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Romania: bagliori ad Est
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Data pubblicazione: 05.11.2007 12:22

È la “nuova” frontiera di un cinema sempre alla ricerca di novità, ma la Romania non sbuca dal nulla. Un lungo approfondimento a cura di nicola Falcinella pubblicato sulle pagine di ''Cinecritica''
Un saggio che ripercorre vicende e protagonisti della cinematografia rumena, affermatasi di recente in seguito ai riconoscimenti ottenuti in ambito internazionale. Un’escalation che inizia con la de-localizzazione verso la Romania delle location di produzioni americane ed europee, e prosegue grazie al talento dei nuovi cineasti. Dai nomi del passato (Pintilie, Mihaileanu –autore di “Train de vie”, Daneliuc) alla generazione emergente (Porumboiu, Puiu, Munteanu, Nemescu per citarne solo alcuni) uscita dall’Università nazionale di teatro e cinema “Caragiale”. Un cinema che racconta la Romania e le sue contraddizioni, una generazione di registi che si fa interprete dei cambiamenti che attraversano la società.

Da “Cinecritica” n. 46-47 aprile – settembre 2007 pagine 38 - 47


È la “nuova” frontiera di un cinema sempre alla ricerca di novità, ma la Romania non sbuca dal nulla. Una manciata di titoli premiati negli ultimi anni e la Palma d’oro a Cannes 2007 hanno portato all’attenzione generale la nuova leva di un Paese che sembrava rimasto fuori dai movimenti che negli ultimi anni avevano attraversato nazioni vicine del sud-est Europa, dall’Ungheria alla Serbia, dalla Slovenia alla Macedonia alla Bosnia. Nel 2000 la Romania non aveva prodotto nessun film, tra il 2001 e il 2002 cominciò a farsi notare dai più attenti con gli esordi di Cristi Puiu e Cristian Mungiu. Ma nel 2003 con il premio speciale della giuria di Locarno alla dura storia di donna “Maria” di Calin Netzer (e miglior attore all’interprete maschile Serban Ionescu), il premio della Cinéfondation di Cannes al corto “Calatorie la oras – Un viaggio in città” di Corneliu Porumboiu e nel 2004 con la Palma d’oro per il miglior cortometraggio a “Trafic” di Catalin Mitulescu confermò che stava nascendo una “scuola”. Intanto la delocationizzazione (la delocalizzazione delle location in luoghi sempre meno costosi) spostava da Budapest e Praga verso Bucarest (e Sofia) set di produzioni americane ed europee. Così in Romania dal 2002 in poi sono stati girati “Cold Mountain” di Anthony Minghella con Nicole Kidman e Jude Law, “7 Seconds” (2005) di Simon Fellows con Wesley Snipes, “Modigliani” di Mick Davis, “Amen” di Costa-Gavras e “Callas Forever” di Zeffirelli. Ci sono tre studios importanti che hanno costruito teatri di posa attrezzatissimi nei dintorni di Bucarest e a costi convenienti.

Nel frattempo tra i paesi europei, la Romania ha il minor numero di cinema (70, 0,4 ogni 100.000 abitanti) e di spettatori (0,2 biglietti per abitante in un anno). La produzione dai 35 film del 1983, è passata 3-4 l’anno nei ’90 e nel 2006 è stata di dieci film.

Per lo spettatore occidentale Romania voleva dire Lucian Pintilie e Radu Mihaileanu, ovvero due cineasti trasferitisi in Francia. Il primo esploso negli anni ’60, autore di due film fondamentali (“Domenica alle 6” e “Ricostruzione”) e altri due nel decennio successivo prima di dedicarsi solo al teatro per sfuggire al boicottaggio di Ceasescu che aveva tenuto bloccato “De ce trag clopotele, Mitica?”. Pintilie è ritornato da protagnista sulla scena negli anni ’90 con “La Chene” (1992), “Un’estate indimenticabile” (1994), “Terminus Paradis” (1998), “Il pomeriggio di un torturatore” (2001) e “Niki e Flo” (2003), un quadro impietoso di una Romania in bilico tra gli odi del passato e le macerie del presente. I suoi film – il suo far uscire allo scoperto il male dentro l’uomo – sono stati in alcuni casi distributi in Italia e la Mostra di Pesaro ha presentato una sua retrospettiva. Abbastanza nota è anche l’opera di Mihaileanu, attore di teatro, poi aiuto regista di Marco Ferreri (per “I Love You” e “Come sono buoni i bianchi”) e Fernando Trueba, che debutta nel lungometraggio nel ’93 con “Trahir – Tradire”. Raggiunge il successo nel ’98 con la risata che esorcizza l’Olocausto di “Train de vie”, sospeso fra umorismo yiddish, storia e dramma. La pellicola, che racconta il tentativo di fuga dai nazisti da parte degli abitanti di un villaggio di ebrei nell’est Europa, anticipò “La vita è bella” di Benigni nel trattare la storia dolorosa con i mezzi della fiaba e della risata commossa. Autore eclettico e capace di toccare con sensibilità le corde del sentimento, Mihaileanu ha poi realizzato in Africa due lavori: “Ricchezza nazionale” e “Vai e vivrai”.

Il primo rumeno destare attenzione era stato Liviu Ciulei, regista teatrale e attore che con “Padurea spanzulatilor - La foresta degli impiccati” era stato premiato a Cannes nel 1965. Ricordati Mircea Veroiu (“Dincolo de pod – Oltre il ponte”, “Sa mori ranit din dragoste de viata – Morire ferito dalla voglia di vivere”, “Adela”) tra la metà dei ’70 e metà degli ’80, Dan Pita (“Cuncurs – Il concorso” nel 1982) e Mircea Saucan (morto nel 2003 dopo che si era trasferito in Israele), l’altro regista notevole – e ancora attivo e creativo – è Mircea Daneliuc. Da “Cursa – La corsa” (1976) a “Sistemul nervos – Sistema nervoso” (2005) passando per “Proba de microfon – Prova microfono” (1980), “Croaziera – La crociera” (1981), “Glissando” (1984), “Patul conjugal” (1993), “Senatorul melcirol – Il senatore delle lumache” (1995), “Ambasadori cautam patrie – Ambasciatori cercano patria” (2003), Daneliuc ha spesso aggirato con l’ironia e l’irrisione le maglie del regime. Scrittore e regista teatrale, Daneliuc è stato anche alla Mostra di Venezia. Gli ha dedicato un omaggio dentro il festival triestino “I 1000 occhi” nel 2005 Sergio Grmek Germani che con Mila Lazic aveva curato nel 2001 la retrospettiva “Romania, ricostruzioni della lacrima” per Alpe Adria, la più corposa e organica panoramica del cinema rumeno fatta finora in Italia.

Dal 2001 emerge la nuova generazione. È l’anno dell’esordio nel lungometraggio di Cristi Puiu, pittore che ha anche vissuto in Svizzera, con “Stuff and Dough”, un road movie macchina a spalla con uno stile documentario presentato a Cannes (Quinzaine des realisateurs). La stessa sezione del festival francese l’anno dopo lancia “Occident”, opera prima di Mungiu. Un film ambientato in un cimitero che narra le vicende di persone intenzionate a lasciare il paese natale, che offre loro poche prospettive. Mungiu viene quindi notato e chiamato per un segmento (dal titolo “Turkey Girl”) del collettivo “Lost and Found” affidato a sei giovani dell’Europa dell’est (tra gli altri ci sono la bosniaca Jasmila Zbanic e l’ungherese Kornel Mundruczo).

I nomi fatti – Porumboiu, Mitulescu, Mungiu, Puiu e Netzer – sono i più in vista del gruppo. I punti in comune tra loro sono pochi, se non l’essere nati tra il 1966 e il 1975, l’aver avuto esperienze di diverso tipo anche all’estero. Questo perché non c’è un movimento o un vero momento di svolta. I giovani cineasti si conoscono perché l’ambiente del cinema rumeno è piccolo. Porumboiu, Mitulescu e Mungiu, ma anche Cristian Nemescu (morto nell’agosto 2006 a soli 27 dopo aver completato le riprese di “California Dreamin’ – Endless”), hanno frequentato la stessa scuola di cinema – l’Università nazionale di teatro e cinema “Caragiale”, l’unica davvero importante del Paese – ma in corsi diversi. Se sono arrivati a maturare insieme e a fare i conti con il regime comunista e il superamento della dittatura di Ceausescu si deve più a un’evoluzione generale della Romania, a un’elaborazione popolare di cui i registi si sono fatti interpreti.

Elementi che tornano in quasi tutti i film realizzati negli ultimi anni sono l’89 e la presenza della televisione e come questa influenzi le trasformazioni e le riflessioni. L’unico che non affronta questi temi è forse il più bello di tutti – ma è un caso - “La morte del signor Lazarescu” di Cristi Puiu, vincitore a Cannes nel 2005 della sezione “Un certain regard”. Racconta, quasi in tempo reale (dura tre ore), gli ultimi momenti di un anziano qualunque. Dal malore in casa si passa al peregrinare per Bucarest alla ricerca di un ospedale che lo possa accogliere e di un chirurgo che lo possa operare. Fino alla morte, assistito solo da una premurosa infermiera. Un’Odissea notturna, una pellicola a fisarmonica dei sentimenti: da un inizio molto intimo si passa a un lungo momento corale fino a una conclusione molto asciutta, essenziale e sottovoce. Anche l’uso dei rumori esterni aiuta a rendere questo viaggio notturno verso la morte di un anziano come tanti, tra lacune del sistema sanitario e indifferenza generale. Solo una sconosciuta infermiera (Luminita Gheorghiu) lo veglia nell’agonia, mentre la macchina da presa sta vicina all’incredibile attore (Ioan Fiscuteanu) e fa partecipare lo spettatore a un’esperienza intensissima. Con uno stile solo in apparenza semplice, con un’umanità rara e preziosa, Puiu fa il ritratto di un Paese di contraddizioni, usa la sofferenza non per impietosire ma come specchio del disinteresse, delle frustrazioni generali, delle ansie collettive. Sa raccontare sia l’uomo solo sia la società che lo abbandona.

Del 2006 sono tre opere molto simile nel tema, la rivoluzione dell’89, quanto diverse nello stile: “Hartia va fi alabastra – The Paper Will Be Blue” di Radu Munteanu, “The Way I Spent The End of The World” di Catalin Mitulescu e “A-fost sua na- fost – 12.08 Est di Bucarest” di Corneliu Porumboiu. Quest’ultimo è l’unico, in attesa di “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni”, che ha avuto una distribuzione italiana.
Il compatto e forte “Paper Will Be Blue”, opera seconda di Radu Munteanu, è tutto ambientato nella notte del 21 dicembre che precedette la “rivoluzione” contro Ceausescu, seguendo una pattuglia di soldati e la loro contrapposizione alla Militia. La notte prima della rivoluzione in un film scuro, claustrofobico, ambientato per lo più in un tank o in locali – prigione molto piccoli. Una pellicola corale, di piccoli eroi, con un finale terribile solo suggerito anche se sorge il sole. Un film solido e coraggioso, anche se la difficoltà di identificarsi nei personaggi (a lungo sono a stento riconoscibili per via del buio) e la necessità di un minimo di infarinatura su quel che accadde in Romania nel dicembre '89 pesano forse a suo sfavore. La pavidità e l’arroganza dei superiori, la dedizione – e la vicinanza ai sentimenti del popolo – da parte dei soldati sono gli elementi su cui si basa il regista in una notte di equivoci e pericoli.

La commedia amara, anzi amarissima, “A est di Bucarest” di Corneliu Porumboiu, che ha vinto la Camera d’or per l’opera prima a Cannes 2006, cerca di estrarre la verità da tre “reduci”. Un film che ragiona sulla “rivoluzione” del dicembre 1989 che portò alla fine del governo di Ceausescu. C’è stata davvero la rivoluzione? si chiedono i tre protagonisti, tre uomini di mezz’età che si trovano nel sedicesimo anniversario dei fatti a provare a darsi una risposta. Ci si interroga, si ride tanto e ci si fa raggelare nel finale, non solo perché siamo a dicembre e cade una leggera nevicata. Come i fiocchi anche le parole del personaggio che chiosa paiono leggère (“era bella, calma”) ma parla di una rivoluzione che forse non c’è stata. Il dubbio resta e non basta il comicamente triste confronto televisivo fra i tre uomini. Piscoci è un anziano pensionato che vive solo e si prepara a trascorrere in solitudine, con rare visite della vicina, un altro Natale. Manescu è un professore di storia con dei debiti da pagare. Jderescu ha fatto carriera dopo l’89: da operaio tessile è diventato proprietario di una televisione locale in una città ignota, che non è né Timisoara né Bucarest. Dopo un’iniziale presentazione dei tre protagonisti, il film si svolge per un’ora e un quarto dentro lo studio televisivo, quasi in un’inquadratura unica frontale del tavolo spartano a cui sono seduti i tre per il confronto. I battibecchi e gli scontri fra i tre, ma anche le distrazioni di Piscoci – che fa cadere oggetti e costruisce aeroplani di carta mentre gli altri parlano - non fanno accorgere allo spettatore della fissità della scena. Una trovata del regista (che ha ricevuto diversi premi per i suoi precedenti cortometraggi) è quella di assumere come punto di vista quello della telecamera della tv, mossa da un cameraman alle prime armi, con le conseguenze (sballottamenti, inquadrature sbagliate, lamentele del presentatore) che ciò comporta. L’attenzione è però su quel che dicono i tre e gli ascoltatori che telefonano in diretta. Tutti affermano di aver avuto un ruolo nella “rivoluzione”, di essere scesi in piazza prima che Ceausescu fuggisse, ovvero di aver avuto coraggio prima che il cambiamento fosse inarrestabile. Alla determinazione di chi si vuole accreditare come “rivoluzionario”, come Manescu, si oppone quella di chi li vuole sbugiardare, con testimonianze che paiono precise ma anche con diffamazioni di bassa lega. Resta l’amaro in bocca per una verità che non esce e perché del cambio di regime hanno approfittato i furbi e i manipolatori.

“Cum mi-am petrecut sfarsitul lumii – Come ho festeggiato la fine del mondo” di Catalin Mitulescu è un’opera di un regista esordiente e anche in questo caso la materia è lo storico cambiamento di regime dell’89. Il punto di vista diventa, in diretta seppure da una posizione periferica, quella di un bambino. E la morale di Mitulescu è diversa da quella di Porumboiu: la protagonista Eva finisce come hostess su una nave da crociera e nel finale parte su un’imbarcazione illuminata come un albero di Natale. E l’ovest finalmente raggiungibile sembra il paradiso. La storia è quella della diciassettenne Eva (la brava Dorotheea Petre) e di suo fratello Lalalilu. La prima viene cacciata da scuola per aver travolto, giocando con un amico, un busto di Ceausescu. Il piccolo, 7 anni, si convince che ci sia proprio il presidente comunista dietro l’allontanamento di Eva. Così immagina come “punire” il leader del partito. In parallelo si sviluppa la ribellione e il momento più bello è quando gioco e realtà si sovrappongono e Mitulescu, senza usare repertorio o ricreare fuga, arresto e uccisione di Ceausescu, affida tutto all’immagine folgorante di un’auto incendiata da Lalalilu e i suoi amichetti.

Al filone iper-realista di Puiu e Munteanu appartiene “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni” di Cristian Mungiu, un film che non si dimentica: durissimo, teso, spiazzante. Le protagoniste sono due studentesse che vivono in una residenza universitaria nella Romania del 1987 sotto Ceausescu. Parlano, Gabita resta nella sua stanza, Otilia va nelle stanze delle altre compagne e si prepara ad uscire. Il film si dipana a poco a poco, svia lo spettatore su false piste, non si lascia scoprire. La macchina a mano crea tensione, i piani sequenza con i dialoghi mai scanditi da tagli di montaggio rivelano la bravura delle interpreti Anamaria Marinca (che è pure nel cast di “Youth Without Youth” che segna il ritorno alla regia di Francis Ford Coppola con un’opera tratta dal libro di Mircea Eliade e girata in Romania) e Laura Vasiliu. A metà film si capisce a cosa serva quella stanza doppia d’albergo che una cerca di prenotare. La mora Gabita deve abortire un feto che ha il tempo del titolo. Arriva da loro un uomo, “consigliato” da un’amica e compie la pratica. La bionda Otilia, attraverso la quale sono seguiti i fatti deve far sparire il corpicino una volta espulso. Mungiu (che ha detto di essere contro l’aborto, ma soprattutto di aver voluto mostrare le conseguenze delle scelte che le persone compiono) non risparmia il dettaglio “lynchiano” del feto insanguinato sul pavimento, ma senza compiacimento. Mostra il dolore delle due, l’irrimediabilità di una scelta. Il tema, più che l’aborto, è l’amicizia: un legame che arriva fino in fondo, fino a sotterrare nel segreto uno dei gesti più estremi degli esseri umani. La pellicola non è pessimista come sembra, è un pugno nello stomaco ben dato grazie anche alla tecnica del “pedinamento” dei personaggi cara ai fratelli Dardenne.

L’altra sorpresa dell’ultimo Cannes è l’esordio “postumo” di Cristian Nemescu, “California Dreamin’ – Endless (Senza fine)” dal titolo della celebre canzone. Il regista, segnalatosi già con alcuni corti molto belli, è morto poco dopo aver terminato le riprese del film che è stato montato secondo i suoi desideri, anche se il “senza fine” del titolo esprime - per il produttore - che il fatto che Nemescu avrebbe magari cambiato qualcosa. Il risultato è una pellicola corale di due ore e mezzo molto intensa. Cinque giorni in un paesino della Romania nel maggio 1999, durante i bombardamenti Nato sulla Serbia. Un treno con attrezzature dell’esercito americano deve transitare, ma il sindaco del villaggio non gli concede il permesso in assenza di un’autorizzazione scritta. I marines si fermano in paese, tra feste e ragazze con il sogno di andare a vivere negli Usa. Per la giovane Monica (Maria Dinulescu, un’altra delle giovani attrici emergenti) è l’occasione per crescere e capire quello che desidera nella vita smontando le false illusioni. Per il padre, che dominava il villaggio con la sua arroganza, è il momento della resa dei conti. Nemescu aveva senso della leggerezza e del tragico, della fantapolitica e dei piccoli dettagli. Il film lascia un senso di fiducia che la morte prematura dell’autore un po’ attenua. Il regista si era già fatto notare con alcuni corti e il medio "Marilena de la P7", sul tredicenne Andrei che ruba un autobus per far colpo su Marilena, la prostituta di cui si è innamorato.
Tornando a “Maria” (2003) di Calin Netzer, che successivamente non ha ancora realizzato altri lavori, si tratta di una cupa storia stretta tra il disincanto, l’abitudine alle avversità e la forza per sperare in un futuro migliore. Mostra la Romania di oggi attraverso lo sguardo di una giovane madre di 7 figli con un marito alcolizzato che ha appena perso il lavoro. La disperazione la butta sulla strada a prostituirsi con tutte le conseguenze della scelta: la sua vita prende una piega imprevista quando, colta in flagrante, accetta di portare la propria storia in tv.

Storia di amicizia tra studentesse è “Love Sick – Legaturi Bolnavicicase” esordio nel lungometraggio di Tudor Giurgiu, già aiuto regia di Radu Mihaileanu e Lucian Pintilie. Di tutti i titoli menzionati è quello che è andato meglio con il pubblico di casa, anche se solo 21.000 persone l’hanno visto. Del resto nel 2006 sono stati staccati solo 2,8 milioni di biglietti. La vicenda del confronto fra due giovani universitarie di provenienza diversa (la cittadina e la ragazza della campagna), della loro amicizia e del legame omosessuale che si instaura (e di come sono costrette a nasconderlo in una società che non lo accetta) è narrata con leggerezza e attenzione e senza luoghi comuni. Molto brave anche qui le protagoniste Maria Popistasu e Ioana Barbu.
Da menzionare poi l’interessante “Asta e” di Thomas Ciulei e il documentario “Faraonul – Il faraone” del serbo-rumeno Sinisa Dragin sulla figura di un anziano ex prigioniero politico in Siberia che vive come un barbone.

Infine svizzera ma rumena di nascita, e tornata sul delta del Danubio per il suo film d’esordio, è Ruxandra Zenide, rivelatasi con “Ryna” (2005), vincitrice di diversi festival tra i quali Sguardi altrove a Milano. La ragazza del titolo è un’adolescente (di nuovo Dorotheea Petre) non bellissima ma conturbante, e con un’innata predisposizione verso i motori, che vive con il padre gelosissimo e all’antica in un piccolo villaggio di pescatori sul delta. Quando compare un giovane antropologo francese la situazione precipita. La giovane regista evita gli stereotipi e le strade più semplici, sa gestire la carica dirompente e selvaggia del personaggio, insinuandosi insieme nei meandri delle anime e di un paesaggio forte.

Per il prossimo futuro, il nome a cui guardare è Radu Jude, diversi corti alle spalle e un sacco di premi (tra i quali Sundance, San Francisco e Trieste) per “Lampa cu caciula – Il tappo della valvola”, nel quale padre e figlioletto lasciano la casa sperduta nella campagna per andare nella cittadina più vicina a far riparare una vecchia televisione.