Balcani Cooperazione Osservatorio Caucaso
mercoledì 07 settembre 2022 15:11

 

Omarska, 15 anni dopo

14.11.2007   

Lo scrittore e giornalista olandese Chris Keulemans fa un resoconto dei campi creati nel 1992 dalle forze armate di Karadžić appoggiate da Belgrado, ed in particolare della campagna in corso per creare un Centro memoriale ad Omarska, sulle terre ora di proprietà della compagnia Mittal Steel
Di Chris Keulemans, DANI, 15 giugno 2007 (tit. orig. Omarska, 15 godina kasnije)

Traduzione per Osservatorio Balcani: Simone Malavolti


“Voi avete tentato di cancellare un popolo intero, ma ricordatevi: non potrete mai cancellare i nostri ricordi. Quel che avete fatto è il male più grande che potevate farci e vi perseguiterà finché nella vostra coscienza ne esisterà anche una sola traccia. Mantenere viva la memoria del vostro crimine è un nostro diritto e una promessa che facciamo a noi stessi”, Almedina Dautbašić, Srebrenica, 21 Marzo 2003.

È un bel giorno di primavera in Republika Srpska. Kasim, un uomo di bassa statura dallo sguardo intenso, ci mostra il cimitero dove otto giorni prima sono stati seppelliti i resti di 172 corpi senza nome.

Kasim vive nel paese di Kevljani in una casa che sembra una villa messa a confronto con le case limitrofe. Il mese scorso, ci racconta in confidenza, è stato arrestato a causa di un camioncino pieno di cannabis. Sulla strada asfaltata proprio in quel momento si avvicina il postino su un motorino. Si ferma ed estrae lentamente dalla borsa una lettera per Kasim. I due uomini si scambiano qualche parola ed il postino riprende la sua strada. Kasim lo segue attentamente con lo sguardo: “Anche lui! Sì, anche lui era uno dei guardiani ad Omarska... durante la mia prigionia”.

“E ora parlate normalmente?”

“Beh, facciamo come se niente fosse accaduto. Oggi potrei anche tirarlo giù dal motorino, ma mi rinchiuderebbero subito... per quindici anni. In guerra non ci sono leggi. Adesso sì.”

Il cimitero si trova in un prato solo un centinaio di metri più avanti. Qui durante il 2004 è stata scoperta una fossa comune con 456 corpi. Prima della fine della guerra bosniaca, i serbi hanno esumato i corpi delle loro vittime dalla miniera e dai boschi dove li avevano seppelliti, e li hanno poi sparpagliati, spesso a pezzi, in tutti i dintorni. Qui invece c’è solo una scritta in caratteri bianchi, “Grobnica” (cimitero).

Nella primavera del ’92 la pulizia etnica iniziò qui. Oggi questo territorio appartiene all’entità serba di Bosnia Erzegovina. I bosgnacchi (bosniaci musulmani) e i bosniaci croati furono scacciati dalle proprie case e rinchiusi nei campi di Omarska, Trnopolje e Keraterm.

Il 5 agosto 1992 Ed Vulliamy, giornalista del “Guardian” e l’equipe televisiva dell’ITN riuscirono a penetrare in questi posti. Le fotografie del filo spinato e degli uomini pelle e ossa in quei giorni fecero il giro del mondo. Qualche settimana più tardi i campi vennero smantellati. Vi erano passate circa settemila persone. Oggi, 15 anni dopo, i sopravvissuti conducono una dura battaglia con le autorità locali e col maggior produttore di ferro al mondo. La battaglia per l’apertura di un Centro memoriale nel campo di Omarska.

Kasim ci conduce attraverso una strada nascosta, una scorciatoia, fino al gigantesco complesso delle Nuove miniere di Ljubija, ad un "mostro" marrone arrugginito risalente ai tempi del socialismo. Nonostante tutte le mail e gli inviti telefonici, non mi è riuscito ottenere in alcun modo l'autorizzazione per entrarvi né per visitare l'area. Il capo direttore Pedrag Šorga mi ha semplicemente informato che sarebbe stato troppo rischioso a causa degli attuali lavori di riparazione.
Kasim non osa avvicinarsi al complesso per più di centro metri. Non può andare oltre: “Se ci vedessero - dice - chiamerebbero subito la polizia”.

Il fotografo Zijah Gafić e suo padre, ex comandante della polizia nell’Armija bosniaca, si avvicinano fino alla pozza che circonda l'area. Zijah esce dall’auto e fotografa la Casa bianca che si trova ai margini del complesso. Là venivano picchiati e bastonati i prigionieri. E raramente qualcuno ne usciva vivo. I cadaveri venivano portati fuori dall’edificio e caricati sui camion. Sugli stessi camion su cui veniva trasportato anche il cibo per i prigionieri. Un solo pasto al giorno per persona. Quando gli ultimi detenuti ricevettero l’ordine di ripulire la Casa bianca, i muri erano completamente macchiati di sangue. In auto si sente forte l'odore di sudore mentre, con Kasim e Elvis il traduttore, guardo verso la Casa bianca. Tra di loro silenziosamente si lamentano per quel fotografo sfacciato e per i lunghi minuti senza fine in cui Zijah gironzola intorno alla superficie dell’acqua cercando l'inquadratura migliore. Alla fine rientra in auto ed entrambe le vetture tornano indietro oltre la ferrovia, verso quei prati così pacifici.

“Foto inutili” mormora Zijah, dopo che abbiamo riportato indietro Kasim. Una pozza, un edificio bianco, e una fabbrica neanche molto significativa. Nessuno dubita che questa visita fosse necessaria. Dovevamo comunque vedere questo posto. E prendere nota.

Il passato congelato

Perché è così importante? Perché qui l’esistenza si è arrestata. Nei villaggi e per i pascoli intorno a Omarska la memoria si scontra con la negazione, i racconti con il silenzio. Coloro che negano vogliono andare avanti, coloro che ricordano cercano qualcosa per fermarsi e mantenere viva la memoria. Molti serbi che erano nell’esercito o in polizia nel 1992 vivono ancora qua. A loro non serve ritornare con la mente al passato. Finché la Republika Srpska esisterà, si possono sentire relativamente sicuri. Ma è necessario che migliori l’economia e la disoccupazione diminuisca. Questa è la loro priorità. Il nuovo premier Milorad Dodik lavora per questo e la Republika Srpska nel settore è ormai avviata. Rimanere ancorati al passato è una perdita di tempo. Questo è il paradosso di una terra nella quale criminali e vittime vivono intrecciati gli uni agli altri. Tacere e congelare il passato – così si può procedere più velocemente. Parlare troppo del passato – arresta il progresso. Ma, finché questo non sarà possibile, finché questi racconti non verranno ascoltati, il futuro non si avvicinerà neanche di un metro.

Negli ultimi anni sempre più bosgnacchi e croati, sopravvissuti ai campi, sono tornati dall’estero. Nella vicina cittadina di Kozarac, prima della guerra vivevano oltre ventimila persone. Nel maggio del 1992 i serbi hanno circondato, attaccato e dato alle fiamme il villaggio e scacciato la popolazione. “Adesso” dice Teufik Kulašić, membro comunale, “qui vivono nuovamente settemila persone. Di 14 moschee completamente distrutte, ne abbiamo già ricostruite 13”. La strada principale di questo antico borgo è tornata di nuovo ad essere viva. La discoteca Spider è immersa giorno e notte in una luce blu. Accanto alla scuola ristrutturata si trova un campo da pallacanestro totalmente rimesso a posto. Il whisky del Caffè Picadilly ha un buon odore e le case intorno sono state ricostruite con lo stesso stile di prima. C’è anche un internet caffè e Kozarac ha il suo portale internet. Attraverso la pagina web, che cura il “ritornato” Ervin Blažević, gli abitanti di Kozarac, dal 1992 dispersi in ogni angolo del mondo, da Kiev, Amsterdam, Berna e Londra, fino all’America del nord e all’Australia si alzano e vanno a dormire leggendo un pettegolezzo della loro čaršija. Kozarac in soli otto anni si è risollevata dalla cenere. Ma negli stessi luoghi dove la loro vita è cambiata per sempre nell’estate del ’92, i suoi abitanti non sanno più cosa cercare.

In una ex-fabbrica di piastrelle nel villaggio industriale di Keraterm al margine della principale città della regione, Prijedor, tra i veicoli del parcheggio si trova una targa. C’è scritto che in questo luogo alcuni uomini hanno perso la vita. Non vi è alcun numero, alcun nome, alcuna origine. Sembra che la fabbrica di lacca Max Meyer, da quando ha cambiato proprietario, non vada molto bene. Dietro il terreno silenzioso della fabbrica, sotto gli alberi fioriti, fa la guardia disteso un cane legato ad una catena.

I muri bianchi della Casa della Cultura (Dom Kulture) di Trnopolje sono ricoperti di fuliggine. Alle finestre più alte mancano i vetri e sopra al vecchio palco c’è ancora scritto in caratteri rossi: “Viva il Partito Comunista e il compagno Tito”.

Nell’edificio e nei prati che si trovano dietro, i serbi hanno tenuto rinchiusi migliaia di persone: “Di notte”, ci racconta una donna che è sopravvissuta, “le guardie camminavano intorno e picchiavano gli uomini o sparavano a coloro che dormivano. Oppure entravano nella parte delle donne e facevano l'appello delle ragazze più giovani. Costrette ad andare con loro, alcune ritornavano, violentate e torturate, altre no”.
Soltanto la parte anteriore dell’edificio è stata riparata. Il segretario Željko Karajić fino a due mesi fa proprio qui possedeva un caffè. Sui tavoli rozzamente intagliati ancora oggi ci sono delle bottiglie vuote. Davanti all’edificio si trova un’aquila nera con una croce ortodossa in ricordo dei militari serbi caduti durante la guerra.

La porta della miniera di Omarska, dove sono stati rinchiusi alcuni dei bosgnacchi e dei croati più conosciuti della regione di Prijedor, viene aperta soltanto due volte all’anno per i sopravvissuti e per le loro famiglie. Si riuniscono qui il 6 agosto, il giorno in cui il campo è stato smantellato.

Anche Ed Vulliamy è stato qui nel 2004. Adesso che la miniera è tornata in funzione, sembra che il suo incubo diventi realtà: “che Omarska come prova tangibile di quel che è stato, sparisca; che le camere nelle quali le donne sono state violentate, vengano risistemate; che la mensa dove gli uomini aspettavano in fila per un piatto di zuppa insipida, offra ai lavoratori pasti in fretta e furia; che il cortile in cemento dove molti uomini furono massacrati, diventi un parcheggio per scintillanti Škode; che l’hangar dove gli internati se ne stavano rannicchiati gli uni contro gli altri, torni ad essere nuovamente un deposito; che la Casa bianca e rossa, dove gli uomini sono stati fatti a pezzi e torturati fino alla morte, vengano demoliti o riutilizzati come magazzini per gli attrezzi”.

I quattro di Omarska

Il tribunale della Bosnia Erzegovina si trova a pochi chilometri dal centro di Sarajevo. In aula dietro al banco siede un giudice dall’aspetto annoiato. Al centro della stanza davanti al suo tavolo c’è il plastico del campo di Omarska. Tra il pubblico siedono sei uomini, di cui tre stranieri. Prima dell’inizio del processo gli avvocati con la toga nera chiacchierano con i loro clienti, masticando chewing gum.
Momčilo Gruban, soprannominato Čkalja, un quarantenne col naso lungo e con le sopracciglia costantemente alzate, ci osserva per vedere se anche oggi tra di noi ci sono belle donne. Le ricercatrici del BIRN, ufficio che indaga quotidianamente sul processo, non sanno però cosa farsene dei suoi continui tentativi di flirt. Gruban, fabbro, ad Omarska era a capo del terzo turno di guardia. I detenuti che dovevano andare al bagno durante il suo turno rischiavano pesanti bastonate o la morte immediata, semplicemente perché le guardie volevano avere un colpevole per il cattivo odore proveniente dai bagni.

Dušan Fuštar aveva lo stesso lavoro a Keraterm. Si tratta del più anziano dei quattro: calvo con baffi e gli occhi di traverso, ricorda il dentista del film Il Maratoneta. Lui e i suoi uomini colpivano i prigionieri con mazze da baseball e cavi di ferro, o li torturavano con lame affilate.
Duško Knežević, uno dei quattro, sembra ancora un criminale. Calvo e tronfio, nel suo abito grigio chiaro, che gli veste troppo stretto sulle spalle, con occhi che suggeriscono che ci sappia fare con i bambini. Ride placido a qualsiasi battuta dell’avvocato di Fuštar che sotto la toga porta dei jeans e una giacca di pelle.

Prima della guerra faceva il cameriere e ad Omarska non ricopriva alcun incarico. Durante la guerra era però libero di entrare dove voleva e fare quel che più desiderava. Rompeva le ginocchia degli internati a colpi di mazza da baseball. Utilizzò un bastone con la punta metallica per colpire padre e figlio, per poi costringerli a leccare il proprio sangue dalle mattonelle. Il giorno successivo entrambi morirono per le ferite riportate.

Questi sono soltanto alcuni episodi di una lunga serie di fatti sanguinari di cui prende nota il procuratore australiano durante le testimonianze. Dal suo ufficio, a sinistra dell’aula di tribunale, i testimoni per la prima volta guardano negli occhi i loro carnefici. I quattro accusati ascoltano appena quello che viene riportato, lasciando il compito ai loro avvocati che a volte si alzano e contestano le domande considerate troppo emotivamente toccanti. Nella pausa gli avvocati, nei loro abiti slacciati, si accendono una sigaretta davanti all’edificio, ridacchiando cinicamente sotto il sole primaverile.

L'ultimo dei quattro è Željko Mejakić. Prima della guerra faceva il poliziotto e in guerra è diventato comandante del campo di Omarska. È di bassa statura e coi capelli rossicci. Il suo viso inflessibile e il modo in cui sta a sedere durante le testimonianze – gli altri spesso si stirano sulle sedie – gli dà ancora una certa autorità. Quando infine, nell’agosto del 1992, i giornalisti stranieri scoprirono l’esistenza del campo, mentre i giornalisti interrogavano egli rimaneva accanto agli internati.

“Dopo lo smantellamento del campo, rimase un solo gruppo di circa centosettanta persone. Ci ordinarono di descrivere ai giornalisti le condizioni del campo di Omarska così come in quel momento si presentava” racconta Satko Mujagić. “Il 12 luglio alcuni uomini ancora vivi furono gettati su dei copertoni in fiamme. Un uomo fu costretto ad addentare i testicoli di un altro internato. Dal 6 agosto, quando fuoriuscì la notizia al pubblico che esistevano i campi, da subito iniziammo a ricevere due pasti al giorno e dei letti sui quali dormire. Anch’io mentii ai giornalisti dicendo che Omarska non era un campo. “Perché allora sei così magro” mi domandò uno. Prima della guerra infatti pesavo 77 chili, in tre mesi ne avevo persi almeno trenta e riuscivo a malapena a stare in piedi”. Poi con un sorriso amaro conclude : “Ho risposto che ero sempre stato così magro”.

La Casa della pace

Mujagić era uno dei cinque uomini che hanno dovuto ripulire la Casa bianca. Cresciuto a Kozarac, all’inizio della guerra venne richiamato in servizio nell’esercito. Ha combattuto con la JNA (Armata Popolare Jugoslava) sul fronte in Croazia, da cui ha poi disertato. Nel maggio del 1992, dopo l’attacco e “la pulizia” di Kozarac, insieme col padre è stato rinchiuso nel campo di Omarska. In agosto è stato mandato a Manjača nel campo militare locale. Alla fine, grazie all’UNHCR ha raggiunto l’Olanda. Si è laureato in diritto ed al momento lavora nel Servizio per l’immigrazione (IND) per il quale valuta il livello di servizi di frontiera degli Stati dell’Unione europea. Parla l’olandese veloce e senza accento e dà l’impressione di non permettere al passato di sovrastarlo. È sopravvissuto a tre pulizie etniche: “alla prima indesiderata, come occupatore nell’esercito jugoslavo in Croazia, poi come vittima e internato ad Omarska e alla fine come ‘salvatore’ insieme all’IND quando nel 1999 durante la guerra in Kosovo, hanno effettuato un trasferimento da un campo profughi in Macedonia di oltre mille albanesi kosovari in fuga verso l’Olanda”.

È tornato a Kozarac per la prima volta nel 1998, per il funerale di un suo parente ritrovato in una fossa comune. “In quel momento ho pianto di fronte alle rovine della nostra casa”. Oggi dall’Olanda, con l’organizzazione Optimisti 2004 che ha fondato con Ervina Blažević, si occupa di raccogliere offerte per panche, terreni sportivi, per il club di calcio e per gli orfani di Kozarac. “Il Comune di Prijedor tratta Kozarac come la pecora nera, perciò dobbiamo fare per conto nostro”. Ma Mujagić è anche uno dei promotori dell’iniziativa per il Centro memoriale di Omarska.

“Se il centro non apre e Omarska non viene in qualche modo riconosciuta, perdiamo tutti” dice Emsuda Mujagić, sua zia, una serena signora bionda che a Kozarac ha aperto la Casa della pace per le donne che hanno perso i mariti, perché scomparsi o deceduti in guerra. “Così tutto ciò che è successo in questi luoghi, scomparirebbe nella nebbia. Per il momento ci permettono di entrare soltanto due volte l’anno, nel giorno in cui Kozarac è caduta, il 24 maggio, e nel giorno della chiusura del campo, il 6 agosto. Gli altri giorni stando alle regole poste non abbiamo diritto all’accesso”.

Nel caffè di fronte alla Casa della pace siede Edin Ramulić (37) con alcuni fogli ben sistemati. Izvor (Fonte), l’organizzazione che ha fondato nel 1996, pubblicherà presto la terza edizione del libro sugli scomparsi e i deceduti del territorio del comune di Prijedor.

“3.524 sono stati fino ad adesso gli scomparsi registrati per la regione di Prijedor. Mille e duecento uomini non sono stati ancora ritrovati.” Ramulić parla volentieri, con il suo sguardo vivo. “Omarska viene ignorata. Se proprio non devi, là non ci vai. La sua popolazione è al cento per cento serba. Per quanto mi riguarda non dovrebbero toccare niente: né la Casa bianca, né la ‘pista’ [spazio all’aperto, ndt], né la mensa. In una società normale un luogo dove si è dato inizio ad un genocidio, dovrebbe essere lasciato tale e quale come è. Anche il diritto a visitarlo è ormai da tempo regolamentato. Ma questo non è un mondo normale”.

Prima di continuare la campagna per il Centro memoriale ad Omarska, Satko, Emsuda e Edin aspettano che l’Associazione degli internati di Prijedor ottenga la registrazione formale. Presidente dell’associazione è Mirsad Duratović (33), un uomo dalla voce fioca, dai capelli diventati precocemente bianchi e con occhi verdi chiaro. Aveva 17 anni quando è stato rinchiuso ad Omarska. Da Omarska suo fratello minore non ne è mai più uscito vivo. Ha perso ben 16 parenti.

“Qui ho passato una bella giovinezza. Per questo motivo sono tornato dalla Germania. Non avrò pace finché tutti i corpi non verranno ritrovati. La nostra associazione vuole che i veri internati vengano riconosciuti. La richiesta per la registrazione formale è stata consegnata e adesso aspettiamo il permesso” (l’Associazione degli internati Prijedor ’92 è stata nel frattempo formalmente registrata). Alla domanda se esiste il diritto ad un sostegno sociale per gli ex-internati, melanconicamente sorride: “Se vivessi in Federazione forse potrei averne diritto. Ma qui in Republika Srpska, no. Stiamo intrattenendo dei colloqui col premier Dodik a proposito di una qualche forma di compensazione per gli ex-internati. Un uomo soltanto a Banja Luka è riuscito a ricevere una forma di indennità: 5 euro al mese. Non è una questione di denaro, quanto piuttosto di riconoscimento”.

Il compito del sindaco Marko Pavić

La Bosnia Erzegovina è ufficialmente uno Stato. Ma nella pratica, i governi di Sarajevo e di Banja Luka raramente collaborano, nonostante i tanti anni di pressione internazionale. In particolare per quanto riguarda le storie della guerra. Da diverse persone ho saputo che il governo di Sarajevo non sostiene i bosgnacchi nella Republika Srpska, perché significherebbe aiutare anche le vittime serbe in Federazione.

Ogni passo a favore della memoria o del riconoscimento per le vittime dell’altra parte sembra anche un riconoscimento delle proprie colpe. Nel frattempo i monumenti fanno sempre riferimento al racconto della guerra. Una parte del racconto. Questa parte del racconto è ben visibile perché viene posta in vista. L’altra è ancora sommersa. Ogni targa commemorativa che viene messa, o semplicemente non messa, dice qualcosa dell'accesa lotta sulla memoria. Le due principali eredità del periodo in cui questa terra si chiamava Jugoslavia, danno ad entrambe le parti – a quelli che ricordano e a quelli che negano – gli argomenti da estrarre dalle proprie maniche per dimostrare che qualcosa si potrebbe anche cambiare. Questa terra una volta era ricoperta di monumenti. Dappertutto c’era qualcosa che ricordava la lotta comune contro il fascismo. Ma quei monumenti erano anche un capolavoro di equilibrismo: non potevano mettere in cattiva luce nessun gruppo etnico in relazione all’altro. Il "bratstvo i jednstvo" (Fratellanza e unità) di Tito era sacrosanto.

Anche per questo oggi coloro che ricordano non si stancheranno finché i luoghi simbolo dei crimini commessi non verranno caratterizzati, finché non verrà posta una targa commemorativa alla Casa bianca. Anche per questo coloro che negano, soprattutto là dove sono in maggioranza, non vogliono monumenti che contestino il loro racconto. E così, Prijedor e dintorni sono pieni di monumenti. I generali e i soldati che sono caduti per “una Srpska libera” vengono ricordati su cemento e marmo nero nella città dove nel 1992 bosgnacchi e croati vennero condotti nei campi e le loro proprietà saccheggiate e distrutte. Il sindaco del periodo bellico Stakić e alcuni suoi collaboratori sono già stati giudicati all’Aia, ma a Prijedor non esiste senso di colpa.

Davanti all’edificio amministrativo della miniera si trova il busto dello psichiatra Rašković, uno dei fondatori del partito nazionalista SDS. Le vittime della pulizia etnica del 1992, invece, devono accontentarsi di una targa senza nomi dietro il parcheggio di Keraterm e di un cartello in legno piantato nell’erba a Kevljani. Chi raddrizzerà questa ingiustizia? È arrivato il momento di parlare con l’attuale sindaco.

Marko Pavić porta avanti entrambe le interpretazioni ereditate dall’ex Stato. È lui che ha inaugurato i monumenti che sono stati eretti. “Noi ci preoccupiamo dei nostri veterani, così come i poteri di Sarajevo dei loro. E il monumento ad Omasrka? In questo caso è troppo presto. Io non lo sostengo. Perché dovrebbe essere fatto qui per le vittime musulmane e croate e non in Federazione per quelle serbe?”

È anche il prototipo della terza tradizione: direttori, sindaci, ministri nei Balcani appartengono quasi sempre alla tipologia di cinquantenni ostili e persistenti. Se si tratta del progresso economico di Prijedor e del soddisfacimento dei differenti criteri dell’UE, Pavić parla con sicurezza, con fervore quasi educato. Non appena gli chiedo perché è stata posta una croce ortodossa per i caduti serbi nel campo dei bosgnacchi e dei croati, si irrigidisce. La sua rabbia fredda dall’altra parte del tavolo diventa subito minacciosa. “Ieri ho pensato tutto il giorno se accoglierla. Ora so di aver preso una decisione sbagliata. Non avete il diritto di pormi certe domande. Né Lei né io sappiamo cosa è successo ad Omarska e a Trnopolje. Io là non ci sono stato, e neanche Lei. I sospettati sono per il momento in tribunale. Finché non verrà accertato chi sono stati i propugnatori e chi le vittime, le persone di Omarska non vorranno un centro memoriale. Solo quando si accerterà la storia, il luogo potrà avere un riconoscimento”.

Durante la guerra, Pavić era direttore delle poste di Prijedor. In un rapporto del 1997 i ricercatori dell’ONU si sono accertati che la posta locale è stata utilizzata per il riciclaggio di denaro durante e dopo gli espropri a Prijedor da parte dei serbi, ma non ci sono prove che sia mai entrato nel campo. Mi accompagna all'uscita dandomi un consiglio: “Domandi ad altri perché ad Omarska bisognerebbe fare un Centro memoriale se a Sarajevo non possiamo avere il permesso per un monumento alle vittime serbe?”

La mattina seguente mi incontro con Muharem Murselović. È la versione bosniaca di Jan Pronk (ex-ministro olandese): idealista che camuffa il suo lungo impegno nella “realpolitik” con esposizioni dettagliate, movimenti fieri e con sorrisi fiacchi mentre smaschera la vera immagine dei suoi oppositori. Murselović dopo la guerra è stato presidente del Consiglio comunale di Prijedor, ma si è dimesso dalla carica quando il Consiglio ha deciso di non cambiare lo stemma della città con le 4C (simbolo nazionalista serbo, ndt.) al posto del precedente stemma con il sole sopra il fiume Sana. Anche lui è stato rinchiuso a Omarska e a Trnopolje, Oggi guida il partito d’opposizione Stranka za BiH [Partito per la Bosnia Erzegovina, ndt].

Domando a lui, allora, perché ad Omarska dovrebbe essere sistemato un memoriale, se a Sarajevo non viene eretto un monumento per le vittime serbe. “Aha!”, esclama. “È stato in visita da Marko Pavić! Questa è la sua solita replica. Lui e gli altri criminali del Comune, gli stessi uomini che hanno deciso chi sarebbe dovuto morire e chi sarebbe potuto sopravvivere a Prijedor, vogliono equiparare tutte le uccisioni di massa. Sì, ci sono stati dei massacri anche in Federazione, ma i campi no, neanche secondo i dati dell’Onu. Dicono che a Sarajevo sono stati uccisi diecimila serbi, ma dove sono le prove? Delle oltre undicimila vittime, principalmente uccisi da granate serbe, la maggior parte erano bosgnacchi. Se i serbi a Sarajevo vogliono un monumento, si possono anche indirizzare a me e io li aiuterò! Se laggiù sono stati uccisi dei serbi, io non mi opporrò. Ma per un monumento bisogna prima trovare il luogo della sofferenza e identificare le vittime. E non si può confrontare con Omarska”.

Da che parte sta la Mittal?

Oggi quindici anni dopo lo smantellamento del campo, la Casa bianca diventerà un luogo riconosciuto per i sopravvissuti e i membri delle famiglie delle vittime? Questa decisione non verrà presa né a Prijedor, né a Sarajevo, né da quelli che conservano la memoria, né da quelli che la negano, ma a Lussemburgo. Là si trova infatti l’ufficio centrale di Arcelor Mittal, il più grande produttore al mondo di acciaio e, dall’ottobre del 2004, il proprietario della miniera di Omarska. Lakshmi Mittal, il cittadino più ricco d’Inghilterra, e suo figlio Adita hanno creato un intero impero comprando e riqualificando vecchie miniere di ferro. “Quando hanno comprato Omarska”, dice Satko Mujagić, “ non hanno capito che stavano entrando in un paese nel quale la discussione su cosa sia un crimine di guerra e cosa una semplice conseguenza della guerra è ancora viva. D'altronde, non possono stare dalla parte dei criminali, chiunque sia il colpevole”.

Nel gennaio 2005 Mujagić è stato a colloquio col presidente della Mittal. “Ci hanno promesso allora che la Casa bianca sarebbe rimasta nello stato in cui si trovava e che sarebbe stato possibile entrare nel campo. Neanche un anno più tardi, il primo dicembre 2005, alla conferenza stampa a Banja Luka, la Mittal ha dichiarato che avrebbe eretto un Centro memoriale per la Casa bianca finanziato dalla miniera stessa. Nel frattempo, dal febbraio 2006, anche la Mittal ha smesso di fare dichiarazioni e negli ultimi tempi non rispondono. Se non si può dare ad Omarska un riconoscimento, che si può fare? Ci stiamo avviando velocemente verso un futuro del genere, se continuiamo a negare orrori e crimini del vicino passato”

Nel frattempo la miniera ha riaperto i battenti e dà lavoro a circa ottocento persone. Per il mercato del lavoro di questa regione, la Mittal è una manna dal cielo. Ma l’incubo di Ed Vulliamy si avvicina, così come anche uno scandalo per la ditta. Gli edifici intorno alla Casa bianca sono stati riverniciati e chissà quante prove e tracce del ’92 sono scomparse con le risistemazioni a causa delle quali, come mi è stato detto, sarebbe stato troppo pericoloso che visitassi lo spazio. La Mittal ha capito i pericoli e nel 2005 ha cercato una soluzione rivolgendosi all’organizzazione Duša Evrope (Anima dell’Europa) e al reverendo Donald Reeves. Quest’ultimo ha proposto un piano nel quale il Centro memoriale sarebbe diventato allo stesso tempo anche un Centro per la riconciliazione, con Dodik e i rappresentanti del Comune inclusi nel Consiglio direttivo. Le organizzazione dei sopravvissuti, tra le quali Izvor, si sono opposte a questo progetto. Anche il sindaco Pavić si è dimostrato radicalmente contrario. Dal maggio 2006 la Mittal non si è più incontrata con Mujagić, Duratović e i rimanenti promotori del centro memoriale. “La Mittal vuole tenersi in disparte”, dice Emsuda Mujagić, “fanno ricadere la colpa del congelamento del progetto sugli ex-internati e sugli ex-combattenti. Noi saremmo i primi a voler giungere ad un accordo, e ormai da tempo sappiamo esattamente ciò che vogliamo. Nel frattempo danno il loro sostegno all’amministrazione serba”.

Anche per quanto riguarda la selezione della forza lavoro sembra che la Mittal sostenga la parte serba. “Degli ottocento impiegati, soltanto tre sono bosgnacchi”, dice Muharem Murselović, “la Mittal ha rimesso insieme una lista di criteri per la selezione dei nuovi lavoratori. I primi tre posti sono per: candidati di Omarska, figli di ex-minatori e di soldati morti della parte serba. Al nono posto ci sono i bosgnacchi e i croati”. L’anno scorso Amnesty International ha pubblicato un rapporto di condanna sulla conduzione di lavoro del gigante dell’acciaio a Prijedor. Edin Ramulić sostiene che anche gli ex-membri della direzione sono nuovamente in carica. “Slobodan Balaban e Ostava Marjanović, sono le stesse persone che hanno concepito il piano di dislocamento del campo ad Omarska e che prima della guerra hanno cacciato tutti i lavoratori di nazionalità non serba. Ostava ha dato l’ordine di far sparire alcune persone e di nasconderne i resti umani. Logicamente non accetteranno mai bosgnacchi in servizio”.

Non molto distante da Omarska si trovano le colline boscose di Ljubija e la corrispondente miniera di ferro. Anche questa è oggi di proprietà della Mittal e territorio inaccessibile. Ma Kemo conosce la strada. Enorme cow boy dal comportamento brutale e con più racconti di guerra dell’intero paese minerario. Con un amico per l’intera guerra si è nascosto dalle truppe serbe nei boschi circostanti. Ha perduto ben 72 membri della propria famiglia. Non ha detto quante persone porta sulla coscienza. Con lunghi passi si fa largo nella galleria, camminando sulla terra rossa di ferro. Si ferma davanti ad un capannone con le pareti di lamiera e le finestre distrutte. “In questa macchina spacca pietre, destinata a separare il minerale dalla pietra, hanno gettato dei cadaveri”. Un po’ più tardi ci fermiamo sul bordo del lago artificiale mentre la superficie dell’acqua specchia i raggi dell’ultimo sole. “E giacciono anche qui…”

La commissione per la ricerca delle persone scomparse valuta che su questo territorio si trovino i resti di circa settecento persone. La Mittal in questi anni ha pianificato che anche qui inizieranno gli scavi per rifornire di minerali la Željezara, l’industria ferriera di Zenica. Per coloro che coltivano la memoria il tempo diventa sempre meno. Sull'altra sponda, su un piccolo sentiero pedonale che esce dal bosco con lo sguardo scorgiamo un’auto ferma lungo il bordo del lago. Tre ragazzi escono dal veicolo e si sistemano sulla “spiaggia” con le riserve di birra. Attraverso il finestrino dell’automobile la musica dei Deep Puple si diffonde oltre la superficie calma dell’acqua. Smoke on the water.

A favore del Centro memoriale nell'ex campo di Omarska su internet è possibile sottoscrivere la petizione iniziata da Lee Bryant e Kemal Pervanić, ex- internati di Omarska e autore del libro The killing days; http://www.headgroups.com/hg/display/om/Online+Petition’
Consulta l'archivio

Dossier: I memoriali della II Guerra Mondiale nella ex Jugoslavia realizzato con il supporto dell'Unione Europea