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Un archeologo per la pace

01.06.2007    scrive Nicole Corritore

Sarajevo, la biblioteca - Christian Penocchio
Fabio Maniscalco, nonostante la grave malattia probabilmente dovuta all’esposizione all’uranio impoverito, è un infaticabile ricercatore. Nei Balcani ha svolto ricerche sui beni culturali nelle aree di crisi. Un impegno che potrebbe valergli la candidatura al Nobel per la pace. Nostra intervista
In questi giorni è apparso più volte sulla stampa l'appello a sostegno della sua candidatura al Premio Nobel per la Pace 2008. Cosa ha spinto vari studiosi a sostenere la sua candidatura?

I motivi vanno ricercati nelle lettere che vari politici e studiosi hanno inviato al comitato norvegese che assegna il Nobel per la Pace e che comunque sottolineano l'attività di ricerca che svolgo da più di un decennio a favore della salvaguardia del patrimonio culturale nelle aree di guerra. Sono stati tutti molto affettuosi. Ovviamente, non credo di meritare un premio Nobel per la pace, ma non nascondo che mi ha fatto estremamente piacere sapere che oltre 150, tra politici e illustri studiosi da tutto il mondo si sono mobilitati per me.

A proposito di questa sua attività. Lei ha operato anche in paesi dell'area dei Balcani e rispetto a questo Lei rivolse diversi appelli finalizzati alla tutela della pace attraverso la salvaguardia della memoria storica, della salvaguardia dei beni culturali, in zone di crisi. Ci può raccontare in breve quando e come ha operato in queste aree?

Abbiamo visto come, negli ultimi conflitti soprattutto, la memoria storica e anche il patrimonio culturale delle diverse identità divengono obiettivi strategici per annichilire il nemico e per eliminarlo da quel territorio in una sorta di “damnatio memoriae”. È evidente, dunque, che la comunità politica internazionale e, di conseguenza, i contingenti multinazionali di peace-keeping, dovrebbero considerare prioritaria la salvaguardia dell'identità culturale delle diverse nazioni in guerra.

Per quanto riguarda i Balcani, ho avuto modo di lavorare in Bosnia a partire dall'inizio del 1996 fino al 1997. Ero ufficiale addetto stampa dell'esercito italiano, in realtà ufficiale in ferma breve. Quindi chiesi proprio per non perdere tempo inutile in una caserma italiana, di essere inviato in Bosnia per monitorare la situazione del patrimonio culturale. Sarebbe stata la prima volta che un militare faceva una cosa del genere durante un conflitto e nell'immediato dopoguerra.

Era un interesse che aveva sviluppato anche prima di partire?

Fabio Maniscalco
Sono laureato in lettere antiche e mi sono specializzato in archeologia subacquea ad Aix en Provence. Subito dopo la laurea ho indirizzato i miei interessi anche alla salvaguardia del patrimonio culturale. Inizialmente ho collaborato per un certo periodo con la Procura della Repubblica di Napoli, con la Criminalpol, per un lungo periodo ho collaborato con il Generale Roberto Conforti, comandante del Reparto Tutela del Patrimonio Culturale dei Carabinieri. Grazie ad una mia ricerca, pubblicata nel 2000, la banca dati del Comando Carabinieri si è arricchita di circa il 50% dei dati, relativamente ai furti d'arte verificatisi a Napoli dal dopoguerra agli anni 2000. Questa era la mia attività in Italia.

In Bosnia Erzegovina, poiché non c'era libera uscita (per il rischio di cecchini, di mine, di ordigni inesplosi), durante la prima missione IFOR non fui autorizzato a fare il monitoraggio. In realtà il Generale Pedone e il Tenente colonnello Scalas avevano capito l'importanza dell’iniziativa, ma nessuno voleva assumersi la responsabilità di autorizzare un ufficiale a svolgere un’attività non contemplata dalle Regole di ingaggio in un’area particolarmente rischiosa (originariamente si prevedeva circa il 10% di perdite/feriti).

Tuttavia, inoltrarono la mia istanza scritta allo Stato Maggiore dell'esercito, per ottenere un’autorizzazione ad assecondare le mie richieste. Io feci presente che lo Stato Maggiore dell'esercito avrebbe sicuramente risposto in ritardo e forse anche con un no. Quindi da un lato mi fecero firmare una sorta di liberatoria in cui dichiaravo di aver preso visione della risposta negativa al mio “Appunto”, dall'altro mi si disse che nel tempo libero a mio rischio e pericolo, a piedi e/o con mezzi di fortuna, avrei potuto svolgere attività a favore dei beni culturali bosniaci. In questo modo io mi accollavo anche il “rischio” di una denuncia al tribunale militare qualora fossi rimasto ferito o avessi avuto problemi di altro genere durante il monitoraggio.

Ho sempre saputo di correre dei rischi, al di là della malattia di cui soffro oggi, e anche oggi, che la mia vita com'è noto è appesa ad un filo, sono convinto che la mia morte sarebbe pianta dai familiari, da qualche amico, invece la distruzione dei beni culturali, pensiamo a Roma senza il Colosseo, dovrebbe rimanere nella memoria dell'umanità, per le future generazioni.

Quale situazione trovò e quale fu il risultato di questo primo lavoro?

La situazione era estremamente drammatica, trovai una città fantasma nel caso di Sarajevo, la Bosnia intera assolutamente irriconoscibile. È anche indescrivibile il senso di desolazione che si prova nel percorrere delle strade deserte in un momento, almeno all'inizio, in cui erano presenti cecchini. Una situazione surreale.

Per quanto riguarda il patrimonio culturale una profonda distruzione, molti hanno parlato del ponte di Mostar come simbolo della distruzione del patrimonio dei Balcani, dell'ex Jugoslavia, invece sono convinto che la vera distruzione monumentale, culturale, della Bosnia sia simboleggiata dalla biblioteca nazionale ed universitaria di Sarajevo. Dove tra l'altro ebbi modo di individuare la scomparsa, antecedente alla distruzione del 1992, di buona parte dei volumi antichi e degli incunaboli. La prova sta nel fatto che oltre il 90% dei volumi che si sono salvati dall'incendio sono tutti contemporanei e privi di alcun valore. Quindi questo primo monitoraggio è servito anche per vedere quali potevano essere le modalità per salvaguardare precedentemente il conflitto. La mia attività didattica ed operativa si concentra principalmente nella salvaguardia e non nella tutela dei beni culturali.

Per preservare i beni culturali in caso di conflitto è necessaria la salvaguardia, consistente in tutte quelle attività necessarie per prevenire o limitare i danni durante la guerra. Quando il conflitto è in corso diviene più difficile, se non impossibile proteggere edifici monumentali, siti archeologici e beni culturali mobili.

Quale la reazione della popolazione con cui è venuto a contatto nel suo lavoro di monitoraggio?

In Bosnia creai delle schede di inventariazione per beni culturali mobili e immobili. Ebbi una grossa collaborazione a livello locale (incontrando, nel 1997, il Ministro della Cultura bosniaco, che ebbe parole di elogio per il lavoro svolto), un po' meno da parte del referente UNESCO che era sul campo. Lo contattai per sapere che cosa aveva fatto in modo da darci una mano e non fare le stesse cose. Mi rispose “qui sparano, è pericoloso, in bocca al lupo...”.

Nella mia ricerca di dati cercavo di avere notizie da tutte le fazioni in lotta, per incrociare le informazioni e cercare di mantenere un'autonomia sotto il profilo del giudizio. Il risultato di questo lavoro fu la realizzazione di un video reportage e di un volume che però la Regione Militare Meridionale e l'esercito fece proprio. Il Generale Vozza, allora Comandante della Regione Militare Meridionale, scrisse la prefazione. Il volume, dal titolo Sarajevo. Itinerari artistici perduti, fu pubblicato con tanto di fotografia dei generali Pedone e Vozza, che presero il merito dell’iniziativa. Ovviamente, poiché il mio scopo era raggiunto, accettai di buon grado che l’Esercito italiano si assumesse il merito dell’attività a favore dei beni culturali bosniaci.

Il libro, secondo lei, è riuscito a spostare l'attenzione su questo ambito...

Il generale Pedone e il generale Vozza ebbero encomi da numerosi Ministri, dal Presidente della Repubblica, etc. I media nazionali ed internazionali ne parlarono, fui ospite a Shape del comandante della NATO-Sud Europa, dove presentai i risultati del monitoraggio a tutti i comandanti degli eserciti e delle difese della NATO. In parte sono riuscito a sensibilizzare quei comandanti nei confronti dei beni culturali. Ovviamente molti sono andati in pensione e non hanno trasmesso quei valori ai successori.

Grazie al mio lavoro in Bosnia ho potuto in seguito, anche monitorare la situazione del patrimonio culturale in Albania durante la crisi del 1997. In quell’anno ero a Korce, come addetto stampa dell’8° Reggimento bersaglieri. Lì mi recai dopo aver ottenuto la promessa del colonnello Santroni di ottenere 3 mezzi con cui recarmi in giro per verificare le problematiche connesse al patrimonio culturale locale. Ebbi anche un salvacondotto dal comandante del contingente multinazionale, generale Forlani. In Albania mi sono dedicato quasi esclusivamente alla tutela del patrimonio culturale mobile e mi sono infiltrato nel mercato clandestino dell’arte.

Anche l’attività in Albania ha dato un riscontro positivo. Il volume in cui veniva sintetizzata l’attività svolta, reca le prefazioni dell’allora ministro della Difesa Beniamino Andreatta e del Capo di Stato maggiore dell’Esercito. Inoltre, ebbi modo di contattare i referenti dell’Istituto di Archeologia dell’Accademia delle Scienze di Albania, con cui collaboro ancora oggi. Nel 2006 l’Accademia mi ha nominato professore per chiara fama di salvaguardia dei beni culturali.

Poco fa accennava alla sua malattia. Pubblicamente è stato detto che si pensa sia correlata alla sua permanenza e alla sua attività svolta nei Balcani...

Per quanto riguarda la malattia, ho subito recentemente l'asportazione dello stomaco, del duodeno, di parte dell'intestino, di metà pancreas e della cistifellea a causa di una forma rara e anomala di adenocarcinoma del pancreas. Un tumore che, considerando l’assenza di fattori di rischio e la forma estremamente anomala con cui si è manifestato, potrebbe essere messo in relazione con l’esposizione all’uranio impoverito e/o metalli pesanti. Con i miei fratelli, che sono medici, abbiamo avuto modo di verificare anche attraverso specifica letteratura scientifica numerosi casi di adenocarcinoma del pancreas messi in correlazione con l'esposizione a uranio impoverito.

Prima dell’intervento sono stato ricoverato in day Hospital/Day Surgery in 4 ospedali diversi, dove mi hanno diagnosticato ulcere duodenali recidivanti. Dopo l'intervento chirurgico, sono stato dimesso con una diagnosi di possibile tumore al duodeno; poi, l’esame istologico ha purtroppo dato l'esito inaspettato e inizialmente più temuto. Difatti, l’adenocarcinoma del pancreas è il tumore più devastante: oltre il 90% dei pazienti non sopravvive oltre i 3-5 anni di vita.

Esiste una commissione parlamentare d'inchiesta sull’uranio impoverito. Come valuta il lavoro d'inchiesta della Commissione e la situazione oggi nel mondo militare?

Personalmente non posso fare valutazioni rispetto al lavoro della commissione perché non so come hanno lavorato fino ad ora. Posso dire che alcuni dati di partenza erano evidentemente falsati, mi riferisco al lavoro della Commissione Mandelli. Non credo per malafede di chi faceva le indagini, ma effettivamente per una non corretta osservazione dei dati. Per esempio il numero di militari effettivamente impegnato nel corso degli anni in quelle aree, considerando che le brigate operative sono sempre le stesse che si alternano. Io personalmente posso essere stato contato per cinque volte perché sono andato più volte in missione in quelle zone.

Contemporaneamente ci sono altre problematiche connesse all'operatività: oltre il 60% dei militari impiegati fuori area è utilizzato per attività logistiche e dunque all'interno degli accampamenti. Quindi sottoposti a fattori di rischio relativamente bassi. Mentre chi è realmente operativo rappresenta più o meno un 30-35% del contingente. Volendo fare un'indagine seria, i dati andrebbero rivisti.

Le faccio un esempio pratico. Io ero addetto stampa e quindi ero continuamente in giro per accompagnare i giornalisti. Ho appreso, appunto, recentemente che alcuni giornalisti hanno avuto anche loro problemi connessi all'uranio impoverito. La domanda è che cosa avviene alle popolazioni locali, che sono le più esposte, negli anni, ai rischi di contaminazione (infiltrazioni nelle falde delle acque, pozzi, inquinamento delle colture, etc.).

Voglio anche dire che comprendo l'atteggiamento del nostro esercito o di alcuni politici che tendono a non dare la dovuta attenzione a questa problematica. Atteggiamento dovuto in primo luogo al fatto che abbiamo tanti militari impegnati in aree, anche in Libano, dove sono state utilizzate armi all'uranio impoverito, per cui divulgare e far sapere che c'è effettivamente questo rischio, spingerebbe tanti nostri militari, che lo fanno come lavoro temporaneo, a dare le dimissioni.

Contemporaneamente, ci sono altre problematiche connesse alle popolazioni locali, che sono state bombardate dalla NATO e/o dagli USA. Il riconoscimento causa-effetto tra uranio impoverito/metalli pesanti/tumori aprirebbe sicuramente la strada a dei contenziosi internazionali nei confronti degli USA, della NATO e anche della stessa Italia, con conseguenze che si possono immaginare. Quindi capisco che si continui a negare l'esistenza di questa causa-effetto.

Lei possiede dei dati che accertano che la sua malattia è correlata alla presenza di nano-particelle di metalli pesanti?

Sulla prima pagina della mia scheda clinica c'è scritto, oltre ai dati anagrafici, l'anamnesi che cita “presunta malattia contratta a causa di esposizione a uranio impoverito” . Personalmente ho autorizzato sia il policlinico di Verona dove sono in cura, sia l'Osservatorio Militare a studiare, a pubblicare e divulgare i miei dati. Perché spero che quello che è accaduto a me non accada ad altri.

Nel mio caso intervenendo prima avrei subito soltanto l'asportazione della testa del pancreas e non avrei avuto infiltrazioni, metastasi, nei linfonodi. Voglio che il mio caso venga reso noto, perché magari informando correttamente i medici ed i pazienti, altri non corrano il rischio di perdere organi vitali e la vita stessa, a causa di diagnosi errate. Ci tengo tuttavia a precisare che la diagnosi tardiva non è colpa dei medici, ma dipende dall’anomalia della mia malattia.

Nonostante la malattia lei non si è arreso e oggi dirige la prima rivista scientifica multidisciplinare on line dedicata alla tutela e valorizzazione dei beni culturali - il “Web Journal on Cultural Patrimony”, di cui è fondatore. Quali sono i suoi progetti futuri?

Questa rivista scientifica on line è nata nel giugno 2006 ma nasce da un'esperienza pregressa, una collana monografica giunta al sesto numero, “Mediterraneum, tutela e valorizzazione dei beni culturali e ambientali”. Nata nel 2002 ma in cartaceo e con una larga divulgazione soprattutto accademica, ma non quanto può permettere internet. Ecco perché ho creato il WJCP, semestrale e gratuito, che permette agli studiosi di paesi meno abbienti, che non hanno la possibilità di divulgare le proprie ricerche la possibilità di farle conoscere e di essere in contatto con studiosi di altre nazioni. Al momento mi accingo a preparare il terzo numero che uscirà a breve e contemporaneamente ho accettato un contratto di direzione di corsi di formazione a distanza per la Palestina.

Contemporaneamente sto lavorando ad un nuovo progetto in Albania. E' già stato istituito presso l'Accademia delle Scienze di Albania un centro di archeologia subacquea e come sapete l'Accademia funge da ministero per i beni culturali. Però non hanno materialmente le strutture, le attrezzature per far partire il centro, quindi sto per far partire un progetto a costo zero. Inviterò il ministero degli Interni, il ministero dei Beni Culturali e della Difesa a donare attrezzature dismesse. Le revisioniamo e le doniamo al centro di archeologia subacquea. Sempre a costo zero... io ho paura a maneggiare i soldi, gli stessi 6.000 dollari che mi darà l'UNESCO per il corso di formazione palestinese li investirò in un progetto di monitoraggio dei beni culturali lungo il muro israeliano. Dopodiché... spero di star bene, perché il direttore del centro di archeologia, Adrian Anastasi, mi ha invitato a collaborare ad alcune campagne di archeologia subacquea in Albania.