A distanza di oltre un decennio dalla fine della guerra in Bosnia Erzegovina, si ha l'impressione che la stampa italiana ed europea continui ad utilizzare cliché ormai datati che invece varrebbe la pena aggiornare. Nostro commento
Un paio di anni fa, una domenica pomeriggio a Sarajevo, ricevetti un’allarmata telefonata da parte di una giovane collega londinese, che, giunta in Bosnia da pochissimi giorni, era andata a fare una passeggiata sulle colline attorno a Sarajevo. “Ho visto delle unità paramilitari, armate, che si muovevano nelle campagne”, mi disse al telefono tutta allarmata. “Sei sicura?”, le chiesi io. “Si, erano in mimetica” mi rispose lei. “Sei sicura che non fossero cacciatori?” le chiesi io, sapendo che la caccia è un passatempo alquanto comune in Bosnia e che i paramilitari sono scomparsi dalla circolazione da circa otto anni. “Oh! Forse erano cacciatori...” Concluse lei, delusa dalla banalità e un po’ imbarazzata a non averci pensato prima.
Seguendo la stampa nazionale ed europea, a volte si ha la sensazione che i media spesso, come fece la mia collega, siano pronti a giungere a conclusioni affrettate e scontate sulla Bosnia basandosi su
cliché oramai datati che forse andrebbero aggiornati.
Un primo
cliché, attuale in questi giorni si riferisce alla diffusione del wahabismo in Bosnia ed Erzegovina dopo il conflitto. I toni in genere, quando si parla di fondamentalisti islamici in Bosnia, sono spesso sensazionalistici, anche a costo di presentare un’immagine distorta e fuorviante del paese. Il titolo dell’articolo pubblicato su “Panorama” (“Questa è la Bosnia”), che ritrae un barbuto
vehabija (wahabita in serbo-croato-bosniaco) accanto ad una donna coperta da una sorta di
burqa e due bambine bionde, riflette questa tendenza e risulta offensivo nei confronti dei cittadini bosniaci. Se in Bosnia un settimanale, come “Slobodna Bosna” o “Dani”, per esempio, pubblicassero le foto dei morti di mafia e scrivessero “Questa è l’Italia”, probabilmente ne verrebbe fuori un incidente diplomatico, o per lo meno, susciterebbe le proteste dei lettori, offesi e mal rappresentati dal cattivo gusto e dalla grossolana semplificazione del titolo dell’articolo. Titolo che, a dir la verità, contrasta con l’articolo, più bilanciato e moderato nei toni, che cerca di analizzare la presenza dei wahabiti in Bosnia ed Erzegovina.
La presenza wahabita in Bosnia, ma anche nel Sangiaccato, in Serbia e in Kosovo, non è una novità. L’arrivo di tali gruppi risale al tempo del conflitto. Il loro numero è fluttuato nel corso degli ultimi anni, ma i
vehabija non hanno trovato appoggio né da parte del potere politico, né da parte della gerarchia ufficiale della comunità islamica di Bosnia che si è sempre distanziata dal wahabismo, sottolineando la particolarità dell’Islam bosniaco e l’appartenenza alla cultura europea della pratica islamica bosniaca.
L’articolo di “Panorama” fa riflettere sull’immagine della Bosnia ed Erzegovina così come emerge dagli articoli di alcuni media occidentali. La questione del fondamentalismo islamico e della presunta espansione del wahabismo è già stata oggetto di una puntata della trasmissione televisiva “Ballarò” alcuni anni fa e di un più recente articolo su “Der Spiegel”. I toni sono allarmistici, volti a seminare la preoccupazione, ma mancano informazioni precise e soprattutto sono notizie vecchie, già riportate in passato.
Avendo vissuto più di nove anni in Bosnia e avendola girata in lungo in largo, mi trovavo sempre a guardare con un misto di incredulità e rabbia tali articoli, chiedendomi il motivo per cui si cercasse il sensazionalismo a tutti i costi, senza produrre riferimenti precisi, e a scapito di un’informazione corretta. L’impressione che viene data è che la Bosnia sia oramai dominata dal fondamentalismo islamico e potenziali terroristi la usino come campo di addestramento. Eppure, nonostante la presenza di truppe e contingenti di polizia internazionali, oltre alle polizie locali, campi di addestramento non sono mai stati trovati e al momento vi è solo un caso di presunto terrorismo di fronte al Tribunale della Bosnia ed Erzegovina.
Un altro cliché tipico sulla Bosnia è quello che dipinge la Bosnia come perennemente sull’orlo di un nuovo conflitto. La recente crisi istituzionale e l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari sono state sufficienti a lanciare l’allarme sul possibile scoppio di un nuovo conflitto, frutto di odi etnici mai sopiti. Il conflitto, è vero, persiste come un trauma collettivo presente nella memoria della gente, ma la storia del dopoguerra bosniaco contraddice questo cupo scenario di odio etnico. Il dopoguerra bosniaco è stato contraddistinto dalla quasi assenza di conflitto: dal 1995 ad ora, non sono state più di venti le persone rimaste uccise in scontri etnici, la maggior parte di esse concentrate nel periodo 1995-2001 in tutta la Bosnia ed Erzegovina. Un numero irrisorio se confrontato ad esempio con le oltre 100 vittime di camorra, nel solo 2007, di Napoli e provincia.
Allo stesso tempo, in silenzio e senza troppo clamore, il paese ha compiuto numerosi passi in avanti verso la stabilità e una riconciliazione che avviene più nell’interagire quotidiano della gente che nella sfera politica. La Bosnia ed Erzegovina adesso ha largamente risolto la questione dei rifugiati e sfollati, facendo sì che ritornassero la gran parte di quelli che volevano farlo, sta processando le persone indiziate per crimini di guerra di fronte ai tribunali locali, le forze armate del paese sono state unificate, chiese e moschee sono state ricostruite in tutte quelle zone dove la furia della pulizia etnica le aveva rase al suolo allo scopo di cancellare ogni minima traccia degli altri gruppi etnici. I problemi del paese sono ancora numerosi: si deve ancora andare verso una piena riconciliazione, il conflitto deve essere rielaborato e soprattutto c’è bisogno di creare un’identità comune, portata avanti da leader politici diversi da quelli attuali. Ma il paese non si trova sull’orlo di un conflitto imminente e francamente la situazione attuale, inclusa quella dei paesi confinanti, è ben diversa da quella del 1992, quando i paesi vicini giocarono un ruolo fondamentale nel conflitto bosniaco. È il vecchio discorso dell’albero che cade e della foresta che cresce in silenzio, senza fare notizia, né creare scalpore. O che una buona notizia non è una notizia.
Tristemente questo tipo di copertura mediatica ricorda quanto accadeva durante il conflitto in Bosnia, quando cioè si teneva a presentare la guerra come l’inevitabile scontro di popoli, semibarbarici, divisi da un odio ancestrale e irriconciliabile. Tale immagine, proiettata ad arte, era usata come giustificazione per non intervenire: il messaggio implicito era che i popoli della Bosnia erano irrimediabilmente condannati alla violenza e quindi ogni intervento era inutile. È stato questo atteggiamento che ha incoraggiato i criminali di guerra a perpetrare i loro crimini e alla fin fine ha condotto a Srebrenica. Per alcuni versi sembra che la percezione dei media non sia cambiata. In più, oltre agli odi tribali, i Balcani moderni presentano una nuova minaccia, quella dell’integralismo islamico che si agita ai confini dell’Unione Europea. In realtà, non solo la Serbia, ma anche la Bosnia ed Erzegovina ha parafato l’accordo di Stabilizzazione e Associazione con l’Unione Europea e prima o poi si presenterà come paese candidato all’ingresso nella UE. Sarebbe quindi il caso di aggiornare i vecchi
cliché ed approfondire la conoscenza dei nostri futuri vicini: si eviterebbe di scambiare cacciatori per paramilitari.