Libertà - Stella Rossa: 3 a 0
03.10.2007
scrive Nicola Falcinella
Un'immagine tratta dal film "Ti ricordi di Dolly Bell?"
Abdulah Sidran, 63 anni, una delle voci più rilevanti della Bosnia di oggi. L’abbiamo incontrato a Bellinzona, dove è stato con Predrag Matvejevic e Ismail Kadarè, protagonista del festival ''Babel'' dedicato alla letteratura e al cinema dei Balcani
Poeta tra i più rilevanti dell’ex Jugoslavia, drammaturgo (il premiatissimo “A Zvornik ho lasciato il mio cuore”) e soprattutto sceneggiatore. Scrisse “Ti ricordi di Dolly Bell?” (1981) e “Papà è in viaggio d’affari” (1985) per Emir Kustirica (ma ricorda che il titolo originale “Otac na sluzbenom putu” andrebbe tradotto “In viaggio di servizio” perché “nel ’49 nessuno in Jugoslavia andava in viaggio d’affari”), poi “Kuduz” e “Il cerchio perfetto” (1996, il primo film girato a Sarajevo dopo l’assedio) per Ademir Kenovic e altri film minori. È Abdulah Sidran, 63 anni, una delle voci più forti della Bosnia di oggi. L’abbiamo incontrato a Bellinzona, dove è stato con Predrag Matvejevic e Ismail Kadarè, protagonista del festival “Babel” dedicato alla letteratura e al cinema dei Balcani.
Sidran, come è nata la sua passione per il cinema? E come è stata la sua formazione al mestiere di sceneggiatore?
Italia ed ex Jugogoslavia si somigliavano. Dopo la Seconda Guerra mondiale c’erano solo 2-3 posti dove la gioventù poteva raccogliersi e trovare aggregazione. Una era il locale da ballo, l’altra era il calcio, e ogni giorno il riferimento non poteva che essere il cinematografo. E, dagli anni ’40 all’inizio dei ’60, succedeva che ogni film che arrivava in città finivamo col vederlo dieci volte.
La frequentazione del cinema da spettatore è stata una scuola che ho frequentato senza avere coscienza che sarebbe stata un’esperienza che mi avrebbe segnato. Ci sono altri per i quali la cosa - Emir Kusturica che ha frequentato la migliore scuola di cinema, quella di Praga - si è trasformato in professionalità integrale. Emir leggeva quel che scrivevo e leggendo le storie aveva riconosciuto che io sapevo farle, che conoscevo la tecnica di scrittura di una sceneggiatura. Diceva che ho una straordinaria facilità di scrivere e ambientare le scene di un film che mi viene con ogni probabilità dalla frequentazione delle sale cinematografiche per anni.
Scrivere con facilità dipende dal fatto che uno sa scrivere di quel che conosce, che appartiene al proprio vissuto o della propria famiglia. Questa è stata la mia poetica: dare forma alle esperienze che mi avevano caratterizzato. C’è di mezzo la volontà di Dio e il destino. Per una serie di circostanze le esperienze della famiglia di Kusturica e quelle della mia hanno avuto una convergenza. È stato un elemento determinante nel renderci così affini. Kusturica è più giovane di me di 11 anni e bisogna riconoscere ha saputo fare i due film molto bene, pur con la differenza di età e non avendo avuto le stesse esperienze. Forse era meno segnato dall’identificazione col soggetto. Se li avesse diretti un regista della mia generazione l’effetto sarebbe stato magari serio, ma molto più melodrammatico. Invece Emir è riuscito a dare al motivo guida del film una componente di ironia e persino di grottesco. È questo il modo in cui sono portato a ricordare la nostra collaborazione anche se sono passati molti anni.
Come ha conosciuto Emir Kusturica? Come si è svolta la vostra collaborazione e si è sviluppato il vostro rapporto?
Sarebbe molto lungo raccontare come ci siamo conosciuti, ci sarebbero troppe componenti anomale e bizzarre. Io finisco con l’interpretare questo come volontà di Dio. La collaborazione è stata naturale, è venuta facile. In tempi obiettivamente drammatici e persino tragici, un fratello perde il contatto col fratello, un figlio si stacca dalla madre, un padre si stacca dal figlio e viceversa. È andata così anche nel distacco, come ha voluto Dio. C’è una cosa che mi pare molto importante. Ora mi succede di sognarlo molto spesso. E in questi sogni non c’è nulla che possa essere considerato un cattivo rapporto.
Vi sentite ancora?
Non ci sentiamo più. Per fortuna o purtroppo.
Poi ha scritto per Ademir Kenovic ...
Io e Kenovic siamo figli di famiglie amiche. Sua madre e la mia erano state compagne di scuola. Kenovic si è laureato in inglese a Sarajevo e poi ha fatto due anni di scuola di cinema. Con lui c’è stata un’amicale e del tutto naturale forma di collaborazione.
I due registi hanno stili molto diversi tra loro. Li può mettere a confronto nel modo di lavorare?
Non vado sui set quando girano. Scrivo ma poi non vado a interferire quando un regista mette in scena una sceneggiatura. È molto difficile e non delicato fare un confronto tra due registi con i quali ho lavorato. Tuttavia Kenovic è un regista per il quale non ci sono segreti professionali. Il mestiere del regista non ha segreti per lui. Invece Emir è un vulcano al quale la professionalità sembra dare fastidio, persino nuocere.
Da “Ti ricordi di Dolly Bell” a “Il cerchio perfetto” si avverte una forte componente personale ...
La componente autobiografica è dominante nelle mie storie. Da essa bisogna ovviamente fuggire se si avverte che la cosa può dare problemi all’esito del film e della storia. La componente autobiografica per me è fondamentale: è naturale, non è una scelta, non potrei parlare d’altro perché sono le cose che conosco direttamente.
L’ultima sua sceneggiatura realizzata è il cortometraggio “(A)torzija” del 2003 di Stefan Arsenijevic. Ne scriverà ancora?
Continuo a scrivere sceneggiature, perché ne ho bisogno! Sulla scena internazionale il lavoro più importante recente è il corto “Atorzjia” che ha vinto l’Orso a Berlino ed è entrato nella cinquina per l’Oscar. Per me è un film serio, ottimo come fattura. Però è rimasto nei cassetti e non ha avuto un ruolo rilevante per i nostri spettatori. Non è stato distribuito.
Gran parte dei film bosniaci è realizzata in coproduzione con altri Paesi ...
Nessuno dei film realizzati dopo la guerra è soltanto un film bosniaco. La Bosnia può mettere 200.000 marchi, ma il film ne costa 2 milioni. Il resto è integrato dalla comunità internazionale, dei Paesi europei. C’è anche Marco Muller che è un benefattore e ci aiuta molto e gli siamo molto grati. Le coproduzioni costituiscono una pressione positiva sulle autorità locali affinché investano un po’ di più nel cinema. Ma non falsa secondo me la rappresentazione della Bosnia.
I vecchi film di partigiani continuano ad avere successo. Sono venduti per strada, passano in televisione, i giovani ne parlano. Qual è la ragione?
La nostalgia. Assolutamente. Anche per i giovani. C’è un regista leggendario, di culto, che è morto nell’agosto del ’92 e non siamo riusciti a trovargli le medicine che servivano e i soldi. Era Hajrudin Krvavac, l’autore di “Valter brani Sarajevo” e altri dieci film di questo genere in cui egli ha de-ideologizzato i film di partigiani, ha tolto l’idea dominante di allora avvicinandoli al western. I nostri ragazzini sanno i dialoghi di questi film a memoria.
Cosa pensa del presente e del futuro della Bosnia? È ottimista o pessimista?
Non è bene piangere la propria patria quando si è nella patria di qualcun altro. Però non ho notizie buone da dare. Mi sembra di aver perduto la speranza e non è la cosa migliore. La società che avevamo costruito – con la bellezza della vita comunitaria – è stata distrutta. Da quando sono al mondo mi sento parte della sinistra europea, ma oggi la gente come me è infinitamente triste. Così quando mi fanno queste domande devo sempre cavarmela con una battuta. Poco tempo fa a Spalato su un muro ho visto una scritta di ignoti che mi sembra significativa. Parafrasa uno degli slogan più in voga dell’ex Jugoslavia: “Morte al fascismo. Libertà al popolo”. C’è scritto: “Morte al fascismo. Libertà – Stella Rossa 3 – 0”.