Non vogliono più stare sotto la giurisdizioe della Republika Srpska. E per protestare, se ne sono andati di nuovo da Srebrenica, trasferendosi con le tende a Sarajevo. Un reportage di Cecilia Ferrara pubblicato su Left-Avvenimenti. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Cecilia Ferrara - Left-Avvenimenti n.24/25 del 22 giugno 2007
Fotoreportage di Paolo Cagnacci
Da due mesi una ventina di tende militari stazionano nei pressi dello stadio di calcio di Sarajevo in Bosnia Erzegovina. Sono gli abitanti di Srebrenica che hanno deciso di sfollare nuovamente dalla città simbolo dell’eccidio. I cittadini di nazionalità bosgnacca, ovvero musulmani di Bosnia, hanno scelto così di protestare contro la Repubblica Srpska, l’entità serba che compone assieme alla Federazione Croato Musulmana, lo stato della Bosnia Erzegovina dopo gli accordi di Dayton.
Nel luglio del 1995 furono uccisi circa 8.000 uomini e ragazzi della città che era , all’epoca , enclave musulmana protetta dalle forze Onu in Bosnia. L’11 luglio Srebrenica cadde sotto i bombardamenti e l’attacco delle truppe serbo-bosniache comandate dal generale Ratko Mladic (ad oggi ricercato dal Tribunale Penale Internazionale), mentre i caschi blu olandesi abbandonavano la base militare di Potočari nei pressi della città. Un fiume di persone fuggì attraverso i boschi in direzione di Tuzla e migliaia di loro, catturati, furono uccisi.
Attualmente Srebrenica è sotto la giurisdizione della Repubblica Srpska ed ha cambiato rovesciandola propria composizione etnica. I musulmani erano il 70% prima del ’92, adesso sono il 30%.
Dopo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, dello scorso 26 febbraio, con la quale l’esercito della Repubblica Srprska è stato dichiarato colpevole di genocidio, si è attivato a Srebrenica un Comitato di iniziativa per lo sgombero della città che ha dato vita a questo singolare accampamento che si raggiunge costeggiando lo stadio di Sarajevo: a sinistra si stende l’enorme cimitero della capitale, Bare, a destra si entra in un accampamento passando sotto ad un grosso striscione che indica “Campo delle vittime del genocidio di Srebrenica”.
“Siamo circa in 50 a vivere qui – spiega Ćalim Duraković presidente del comitato d’iniziativa per lo sgombero di Srebrenica – ma non importa se siamo 4 o 40 mila siamo qui per protestare. Il verdetto della Corte Internazionale di Giustizia afferma che è stato commesso un genocidio a Srebrenica dalle forze militari della Repubblica Srpska, quindi noi non vogliamo stare sotto la giurisdizione di questa istituzione. È molto chiaro, come se il Terzo Reich controllasse la popolazione ebraica in Germania”.
A Srebrenica erano ritornati dopo la guerra 900 persone di nazionalità bosgnacca anche se le cifre ufficiali parlano di 4000 “ritorni”. L’assemblea municipale di Srebrenica lo scorso marzo aveva adottato una risoluzione per richiedere uno speciale status distrettuale, ma questa decisione è stata dichiarata incostituzionale sia dalla RS (Repubblica Srpska) che dall’Alto rappresentante delle Nazioni Unite Christian Shwartz-Schilling. È in quei giorni sono iniziati i preparativi per lo sgombero.
Il dato che salta agli occhi, entrando nel Campo delle vittime del genocidio, è che non sono le donne di Srebrenica ad accoglierci, le madri e le mogli degli uomini uccisi nel luglio di 12 anni fa, quelle donne anziane con i fazzoletti sul capo che ogni 11 del mese nella città bosniaca di Tuzla mostrano i fazzoletti con i nomi dei loro cari per non dimenticare. In questo accampamento sono ragazzi a venirci incontro. Quattro giovani che giocano a carte sotto la tenda principale e due ragazze che chiacchierano tra loro. Sono i figli di Srebenica, quelli sopravvissuti ai padri e a fratelli, che ora hanno vent’anni.
Selma Sejdin ha 23 anni studia sociologia a Sarajevo. Si ricorda della fuga a Tuzla nel luglio del 1995 con il fratello. Il padre è stato ucciso, aveva 36 anni ed il corpo è stato ritrovato l’anno scorso. La sua famiglia ha ancora una casa a Srebrenica ma lei non ci è mai tornata. Selma racconta anche che è fidanzata con un ragazzo, anche lui di Srebrenica, emigrato in Svezia e che spera di raggiungerlo presto. Hassaba ha 16 anni, andava a scuola a Srebrenica ma ora vive all’accampamento, spiega che in genere ci sono anche i bambini più piccoli, ma a quest’ora sono a scuola. Il fratello di Hassaba, Hairudin ha 20 anni. Lui e i suoi amici parlano più volentieri della situazione economica e lavorativa piuttosto che del genocidio. Hairudin non ha lavoro, il suo amico Selim invece lavorava in un ristorante di un villaggio vicino Srebrenica “mi davano duecento euro al mese – spiega – che cosa ci faccio con quei soldi?”.
Anche Ćalim Duraković, che è portavoce del campo ed ha solo 28 anni, è un figlio di Srebrenica. Quando gli chiediamo cosa ne pensa dei piani si sviluppo della RS per l’area di Srebrenica afferma: “Le promesse economiche servono a farti scordare i diritti umani - afferma - Fino ad adesso le autorità della RS sono state abituate ad avere a che fare con una popolazione non educata in quel territorio. Ma io ho vissuto nel mondo, mi sono costruito un’istruzione e so cosa sto facendo. E come me molti altri. Hanno ucciso la classe più colta e hanno lasciato solo la popolazione rurale che non aveva le capacità di combattere. E li hanno manipolati, li hanno umiliati. Ma ora i tempi stanno cambiando, abbiamo professori, dottoresse e saremo un problema per loro”. “Io avevo 15 anni quando è stato commesso il genocidio e sono sopravvissuto a tutto – racconta Duraković - sono scappato attraverso le montagne fino a Tuzla, sono stato colpito due volte. So bene cosa è successo in quei giorni. E ora ho un’istruzione e non lascerò che nessuno ci prenda in giro”.
“Noi siamo le vittime sopravvissute ad un genocidio – conclude - e staremo fermi sulle nostre richieste poiché dietro le nostra richiesta c’è il verdetto della Corte di Giustizia Internazionale e dietro la Corte di Giustizia Internazionale c’è la Legge”.
Ma se i figli di Srebrenica sono determinati, continuano la loro battaglia anche le madri. Lo scorso 4 giugno sono state depositate, presso un tribunale distrettuale dell’Aja, le denunce contro le Nazioni Unite e lo stato olandese per il massacro del luglio del 1995. La citazione in giudizio, presentata dagli avvocati che rappresentano i 6000 sopravvissuti riuniti nell'associazione delle Madri di Srebrenica, afferma che il governo olandese rifiutò di offrire copertura aerea alle sue truppe inviate sotto il mandato dell'Onu a protezione dell'enclave musulmana di Srebrenica. Le Madri di Srebrenica chiedono “soltanto il riconoscimento della responsabilità” dello stato olandese e delle Nazioni unite.
L’11 giugno scorso gli abitanti dell’accampamento sono scesi di fronte al parlamento bosniaco chiedendo di non dimenticare e per reclamare uno statuto speciale per l’ex enclave. Queste istanze sono diventate, dopo il verdetto dell’Aja, una bandiera nazionalista sventolata dagli stessi leader politici. Haris Silajdzic membro bosgnacco della presidenza del paese ha affermato che “la Comunità internazionale e i membri delle Nazioni Unite non possono, secondo la legge internazionale, legittimare i risultati del genocidio e devono lavorare per rimuoverne le conseguenze”. Un messaggio che può essere letto come la richiesta dell’abolizione delle due entità. Messaggio pienamente ricevuto dal premier della repubblica Srpska Milorad Dodik che, pur approvando piani speciali per lo sviluppo dell’area della città di Srebrenica, grida al complotto di chi vuole abolire l’entità dei serbi di Bosnia.
In realtà lo status di Srebrenica potrebbe cambiare solo nell’ambito di una riforma costituzionale, che viene bloccata ormai da un anno a causa dei disaccordi tra politici serbi e bosgnacchi. Ma quando la trattativa ripartirà non si potrà non tenere conto dei figli di Srebenica.