loro, non esistono analisi quantitative e qualitative sugli abitanti.

Il rischio, con il passare degli anni, è che si continui a procedere per parti, componendo un puzzle di progetti che con difficoltà dialogano fra loro.

Si può parlare ancora di una Sarajevo o ci troviamo di fronte a una pluralità di città?

Credo di poter affermare con sicurezza che negli anni immediatamente successivi al termine del conflitto ci trovavamo davanti ad una pluralità di città, diversificate in relazione all’immaginario di partenza, ai riferimenti culturali ed alla storia dei suoi abitanti: vecchi cittadini che avevano vissuto l’assedio, cittadini tornati al termine del conflitto, nuovi abitanti provenienti da altre realtà urbane o da contesti rurali, che a Sarajevo, durante il conflitto, hanno trovato la salvezza o, in epoca successiva, una città in cui cominciare una nuova vita.

Le città si sovrapponevano o affiancavano con evidenti dissonanze; per fare l’esempio più eclatante, alcuni di questi nuovi abitanti, provenienti da piccoli e isolati villaggi monoreligiosi, apparivano come cittadini sui generis rispetto alla secolare tradizione di Sarajevo: restii, ripiegati in un universo di valori, atteggiamenti e abitudini che non avrebbero mai voluto abbandonare, si sono trovati in una realtà che, se da un lato li respingeva istintivamente, dall’altro li osservava muoversi sordi al linguaggio simbolico della città.

Oggi il tempo e le interazioni dinamiche proprie degli organismi urbani hanno contribuito ad accorciare le distanze, sebbene di città parallele gli abitanti parlino ancora quando si fa riferimento alla vita culturale: occasioni in cui i vecchi cittadini si incontrano e riconoscono. Ma sono ancora troppo pochi i volti nuovi che animano questi luoghi.

E’ necessario che la città impieghi energie e creatività per trasmettere ai nuovi abitanti i valori identitari che sono stati così strenuamente difesi, rinnovando in questo modo una memoria che altrimenti rischia di perdersi. Si tratta di una sfida molto ambiziosa ma forse proprio questa è l’essenza dello spirito di Sarajevo, la cui storia, caratterizzata nei secoli da flussi migratori che ne hanno fatto la “Gerusalemme dei Balcani”, ha dimostrato una forza e un’apertura difficilmente riscontrabili. L’apporto che oggi questi nuovi cittadini (in maggioranza giovani) possono dare, se convogliato in termini strategici, è proprio dovuto a una memoria vergine di Sarajevo, patrimonio inestimabile per una città che tesse ancora, con i suoi coraggiosi e fieri abitanti, un rapporto di taciti segreti.

C'è una tensione alla frammentazione insita nel processo di sviluppo della città?

Più che di tensione alla frammentazione parlerei di perduranti difficoltà di dialogo con i processi innescati durante e immediatamente dopo il conflitto, difficoltà motivate sia da condizioni oggettive che da timori (politici) e tensioni (emotive) forse troppo invadenti quando parliamo di pianificazione strategica.

Il caso di Ilidza è sicuramente il più eclatante se pensiamo che prima del conflitto era uno dei luoghi preferiti nella città. Gli abitanti di Ilidza sceglievano di abitare in questa zona per gli stessi motivi che spingono milioni di altri cittadini verso le aree extra-urbane. Situata vicino al Parco di Vrelo Bosne, lontana dalle aree industriali ma a soli venti minuti dal centro cittadino, essa ospitava alcuni dei quartieri residenziali più belli di Sarajevo, nonché ristoranti e caffè molto frequentati. Per tutti Ilidza era parte integrante della città, anche se un po’ lontana, anche se, nella logica socialista, Ilidza non era amministrata dalla Città di Sarajevo, costituita dalle quattro municipalità di Stari Grad, Centar, Novo Sarajevo e Novi Grad.

L’assedio di Sarajevo ha visto l’intera area allontanarsi vertiginosamente: Ilidza era fuori, sotto il controllo dei nazionalisti. Una percentuale molto alta dei suoi abitanti si vide costretta a fuggire, vuoi perché in pericolo di morte, vuoi perché contraria alla logica degli occupanti; alcuni scapparono verso il centro di Sarajevo, trovando rifugio da amici, parenti o anche solo concittadini solidali, altri riuscirono a fuggire all’estero.

Sebbene vi sia un discreto numero di vecchi abitanti che oggi ha fatto ritorno nella propria casa, il fatto che Ilidza si configuri come un’area abitata da una maggioranza di nuovi residenti ha di fatto creato una distanza preoccupante con il resto della città. Buona parte dei nuovi arrivati proviene dalle aree rurali e montane della Bosnia-Herzegovina e dal Sangiaccato, riproponendo con forte impatto le differenze e i luoghi comuni esistenti fra cultura rurale e cultura urbana.

Ilidza sta cessando di essere nell’immaginario collettivo parte di Sarajevo, restringendo la sua percezione al solo Parco e, sebbene i prezzi delle case siano inferiori rispetto al resto della città, la residenzialità non si configura più come una scelta allettante per i vecchi cittadini.

Nella complessità dei problemi, di carattere urbanistico, sociale, culturale ed amministrativo, che la municipalità sta affrontando, non ultimo è la qualità e il tipo di legame con la città di Sarajevo.

Il suo lavoro si è avvalso di lunghe interviste con gli abitanti di Sarajevo: quali le principali difficoltà e le sfide che percepivano per se stessi e la città?

Come emerge da ciò che ho scritto, non credo sia corretto riferirsi in termini generali agli abitanti della città, soprattutto se si parla di difficoltà e aspirazioni; fatta questa premessa, volendo individuare un tema comune, non è difficile individuarlo se ci si riferisce alla sfera personale, soprattutto se si parla dei giovani abitanti. Essi sono accomunati dal medesimo sentimento: riuscire a trovare un lavoro che permetta di progettare il proprio futuro in questa città, a cui sono in vario modo legati. Tutto il resto, di qualsiasi entità sia, passa in secondo piano.

La questione si amplia quando si parla di Sarajevo città, le prospettive sono diverse come diversi gli immaginari di partenza. Forse era inevitabile che la sostanziale differenza fra vecchi e nuovi cittadini si esprimesse nella maggiore o minore specificità delle sfide; mentre infatti i vecchi abitanti, così come quelli provenienti da altre realtà urbane della Bosnia-Herzegovina, individuano fra le questioni prioritarie la necessità di salvaguardare i valori identitari che la città rappresenta e in cui essi si riconoscono, le sfide percepite dagli altri cittadini sono quelle tipiche di ogni realtà urbana: economia, verde urbano, traffico, collegamenti pubblici, ecc.

Non crede sia utopico parlare di città senza ombre, visto che una città è anche le sue ombre?

Una città è anche le sue ombre, certo, e per alcune città questo diviene l’aspetto forse più affascinante. Quando però queste si moltiplicano e sovrappongono, dando origine a fantasmi che, veri o presunti che siano, impediscono ai cittadini di abitare i luoghi, vi è il rischio che queste ombre dimenticate dalla Storia si trasformino in veri e propri buchi neri, capaci di fagocitare tutto ciò che li lambisce. Se, come dice Ricoeur, “sul cammino della critica storica, la memoria incontra il senso di giustizia”, la lentezza che connota i processi di storicizzazione attribuisce al lavoro degli storici e delle Commissioni per la verità un valore che pesa direttamente sulla vita quotidiana degli abitanti, determinando una forte decelerazione nel processo di rielaborazione del lutto. Il lavoro della memoria si traduce come processo di rigenerazione del sé e, in ambito urbano, nella capacità di ri-connotazione dei luoghi, in termini talvolta di vera e propria de-simbolizzazione e ri-simbolizzazione.

Tutto ciò è di grandissima rilevanza in un organismo di luoghi divenuti silenti testimoni delle atrocità della guerra, costellato di prove che si rivelano al passante capace di decifrarle nel suo agire quotidiano.

Cosa pensa dell'inaugurazione del museo di arte contemporanea a Sarajevo?

Credo sia un evento importante sia dal punto di vista simbolico, molto sentito dalla cittadinanza, sia per come è stato concepito l’intero progetto. L’area in cui avrà sede il nuovo museo di Renzo Piano, inoltre, è particolarmente significativa perché si trova in posizione di cerniera fra il centro e la prima periferia, raggiungendo con il ponte pedonale già realizzato il quartiere di Grbavica, nella città assediata durante il conflitto e oggi abitato da molti nuovi abitanti. Credo sia lo spirito giusto con cui stimolare la rinascita di una città che si è sempre potuta vantare di una vivacità culturale di prim’ordine.


* Laura Cipollini è laureata in Architettura presso l'Università di Firenze. Oltre all'attività di ricerca nell'ambito della cooperazione decentrata, si occupa di progettazione partecipata nel rispetto dei programmi d'azione in materia ambientale promossi dall'Ue. E' tra le autrici di “Città e memoria - Beirut, Berlino, Sarajevo” pubblicato da Mondadori (2007)
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