Di Melita Richter
La rabbia dei serbi si placherà, le violenze condannate dalla comunità internazionale e da una parte della stessa Serbia, cesseranno. Il Kosovo si sposterà dalle prime pagine dei quotidiani a quelle interne, i telegiornali saranno attratti da altri focolai di guerra. Forse qualcuno che ha sostenuto che la reazione serba non sia altro che la tempesta in un bicchiere d’acqua, troverà conforto alla propria tesi. Ma nei Balcani, le umiliazioni dei popoli non hanno mai portato a soluzioni durature, felici. Si sbaglia chi pensa che basta aspettare che il tempo faccia il suo. E’ un tempo amaro che scorre da quelle parti, la memoria duole intensamente, il senso di ingiustizia è rafforzato dal fatto del non rispetto del diritto internazionale e delle risoluzione dell’ ONU.
La Serbia nutritasi col nazionalismo ha dimostrato una colossale mancanza di una visione politica (realistica) sull’intera regione. Lo sbaglio più grave è stato quello di Milosevic nel togliere l’autonomia del Kosovo nel 1989. Per un intero decennio la popolazione albanese della regione ha partecipato alla resistenza passiva guidata da Rugova invocando il rispetto dei diritti umani e l’autonomia. Non ci si sognava ancora di uscire nelle piazze con la richiesta di separazione e di autodeterminazione. La Serbia non ha imparato niente in questo periodo, la repressione è stata atroce. Secondo le fonti internazionali dal 1998 al 1999 sono stati uccisi 10.000 albanesi e deportati 740.000. Dopo la caduta di Milosevic sul territorio serbo sono state individuate 18 fosse comuni con cadaveri degli albanesi trasportati in Serbia dove è stato più facile occultare i loro corpi. Otto di queste fosse sono state scoperte nel quartiere belgradese di Batajnica.
Poi, il balletto tra vittime e carnefici ha avviato un altro giro micidiale.
Nel 1999, quando la Nato ha fatto la guerra (si diceva allora per impedire la pulizia etnica degli albanesi da parte dell'esercito serbo senza poi riuscire ad impedire la contropulizia etnica dei serbi) Veton Surroi, uno degli intellettuali più in vista della società albanese, editore del quotidiano storico del Kosovo “Koha Ditore” e uno dei leader del gruppo albanese di negoziazione degli incontri di Rambouillet e di Parigi nel 2000, ha scritto:
“La violenza attuale – dopo più di due mesi dall’arrivo delle forze NATO – è qualcosa di più di una semplice reazione emotiva. E’ una organizzata e sistematica intimidazione indirizzata a tutti i serbi per il semplice fatto che siano serbi e pertanto indicati come colpevoli collettivamente per quanto era successo in Kosovo.
Il comportamento verso i serbi del Kosovo getta la vergogna su tutti gli albanesi kosovari, non soltanto sugli esecutori della violenza. Il fardello di tale comportamento dovremmo portarcelo addosso collettivamente. Questo ci disonorerà e disonorerà le nostre stesse sofferenze che solo pochi mesi fa erano trasmesse dai piccoli schermi in tutto il mondo”.
Voce isolata quella di Surroi, come sono state isolate le voci di coloro che nella Serbia di Milosevic hanno accusato la sua politica nazionalista e militarista di condurre una battaglia etnica nel Kosovo. La nota attivista Zarana Papic nella sua “discorsiva solitudine” denunciava l’odio dei serbi verso gli albanesi come “prodotto culturalmente, politicamente e militarmente legittimato dai media e diventato, addirittura fondamentale per l’identità nazionale serba”.
E’ doveroso aggiungere la testimonianza di un’altra donna coraggiosa, Natasa Kandic del Humanitarian Law Center di Belgrado, una delle poche persone che durante le fasi più accese della repressione del regime serbo sia partita dalla capitale in direzione di Kosovo, raccogliendo storie agghiaccianti dei crimini perpetrati sulla popolazione albanese. Il suo dossier colmo di nomi e cognomi di persone e di intere famiglie assassinate, un documento che testimonia la rappresaglia serba scatenata sulla popolazione albanese come punizione per aver richiesto l’intervento NATO, è stato di enorme importanza per la condanna dei criminali di guerra da parte del Tribunale dell’Aia.
La barbarie balcanica non ha mai serbato un volto solo. Nella sua atrocità, essa non si è sbilanciata da una parte sola. E’ il risultato di una perenne spirale di oppressione-rivolta-sconfitta-repressione-fuga che le popolazioni di questo limbo dell’Europa hanno sperimentato lungo i secoli. Nell’identikit della terra kosovara sono impresse ondate di migrazioni forzate accompagnate dalla feroce pulizia etnica, dalla vendetta, dalla contro-pulizia etnica.
La unilateralmente proclamata indipendenza del Kosovo non rappresenterà la automatica “soluzione” della crisi che affligge la Regione, non si tratterà di un “atto finale” o della “conclusione”, del “compimento”, ma dell’inizio di un processo. Alla base di questo processo sta la ricerca delle soluzioni condivise all’interno della società politica e civile. Cercarla oggi sarà molto più difficile che ieri.
Michele Nardelli dell’Osservatorio sui Balcani, uno dei paladini della proposta europeista per la soluzione della crisi del Kosovo afferma da tempo:
“Non ci sarà alcuna soluzione di pace duratura che non sia il prodotto di un percorso di condivisione diffusa tra le parti. Per questo abbiamo bisogno di trovare interlocutori credibili che comprendano o semplicemente prendano atto della necessità di darsi un approccio post-nazionale ed europeista. E che da subito ritengano questa strada conveniente per tutti, a cominciare dalle condizioni di vita e di libertà delle persone, a prescindere dalla loro appartenenza nazionale e culturale.”
Per questo ci vogliono leggi e ci vuole la fiducia. Quest’ultima dovrebbe accompagnare ogni dialogo interetnico indipendentemente dall’esistenza o meno del sistema normativo e della sua ramificazione più o meno affermata sul territorio.
Senza la mutua fiducia dei cittadini, in modo particolare quando si tratta di diversi gruppi etnici e religiosi, anche le migliori leggi rimangono soltanto vaghi segni sulla carta, leggi irraggiungibili, irreali, insufficienti. Questa fiducia va costruita con pazienza, di giorno in giorno assieme alla garanzia ai cittadini, di maggioranza e di minoranze le eque condizioni di libertà e sicurezza sociale.
Le priorità con cui la regione dovrà fare i conti sono pressanti. Cerchiamo di formularle senza pretendere di stabilire una gerarchia tra le voci elencate.
- Per uno sviluppo pacifico e per la prosperità il Kosovo ha bisogno di buone relazioni con tutti i vicini.
- Riconoscimento delle radici culturali multiple e dell’identità plurima del Kosovo.
- Rispetto della rappresentazione simbolica, culturale e religiosa dell’Altro.
- Riconoscimento e garanzia effettiva dei diritti dell’uomo, del diritto di ritornare nelle proprie case per coloro che gli eventi bellici hanno espulso dal territorio, il diritto dei cittadini di ogni origine, credo e strato sociale di non essere costretti alla fuga e all’abbandono del territorio kosovaro.
- Impulso alle iniziative della società civile impegnate nel superamento delle divisioni della società.
- Fuoriuscita dallo stato di economia assistenziale, dall’alta disoccupazione, dalla occupazione fittizia e dal diffuso stato di corruzione e illegalità.
- Sviluppo di un Kosovo dei cittadini. La partecipazione cittadina nei processi decisionali dovrebbe essere più valorizzata di una pressante glorificazione dell’appartenenza etnica.
- Istituzione di una Commissione per la Verità e Riconciliazione il cui obbiettivo sarebbe di occuparsi di persone disperse e di stabilire la giustizia per tutte le vittime della guerra e della pulizia etnica.
A questi punti, sarebbe da aggiungere altri quesiti urgenti che la società kosovara esprime in diversi settori, come quello legato alla sfera dell’educazione, della protezione dei monumenti storici e religiosi, alla garanzia delle condizioni paritarie quando si tratta di occupazione e di assunzione al lavoro, di condizioni sociali ed economiche paritarie, il welfare…
La soluzione europeista richiede un’elite politica di alto rango, quella che saprebbe guidare i propri paesi da una situazione di conflitto verso gli obbiettivi convergenti in un contesto europeo e secondo le regole europee. Politici e umanisti capaci, come lo sono stati coloro che hanno traghettato la Francia e la Germania a riprendere la via dell’unità e dell’affermazione dei valori condivisi in un Europa post-bellica. Anche il Trattato che, ai margini della pace di Parigi, hanno firmato il ministro degli Esteri italiano De Gasperi e il suo collega austriaco Gruber sulla questione dell’Alto Adige, potrebbe fare scuola. Per l’Alto Adige la internazionalizzazione del problema fu decisiva. L’accordo fu firmato il 5 settembre del 1946; si trattava di un accordo che non “risolse” molto, ma che diede tempo al radicamento delle norme europee in una cornice di rapporti transnazionali.
Se noi oggi dovessimo cercare in Serbia e in Kosovo, ma anche nel resto dei Balcani occidentali, leader con simili stature e con le capacità di legare la questione regionale a quella europea, di traghettare l’opinione pubblica in questa direzione, soprattutto verso il compromesso come visione e come obbiettivo, non come atto di vittoria o di sconfitta, rimarremmo delusi.
Il quadro attuale è devastante.
In esso si iscrive una inesistente politica dell’UE. Ogni progetto sullo status del Kosovo doveva essere preceduto dai progetti di cooperazione interregionale con l’accento sulla cooperazione tra la Serbia e il Kosovo e sul comune investimento nello sviluppo della regione.
La società civile doveva essere aiutata a cercare la via alternativa alla separazione etnica; un nuovo staterello etnico non lo aiuterà.
Né l’UE né Washington hanno analizzato le contromisure che avrebbero dovuto seguire la proclamazione unilaterale dell’indipendenza.
La popolazione serba, che vive nelle enclave ghettizzate e auto-indotte a una lunga non collaborazione con le istituzioni kosovare albanesi, si chiede se avviarsi verso un esodo totale o rimanere sul territorio riconosciuto come la patria serba, come Serbia. Il segretario generale del Consiglio serbo del Kosovo Nord ha proclamato: “Noi siamo Serbia, vogliamo le nostre istituzioni. Non vogliamo alcun confine tra Kosovo e Serbia, perché siamo in Serbia. Rispettiamo la risoluzione 1244 dell’ONU”. Il numero della risoluzione che gli albanesi non hanno mai accettato lo si poteva scorgere scritto sui cassonetti delle immondizie lungo le strade di Pristina, di Gjakovica, di Prizren accompagnate dai graffiti:
jo negoziata! No ai negoziati.
Dall’altro canto, dopo aver frenato i negoziati e considerato una loro vittoria il fallimento del piano Ahtisaari, i serbi oggi tirano fuori il piano B, quello di una ulteriore separazione del territorio kosovaro su basi etniche che permetterebbe ai serbi che vivono a nord dell’Ibar di ricongiungersi con la madrepatria.
La Bosnia daytoniana è scossa. Il premier della RS (Republika srpska) Milorad Dodik ha dichiarato l’intenzione dei serbi della Bosnia di prendere l’esempio dall’attuale situazione insinuando una possibile separazione dell’entità serba della Bosnia. Allo stesso tempo, egli considera la dichiarazione di Pristina un atto che “non riconosceremo mai”. Altri leader bosniaci ritengono la proclamazione dell’indipendenza del Kosovo “un attacco diretto contro i serbo-bosniaci”.
La Serbia è traumatizzata, divisa. Ma c’è una Serbia democratica distante dai vandalismi e dalle masse scese in piazza, che si interroga sulle cause che hanno portato alla perdita del Kosovo e queste le cerca prima di tutto nella politica dello stato serbo negli ultimi venti anni. Una simile coraggiosa denuncia arriva dalla seduta straordinaria del Parlamento serbo del 18 febbraio per bocca del giovane leader del Partito liberale Cedomir Jovanovic il quale ha chiesto ai vertici politici di assumere la responsabilità di quanto è successo nel Kosovo negli ultimi decenni. La responsabilità di una politica satura di imperdonabili errori che ha sempre trattato gli albanesi da cittadini di serie B. Questa politica serba è rimasta impunita, i governanti attuali si sono dimostrati incapaci di dare il taglio netto con quella precedente.
Il Kosovo albanese sta vivendo momenti di grande euforia. Il tanto agognato sogno è stato realizzato. Non nasce però in modo felice lo stato etnico kosovaro. La sua felicità è costellata dall’ombra di un non completo riconoscimento da parte della comunità internazionale, da un netto rigetto di altri. L’euforia svanirà, si arriverà alla consapevolezza che la felicità del paese dipende solo della capacità di riconciliare i popoli che abitano il suo suolo, indipendentemente da ogni status riconosciuto o meno: dalla riappacificazione tra serbi e albanesi.
E infine, vi è una domanda che ci sentiamo in dovere a porre ai vertici di Washington, a quelli dell’UE, agli italiani: dopo una generale premura di essere presenti in Kosovo con le proprie formazioni militari, vi è una qualche strategia di come uscirne fuori? Quale Kosovo lasciare alle spalle a reggersi sulle proprie gambe?