Alla ricerca affannosa di una via d'uscita dal vicolo cieco costituito dalla questione kosovara, la diplomazia internazionale è arrivata a sfatare l'ultimo tabù in tema di opzioni possibili, quello cioè della divisione della regione secondo linee etniche.
A far balenare questa possibilità sono state le parole di Wolfgang Ischinger, rappresentate dell'Ue della “troika”, formata da Unione Europea, Stati Uniti e Russia, incaricata dal Gruppo di Contatto di guidare un ulteriore round di negoziati tra Belgrado e Pristina, dopo il definitivo fallimento del tentativo di far passare il piano Ahtisaari in Consiglio di Sicurezza per la ferma opposizione della Russia.
“La nostra missione, in linea di principio, sostiene qualsiasi accordo che venga sottoscritto da entrambe le parti. Questo comprende tutte le opzioni”, ha dichiarato Ischinger domenica 12 agosto a Pristina, durante il primo giro di colloqui, tenuti primi a Belgrado e poi in Kosovo nello scorso week-end. Alla domanda se tra queste opzioni fosse contemplata la spartizione, Ischinger ha poi risposto:“Sì, se le due parti raggiungono un accordo al riguardo”.
L'opzione della spartizione non è certamente nuova. Già nel 2002 veniva proposta dall'allora premier serbo Djindjic come minore dei mali per venire fuori dall'impasse kosovara. Adesso, però, viene menzionata per la prima volta da un alto esponente della diplomazia internazionale, dopo essere stata sempre rigettata in modo deciso.
Ischinger si è poi affrettato a specificare che “la troika non propone né supporta la divisione del Kosovo”, affermando che le sue dichiarazioni sono state riportate in modo inesatto dai media. In ogni caso, però, il sasso è stato lanciato.
Le reazioni ufficiali non si sono fatte attendere. A farsi portavoce della posizione di Pristina è stato il presidente kosovaro Fatmir Seidju, che ha addirittura minacciato il ritiro del team negoziale dal nuovo round di negoziati fino a quando l'opzione della spartizione rimarrà sul tavolo, perché, ha spiegato, “l'integrità territoriale del Kosovo è inviolabile”.
Belgrado ha mantenuto invece un atteggiamento più defilato, pur rigettando ufficialmente ogni proposta di divisione.
“Mosca potrebbe aprire una discussione sulla divisione del Kosovo, se questa fosse un'idea serba, ma questa di sicuro non viene da Belgrado”, ha dichiarato poi l'ambasciatore russo in Serbia Aleksandar Aleksejev, aggiungendo poi che “la Russia continua a rispettare pienamente la posizione del Gruppo di Contatto secondo cui questa possibilità è inaccettabile”.
A difendere pubblicamente la proposta rimane forse soltanto l'ex premier serbo Zoran Zivkovic, uno dei più stretti collaboratori di Djindjic. “La divisione del Kosovo non è certo una soluzione ottimale, ma rimane certamente la meno negativa per entrambe le parti”, ha dichiarato Zivkovic all'agenzia Beta.
A rigettare con forza la divisione sono invece i serbi del Kosovo, soprattutto quelli che vivono nelle enclavi a sud del fiume Ibar. “La Serbia non deve farsi attirare nel progetto di spartizione”, ha dichiarato al quotidiano Dnevnik Momcilo Trajkovic, leader del
Srpskog pokreta otpora sa Kosova. “Per quanto possa suonare eretico, è meglio l'indipendenza controllata alla divisione...perché questa può portare a nuova tensione e scontri per le sfortunate comunità serbe che vivono a sud dell'Ibar”.
E' difficile dire quanto sia reale, oggi, la possibilità di una spartizione formale del Kosovo (una divisione de facto tra la maggior parte della regione abitata dagli albanesi e della zona a nord di Mitrovica, abitata da serbi, è una realtà dal 1999).
Quello che è certo è che questa opzione aprirebbe una lunga serie di scenari di difficile soluzione.
Innanzitutto la spartizione viene vista dai contendenti in termini profondamente diversi: per Belgrado la questione viene vista come eventuale rinuncia alla sovranità in cambio della zona di Mitrovica; da parte kosovara , invece, la divisione viene vista nei termini di scambio di territori, Mitrovica in cambio di Presevo e Bujanovac, cittadine della Serbia meridionale abitate da albanesi.
Rimettere mano ai confini è poi un'operazione a rischio, perché rischia di riaprire molte questioni ancora non risolte, come il delicato accordo raggiunto in Macedonia tra la componente macedone e albanese, per non parlare poi della difficile convivenza tra Republika Sprska e Federazione croato-musulmana in Bosnia.
Aver aperto la questione della spartizione potrebbe essere stato il tentativo di smuovere in qualche modo le acque intorno ad un negoziato che somiglia molto ad una “missione impossibile”.
Se l'obiettivo è davvero quello di arrivare ad una soluzione di compromesso, il fallimento sembra inevitabile, visto che Belgrado e Pristina rimangono fermi nelle loro posizioni sul vero punto nodale, e cioè l'indipendenza.
Anche la possibilità di riuscire a vincere le riserve di Mosca, che per il momento, dopo aver bloccato il piano Ahtisaari si gode una piccola rivincita dopo le molte umiliazioni subite sul teatro balcanico, sembra molto improbabile.
La posizione russa è chiara: il piano Ahtisaari non è accettabile come base per i nuovi negoziati, i negoziati stessi non hanno scadenza e i 120 giorni di lavoro della troika non sono l'ultimo passo prima della soluzione dello status del Kosovo e in ogni caso le decisioni finali devono essere prese all'interno del Consiglio di Sicurezza dell'Onu.
Con gli Stati Uniti che premono verso una soluzione rapida, che al momento resta lo scenario più probabile, e che significa riconoscimento dell'indipendenza anche fuori dalla cornice Onu, il giocatore più debole, e che di certo ha più da perdere, è l'Unione Europea, divisa al suo interno e incapace di parlare con una sola voce.
Secondo molti analisti, il motivo principale dei colloqui affidati alla troika, insieme al tentativo di smarcamento dal veto russo in Consiglio di Sicurezza, è proprio guadagnare tempo per far sì che all'interno dell'Ue si raggiunga una “massa critica” di consenso intorno all'eventuale riconoscimento di una dichiarazione di indipendenza unilaterale da parte del Kosovo.
A dividere l'Unione ci sono alcune questioni spinose: da una parte la preoccupazione di stati come Spagna e Slovacchia, che hanno rapporti delicati con le proprie minoranze, di veder sancito il diritto di secessione nel cuore dell'Europa.
Dall'altra c'è la consapevolezza che il riconoscimento dell'indipendenza kosovara porterebbe a un drastico peggioramento dei rapporti con la Serbia, rendendo reale l'incubo del “buco nero nel giardino di casa” che i Balcani Occidentali rappresenterebbero per un periodo indefinito.
In questi giorni sulle pagine del quotidiano Politika di Belgrado sono rimbalzate anche minacce di ritirarsi dal processo di integrazione, mentre il premier Vojslav Kostunica ha ribadito che “ i paesi che vogliono mantenere relazioni normali e amichevoli con la Serbia, devono rispettare la nostra integrità territoriale”.
La prospettiva di una chiusura serba e dell'allacciamento di relazioni privilegiate con la Russia sembra attualmente piuttosto improbabile, nonostante l'appoggio di Mosca sulla questione del Kosovo, almeno a dar retta ad un recente sondaggio, in cui il 71% dei serbi ha dichiarato che “l'ingresso nell'Ue rimane una priorità, anche se il Kosovo verrà perduto”, ma è certo che Bruxelles corre comunque il rischio di veder congelato per anni il processo di avvicinamento della Serbia.
Alla fine, però, il rischio più grande che corre l'Europa, nella cornice dei nuovi negoziati è che tutto resti come prima, e che il tempo passi senza portare ad iniziativa ed unità.
“Se il Kosovo si dichiara indipendente, la Serbia cercherà di convincere i paesi dell'area a non riconoscerlo, mentre gli Usa faranno di tutto per assicurare questo riconoscimento”, ha dichiarato ai microfoni della BBC Gerald Knaus, direttore dell'influente think tank berlinese European Stability Initiative. “Alla fine si assisterà al ritorno nella regione di tensione ed instabilità, proprio quello che tutti volevano evitare”.
Uno scenario difficile da digerire innanzitutto proprio dall'Europa.