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Bosnia d’Albania

26.10.2007   

Un reportage tra i bosniaci che vivono in Albania. Li chiamano i muhaxhir, che in turco significa profughi. Si tratta di famiglie venute dalla Bosnia Erzegovina cento anni fa e stabilitesi in due villaggi, Boraka e Koxhas, dove risiedono circa 3000 persone. Nostra traduzione
Di Fatos Baxhaku, Gazeta Shqip 7 ottobre 2007 (tit. orig. Me boshnjakwt e Shqipwrisw)

Traduzione per Osservatorio Balcani: Marjola Rukaj


Morbide colline scendono fino al caos dell’autostrada Durrazzo-Tirana. Ai loro piedi, dall’altra parte della strada c’è Shijak. Il baccano che predomina in basso, si spegne a poco a poco salendo per le colline. Qui si trovano due villaggi Boraka e Koxhas. Gli abitanti dicono che in entrambi i villaggi abitano 3000 persone. Se per caso vi trovate da queste parti, tra le viuzze regolari, tra le case circondante da verdi cortili fioriti, vi stupirà la lingua con cui si salutano tra di loro le persone del posto. A volte vi capiterà anche di sentire una lingua fatta di un misto tra una lingua slava e un dialetto dell’Albania centrale, però nei cortili, nei campi, nei caffè e ovunque si sente solo una lingua: la lingua bosniaca. Boraka e Koxhas sono infatti due villaggi di muhaxhir bosniaci che si sono stabiliti da queste parti più di 100 anni fa. Gli albanesi da tempo li chiamano i muhaxhir, che in lingua turca significa profughi.

Nella piccola Bosnia d’Albania, ci accompagnerà Lutfi Duka, “In realtà il mio cognome è Dukaliq, però nei documenti da tempo è rimasto Duka”. La famiglia di Lutfi è arrivata da una cittadina nei pressi di Mostar, che porta il curioso nome di Caplin. Lutfi è vicepresidente dell’associazione “Zambaku”, il giglio, il simbolo di questa comunità, che cerca di mantenere i contatti con la Bosnia e che mira a tramandare la lingua bosniaca presso i propri giovani.

Storie antiche

Nel luglio 1878, l’Impero austro-ungarico raggiunse il suo vecchio obiettivo, impossessandosi della Bosnia Erzegovina, abitata anche da slavi islamizzati. Il congresso di Berlino, che gli albanesi conoscono come il momento in cui i territori albanesi incominciano a frammentarsi, e per lo storico detto di Bismarck “L’Albania non è che un’espressione geografica”, sancì anche il passaggio di questi territori al dominio di Vienna. Per i bosniaci incominciò un periodo travagliato. Erano musulmani sotto un imperatore cattolico. Nel XIX secolo la religione era un indicatore molto importante nell’Impero Ottomano. Spesso prevaleva sull’etnia o sulla nazionalità. Poi tutti gli equilibri immutati per secoli saranno compromessi e in nome delle riforme, avrà inizio un periodo di denazionalizzazione. Molti di loro si sentirono minacciati sin dall’inizio e pensarono di emigrare altrove. Secondo i dati dell’associazione “Zambak” le prime ondate dei muhaxhir, che fuggivano agli shvabi – come chiamavano all’epoca gli austro-ungarici – risalgono al 1878, e pare che siano continuate fino al 1897. Più di 159 mila bosniaci lasciarono la propria terra per stabilirsi in Macedonia, Kosovo, Albania e Turchia. In quei tempi la Bosnia aveva poco più di 600.000 abitanti.

Si può immaginare come si imbarcavano a Cattaro, senza sapere neanche dove andassero. Lasciarono la propria terra con le poche cose che potevano portare con sé. Alcuni anziani dicono che si trattò semplicemente di un’avaria nella nave che fece sì che i bosniaci d’Albania mettessero piede per la prima volta su questa terra. Altri dicono che alcune famiglie sempre della regione di Mostar, avevano deciso di stabilirsi nelle colline vicino a Durazzo, per vari motivi. I primi bosniaci arrivati da queste parti si stabilirono inizialmente vicino alla palude e in seguito iniziarono a popolare le colline dove si trovano tuttora. I boschi, le terre incolte, iniziarono a diventare campi coltivati e i bosniaci ritrovarono la loro vecchia passione: la laboriosità.

Gli albanesi, che li accolsero bene sin dall’inizio, erano affascinati da questi uomini corpulenti, robusti, dalla carnagione chiara, che lavoravano duro dalla mattina alla sera, e dopo si mettevano a intonare delle canzoni malinconiche in una lingua straniera. I muhaxhir insegnarono agli abitanti del posto anche tecniche agricole che migliorarono i raccolti. Dalla Bosnia continuavano ad arrivare altre famiglie e molte ragazze di Mostar sposarono ragazzi bosniaci di Boraka e di Koxhas. I bosniaci diventarono presto parte della vita degli albanesi. Molti di loro si trovarono in prima linea nelle vicende turbolente dell’Albania centrale all’inizio del XX secolo. Dicono che con gli albanesi andava tutto bene. Nel 1936, un ragazzo dei Baçiq ruppe per primo il ghiaccio sposando una ragazza albanese. Da allora questo è diventato normale. Le mogli albanesi imparavano il bosniaco in brevissimo tempo. “Altrimenti come facevano a capirsi con il marito, e i parenti?” dicono i bosniaci sorridenti.

Addii e reincontri

Le storie dei Bosniaci di Boraka e di Koxhas sono piene di due parole: addii e reincontri. Addii dagli occhi lacrimanti e reincontri commoventi. Lutfi, il nostro accompagnatore ci racconta la storia della sua famiglia. “La mia famiglia, mio nonno, mio padre e due zii, si stabilirono a Koxhas tanto tempo fa – racconta mentre guarda verso il villaggio – erano di Caplin. Dopo essersi trasferito qui, mio nonno sposò una ragazza dei Sabliqi, un’altra famiglia bosniaca. Ebbero due figli, Ali e Halil. Ma per le dure condizioni di vita, mia nonna morì e il nonno andò in Bosnia a risposarsi e non ritornò più in Albania. Mio padre per parecchio tempo ha pensato che fosse suo padre quello che in realtà era suo zio. Solo nel 1987 il nonno si rifece vivo con i figli che aveva lasciato qua. Aveva avuto un figlio che era morto nella Seconda Guerra Mondiale. Mi ricordo quando venne qui da noi. Dell’albanese ricordava solo qualche parola, bukë, djath (pane, formaggio)… Nel 1981 fu mio padre ad andare in Bosnia. E’ morto a 106 anni. Era tra gli ultimi che ricordava bene come siamo arrivati noi, qui.”

Lutfi tace per un po’. Sembra prendersi tempo per ordinare i ricordi. “Dopo nel 1990 – continua – io e mia madre che è di Scutari, siamo andati in Bosnia a vedere i nostri cugini. Ero molto intimidito perché non sapevo se potevo parlare come si deve la nostra lingua che parlavamo in casa e ovunque ma che non avevamo mai studiato e scritto. Ma mi è passato subito. Ci hanno accolto benissimo e quei giorni in Bosnia tra la nostra gente sono volati in un batter d’occhio. Abbiamo anche dovuto posticipare la partenza perché una nostra parente si era offesa perché non avevamo programmato di andare anche da lei. E’ stata un’accoglienza che ricorderò per tutta la vita”. Poi Lutfi ci racconta dell’incontro con Alija Izetbegovic nel 1998, quando sette bosniaci albanesi sono andati a trovarlo a Sarajevo. “Trovava incredibile che avessimo conservato la lingua e l’identità bosniaca dopo tanto tempo”.

Le ombre del massacro

A casa dei Klariq, regna il silenzio, ma basta bussare alla porta per sentirsi il famoso invito: Hajde bujrum! E’ l’ora di pranzo e non vogliamo disturbare il vecchio Ramadan Klariq, 84 anni. “Non vi preoccupate dice, noi non abbiamo orari di ricevimento per gli amici”, ci accoglie all’entrata della casa. Ramë Klariq era un agricoltore come la maggior parte dei suoi connazionali del villaggio. Ma non sembra insoddisfatto della propria vita da agricoltore. “Il lavoro ci ha fatto andare avanti. Noi da queste parti anche quando abbiamo avuto grossi affanni non abbiamo mai trascurato il lavoro.” La storia dei Klariq è simile a quelle di altre famiglie del villaggio, la stessa nave che non si sa perché fu ancorata a Durazzo, le stesse peripezie dei primi tempi nelle capanne fatte di alberi tagliati, lo stesso sforzo immane per procurarsi la terra nei colli intorno.

Mentre prendiamo il caffè, la conversazione va da sé verso i dolori più recenti che hanno afflitto la loro terra d’origine. “All’inizio non potevamo crederci. Non potevamo credere che la follia e l’odio potessero spingersi fino a questo punto. La nostra gente aveva convissuto in pace sia con i serbi sia con i croati. Era evidente quando siamo andati a trovarli prima degli anni ’90 in Bosnia. Avevano persino amicizie di lunga data e rapporti reciproci. Avevamo anche incontrato molti di loro. All’improvviso tutto è cambiato”. Lutfi sospira esprimendo la sua impotenza ad afferrare i meccanismi sinistri che hanno trasformato in inferno la sua terra.

Lutfi inizia a menzionare i cugini che sono rimasti vittime del lungo conflitto. “Un mio cugino dei Sinjari è morto in guerra, un mio cugino dei Meshiq è stato deportato in un campo di concentramento. Prima era un omone gigantesco di 126 chili poi quando è uscito dal campo si era ridotto ad un pugno di ossa, pesava solo 46 chili. I familiari lo hanno riconosciuto a stento. Quando abbiamo visto che la situazione stava diventando sempre più critica, li abbiamo invitati a venire qua da noi, ma non hanno potuto lasciare il paese. Sono rimasti lì per tutta la durata di quella follia sanguinaria. Noi non sapevamo come aiutarli, eravamo tutti inchiodati davanti alla televisione. E’ stato un periodo tragico”.

Dai Kapitanoviq

Abdulla Kapedani è un professore di agraria molto conosciuto. Da anni ha lasciato Tirana preferendo vivere nella terra in cui si sono stabiliti i suoi antenati, nel lontano 1875. Il nonno del professore si stabilì in questa terra insieme a due fratelli e una sorella. Anche per i Kapetanoviq era incominciata l’avventura albanese. Hanno fatto parte della storia che li ha legati con la gente del posto con cui non hanno mai avuto alcun problema di convivenza. Il professore è uno dei numerosi bosniaci altamente istruiti che oggi svolgono le proprie attività sparsi in tutta l’Albania. Sono in molti gli insegnati, i giornalisti, gli sportivi e gli artisti rinomati che da questi villaggi hanno fatto molta strada. Ma sembra che l’agricoltura sia stata la loro prima occupazione.

In questo villaggio si ricordano ancora di una donna che aveva lasciato a bocca aperta alcuni esperti bulgari con le sue profonde conoscenze sull’elaborazione del tabacco. Quando hanno lasciato la Bosnia hanno portato con sé un’antica tradizione bosniaca. Si dice che in Bosnia questo non si sappia più, ma a Boraka la tradizione continua. Si dice che uno dei bulgari abbia detto all’agricoltrice Hava Kapetanoviq: “Tu devi essere bosniaca, non è possibile che si conosca qua questa tecnica!”. In tutta l’Albania poi è famosa la varietà dei pomodori di Koxhas che viene tuttora coltivata in questa terra.

Il professore ci accoglie all’entrata del suo giardino ben tenuto. E’ un tipico bosniaco di queste parti, dalla corporatura robusta, dai capelli ormai bianchi e gli occhi chiari che gli brillano attraverso gli occhiali. Si saluta con il nostro accompagnatore in bosniaco e ci invita tra le piante in fiore del suo giardino. I fiori sono un altro amore per cui i bosniaci sono conosciuti in Albania, si trovano dappertutto in questo villaggio come se facessero anch’essi parte di questa minoranza.

La famiglia del professore era originaria di Pocitelj sempre nei pressi di Mostar. Il nonno morì nella guerra di Scutari nel 1913. “Nel 1936 mio padre sposò mia madre che era venuta per lui dalla Bosnia. Ebbero sette figli. Lei ci trasmise la lingua e le tradizioni e anche l’amore per i fiori. Io iniziai a imparare l’albanese solo quando iniziai ad andare a scuola. Fino alla prima elementare non sapevo neanche una parola in albanese. Poi ho trascorso una vita normale come tutti i bambini albanesi. Ma non ho mai abbandonato né la lingua né il ricordo dell’identità, della nostra origine comune in questo villaggio.” La casa del professore è piena di oggetti che fanno pensare alla Bosnia. Una grande bandiera della Bosnia Erzegovina sulla parete di fronte a noi, poi quadri, tantissimi quadri, Pocitelj, Mostar, moschee, castelli, viuzze antiche. Sembra che non siamo più a Shijak ma da qualche parte nelle vicinanze di Mostar.

“Nel 1990 sono andato per la prima volta in Bosnia. Ci sono rimasto per tre mesi. Ho ancora dei cugini da parte di mia madre, e anche da parte di mio padre, dei Kapitanoviq.” Ci mostra un album di fotografie mentre ha l’aria pensierosa. “Quando è incominciata la guerra in Bosnia sono stato letteralmente per tre anni con il fiato sospeso. Tutta la mia famiglia di là ha patito gravemente quella dannata guerra.” Dice mentre riesce a malapena a trattenere le lacrime.

I giovani bosniaci

Nella famiglia degli Cigiq, ci accolgono molto amichevolmente. Avevamo conosciuto questa famiglia anni fa. I Cigiq sono conosciuti per aver accolto e ospitato molti bosniaci durante la guerra in Bosnia. In casa sono allegri, anche perché Astrit, uno dei loro figli che vive e lavora in Italia è tornato per qualche giorno a casa. Astrit non sembra avere molta voglia di raccontarci di come ha aiutato tanti suoi connazionali che fuggivano dalla guerra. “Non abbiamo fatto niente di straordinario – dice - io all’epoca lavoravo a Tirana, dove vivono molti bosniaci che vi si sono trasferiti da molto tempo. Così ho avuto modo di vedere i bosniaci che venivano dalla Bosnia senza sapere dove andare. I primi che ho incontrato erano due ragazzi che sono venuti nel 1992, poi sono venuti anche molti altri. C’è stata anche gente di Srebrenica. Erano tutti disorientati. Una coppia l’ho conosciuta per caso a Tirana. Poi sono partiti per la Svezia dove avevano famiglia. Ma come noi c’erano anche molte altre famiglie in questo villaggio.”

In casa ci sono le nuore e nipoti, mentre la nonna della casa prepara il burek, tipico dei bosniaci. Agim Faja, un famoso pittore di Shijak scriveva nelle sue memorie di come fosse rimasto affascinato da questo burek, la prima volta che l’aveva mangiato. “Volevo sempre quello che preparavano nelle case bosniache, solo le donne bosniache sanno prepararlo come si deve”. Vicino al nonno c’è anche il nipote, Amel, che quando gli chiediamo che classe fa ci risponde nella propria lingua, ma poi si corregge in albanese, “faccio la terza”. Ormai i bambini bosniaci frequentano la scuola nella propria lingua, che è stata aperta solo di recente. Una delle bambine ci recita in bosniaco quello che ha imparato a scuola, mentre il nonno sembra commosso per la gioia, con lo sguardo tra la nipotina e il giglio bianco bosniaco.
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