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Mircea e gli altri

13.02.2008   

La Bucarest dell'integrazione europea e di chi si è arricchito in fretta. E la Bucarest di Mircea, che con molti altri coetanei vive nel suo ventre, nelle fognature. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
di Giuseppe Rizzo - www.nazioneindiana.com

Il Carù cu Bere emerge ogni sera dal suo torpore gotico per consegnarsi a una Bucharest affamata di affari. È uno degli edifici storici più conosciuti della città, costruito nel 1875. Come molti altri palazzi monumentali sparsi in giro per Calea Victoriei non è un luogo di cultura, di conservazione, di storia. È un luogo di consumo, la più antica birreria della capitale, nonché uno dei suoi ristoranti più esclusivi. Si entra solo su prenotazione e solo se si hanno i soldi per farlo.

Al numero 3 di Strada Stavropoleos, a due passi dalla piazza dove nel 1989 partì la rivoluzione contro il regime di Ceauşescu, scende solo chi ha uno stipendio superiore ai 200-300 euro del reddito medio nazionale. Giovanotti con macchine sportive al posto delle vecchie e scassate Dacia; coppiette con le villette lungo il Boulevard Aviatorilor, la zona più cara della città; uomini e donne d’affari che hanno saputo intercettare il boom economico di una nazione che nel 2006 ha fatto registrare un picco di crescita del Pil a 8,3 punti percentuali (fonte: Eurostat).

Quando vi arrivo io, Mircea è già sugli scalini di ingresso. Nero, con la faccia sporca, le mani zozze, i calzettoni di lana tirati sopra i jeans a pezzi. Sputa per terra cercando di centrare quante più scarpe lucide possibili. Le facce pulite dei nuovi ricchi lo superano indifferenti. Entrano al Carù cu Bere guardandolo appena.

Tanto loro sono composti, quanto lui è irrequieto, nervoso. Scalcia, dà ordini e si atteggia a capo con i suoi compagni. Lo circondano tre ragazzetti dai quattro ai dieci anni con le labbra rotte dal freddo. Si parano davanti ai signori in giacca e cravatta, loro vestiti di soli stracci, e chiedono qualche soldo, loro che non hanno niente.

Mircea possiede solo il suo nome, è tutto quello che ha. Ride alle parole casa, madre, famiglia, scuola, vita. Lascia intendere che non gli serve altro se non sé stesso. Indica un tombino da cui esce un fumo biancastro per accennare al posto dove vive. Non c’è bisogno di altra spiegazione per capire che il piccolo è parte di quell’inferno che intreccia i suoi gironi tra le condutture per l’aria della metro e le viscere delle fogne di Bucharest.

Lui e i suoi compagni non rientrano nelle statistiche dell’Unione Europea sulla coesione sociale, sul benessere o sulle aspettative di vita che dicono che in Romania il futuro riserva molte speranze ai suoi cittadini. Mircea e gli altri come lui sono dei fantasmi, naufragi dell’esistenza. Di sicuro c’è solo che sarebbero ancora tanti. All’incirca mille, stando ai dati di “Parada”, associazione che da anni si occupa di loro. Un numero nettamente inferiore a quello stimato negli anni 90, periodo in cui per strada ce n’erano circa 4 mila. Il calo, però, sarebbe un calo fisiologico: perché è vero che molti oggi non scelgono più la strada, ma è anche vero che dei 4.000 randagi degli anni 90, pochissimi hanno scelto una vita alla luce del sole, mentre moltissimi sono morti, divorati dalla fame o uccisi dall’Aureolac, la colla che comprano a solo un euro e che sniffano per sopportare le brutture della vita.

Di loro non si parla al Carù cu bere. Bucharest li ha sotterrati nella sua pancia, mentre nella sua testa sogna di crescere e di trainare nel suo boom l’intera nazione. Anche l’Europa si è dimenticata di loro quando ha accettato che il paese entrasse a far parte della comunità. In molti hanno protestato, dicendo che la Romania dovesse prima fare i conti con diverse situazioni di prevaricazione dei diritti umani. «La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo in questo paese è carta straccia, basta pensare alla vita di questi bambini: si drogano, si prostituiscono, vivono di elemosina, di piccoli furti, di espedienti, e spesso muoiono senza neanche arrivare ai diciotto anni».
A parlare così è Gabriella Morescu, ricercatrice alla facoltà di Psicologia di Bucharest, una di quelle che Ceauşescu decise di chiudere negli anni settanta (motivazione: i romeni non erano gente da problemi mentali o psicologici). Da anni si occupa della situazione dei minorenni nel suo paese, e conosce bene l’abisso in cui può sprofondare un’infanzia rubata. «La psiche dei bambini come Mircea è completamente distrutta e rimodellata sulle basi della devianza – dice –. La violenza è l’unica legge che conosce, la vita non sfiora neanche questi ragazzi, che vivono perennemente tra le braccia della morte».

In Romania, però, loro non sono l’unico problema. I dati dell’associazione “Amici dei bambini” fanno emergere un fenomeno altrettanto drammatico e spinoso: sarebbero 30 mila i bimbi oggi presenti negli orfanotrofi. 60 mila, in tutto, tra loro e quelli abbandonati e non necessariamente ospitati dentro strutture d’accoglienza. Come Mircea, per intenderci. Nell’intero paese, ogni giorno, vengono abbandonati o scappano dalle proprie famiglie 25 bambini come lui. 25 bambini: uno ogni ora del giorno, per ogni giorno dell’anno (fonte Unicef).

È il prezzo che paga la nazione con uno dei più alti tassi di emigrazione in Europa, seconda solo alla Polonia. I rumeni emigrati per lavoro all’estero sarebbero circa 2 milioni, più dell’8% della popolazione, il che avrebbe creato un deficit di manodopera per il paese di 200-500 mila unità. Deficit compensato dall’importazione di manodopera dall’oriente. In pratica, per ogni rumeno che parte, e che spesso lascia la propria famiglia e i propri figli in condizioni drammatiche, arrivano un indiano, un bengalese o un cinese. Sorin Nicolescu, direttore generale in Romania del gruppo svedese Wear Company, ne ha assunti 800. Salario netto: 260 euro, il doppio di quello minimo rumeno che è di 132.

Per molti, questa è un’ottima ragione per abbandonare le proprie famiglie, vendere tutto quello che si ha (poco) e varcare i confini verso altri paesi. Spagna, Francia, Germania e Italia, per lo più. Per raggiungere il nostro paese, capolinea Genova, occorrono 100 euro e una volontà di ferro per superare un viaggio di quattro giorni di autobus attraverso i Carpazi, l’Ungheria e la Slovenia. Nonostante questo viaggio di dimensioni epiche, ogni mattina, già fin dalle 6, le persone in fila in via Ritmului, luogo di partenza, sono tantissime, ben oltre le 54 che saliranno sull’autobus. Madri, figli, genitori anziani, parenti, amici si raccolgono attorno alle persone che partiranno per scambiar con loro un ultimo abbraccio. Ed è in questi abbracci che la Romania consuma una delle sue più grandi contraddizioni.

La gente che arriva in Italia, quella che vediamo camminare per le strade delle nostre città, i rumeni maledetti, i rumeni assassini, ladri, rapinatori – così per come ormai sono additati dal vecchio caro lercio senso comune – sono spesso padri e madri (ci sono solo una “p” e una “m” di differenza con la parola “ladri”) che hanno abbandonato la loro terra, nonostante i 9 miliardi di investimenti iniettati nella loro economia da aziende straniere. Quelle italiane tuttora attive su territorio rumeno sono12 mila, con 800 mila dipendenti rumeni. Una cifra che, sommata alle altre, ha consentito di mantenere i livelli di disoccupazione nel 2007 al 5,5 per cento (in Germania e in Francia è dell’8,1, in Italia del 6,4).

Lavorare all’estero però è più conveniente. Stando ai dati Caritas, in Italia lo stipendio medio di un emigrato si aggira attorno ai 10.042 euro l’anno. Si guadagna quindi di più, e si riesce così a inviare più denaro a casa. Solo nei primi otto mesi di quest’anno, le rimesse dei lavoratori rumeni all’estero ammontano a 3 miliardi di euro, metà dei quali (1,7 mld) dalla sola Italia.

Sono da ricercare in queste cifre tracce del dramma dei bambini abbandonati in Romania, ma anche l’amarezza e la rabbia per la caccia al rumeno che si è scatenata subito dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani, la donna romana seviziata e assassinata a Roma da un rom. «Ci siamo sentiti trattare tutti come dei delinquenti», dice Costantin, muratore che prima di ritornare a Bucharest ha lavorato per alcuni anni a Treviso. «Quello che è successo a Roma è stato una cosa terribile anche per me, che sono padre di due bambine – continua – però qualcuno mi deve spiegare cosa c’entro io, o la gente come me che ha lasciato i suoi figli, la sua famiglia, ed è andato spaccarsi la schiena all’estero per guadagnare paghe a volte bassissime rispetto a quelle di un lavoratore locale».

«Non si emigra certo per piacere», insiste Costantin. E a volte si rientra in patria solo forzatamente, nonostante i figli, nonostante la famiglia, nonostante gli affetti. Stando ai dati della rete televisiva rumena Realitatea, circa 23.000 cittadini romeni sono stati espulsi dai paesi dell’Unione Europea negli ultimi 18 mesi. In Italia, 177 lo sono state dopo l’assassinio di Giovanna Reggiani. Molti di loro sono rromi, come lo stesso assassino della donna romana, Nicolae Mailat.

In Europa sono circa 6 milioni. Un terzo di loro è nata e ha deciso di rimanere a vivere in Romania. Le loro condizioni, e quelle dei loro figli, sono un problema che ha fatto istituire al governo una commissione ad hoc. Temi all’ordine del giorno: integrazione e lavoro. Molti rromi vivono in accampamenti nelle periferie cittadine oppure nelle case cadenti dei centri storici, come avviene nel quartiere Lipscani di Bucharest. Vivono in condizioni precarie, spesso senza i servizi basilari. Come Maria e la sua famiglia.

Maria è un’enorme matrioska che nasconde dietro la sua gonna un esercito di bambini dispettosi. Assieme ai loro parenti hanno occupato una casa nei vicoletti storici di Bucharest. Il problema è però che a breve arriveranno gli agenti del comune a cacciarla via. L’hanno avvisata più volte e ora è arrivato il momento. Il centro storico in questi giorni sta per essere rimesso a nuovo e Maria deve lasciare la “sua” casa perché deve essere ristrutturata e rimessa in piedi, magari per diventare una boutique di lusso, o un pub, o un appartamentino da vendere a peso d’oro.

«Io non ho nessun altro posto dove andare a vivere», si lamenta Maria. «Siamo in tanti, viviamo di elemosina, siamo brave persone e non è giusto che ci sbattano fuori», aggiunge. Il piano di ristrutturazione del centro storico non prevede però case occupate da rromi, e così a breve lei e i suoi parenti devono sloggiare. L’Unione Europea ha già denunciato politiche di intervento di questo tipo nella relazione del 2007 su razzismo e xenofobia. «Un gran numero di rom – si legge nel documento – continua ad affrontare serie difficoltà e discriminazioni in diversi campi, inclusi il lavoro, l’abitazione, la salute e l’educazione». Il governo è accusato di procedere a rimozioni forzate senza garantir loro nessuna alternativa in cambio.

Il ministro degli Interni Cristian David ha annunciato che sta lavorando ad una serie di progetti da proporre alla Banca Mondiale per offrire un futuro a questa gente e ai loro figli. Intanto, però, la vita di molti si spegne prima ancora che le buone intenzioni vadano in porto. Due settimane fa, a Ferentari, quartiere-regno dei rromi più poveri a sud di Bucharest, pieno di casermoni sventrati e immondizia e criminali ricercati dall’Intepol (come Sanavert Leonard, uno dei trafficanti di droga più famosi al mondo), quattro ragazzini sono morti bruciati dalle fiamme. Erano a casa senza i genitori. Dormivano con indosso gli stessi stracci di ogni giorno. Uno aveva in tasca qualche spicciolo. L’unica cosa di valore trovata tra le rovine della casa distrutta dalle fiamme. Nessuna traccia di futuro tra la cenere.
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