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Il cinema di Imamović

20.01.2008    Da Sarajevo, scrive Dejan Kozul

Go West
Intervista all'autore di Go West, Ahmed Imamović. Il percorso personale ed artistico del giovane regista e i paradossi del nuovo cinema bosniaco, che riscuote successi in tutto il mondo ma censura nelle proprie sale un film a tematica omosessuale
Quando è entrato nel mondo del cinema?

Ho iniziato a fare cinema quando è cominciata la guerra. Molte persone lasciavano Sarajevo, e qualcuno doveva riempire quel vuoto. Se ne andavano persone dal mondo del cinema e della televisione. Io avevo una formazione di base nel lavoro artistico grazie ai miei studi, e da adolescente mi ero interessato di musica. Quando si formò il Gruppo di Autori di Sarajevo (SAGA), mi chiamarono a lavorare un po’ con loro. Un giorno non c’erano più cameraman, e io ho preso in mano la telecamera. La fortuna è stata che lavoravo con ottimi professionisti. Tra gli altri, in quel gruppo c’erano Mirza Idrizović e Zlatko Lavanić. Verso la fine del ’92 e l’inizio del ’93, ho iniziato ad occuparmi attivamente di cinema. Poi, quando mi sono iscritto all’Accademia, ho cominciato a studiare regia. Per un paio d’anni ho lavorato come operatore di regia e questa è stata un’ottima scuola, che mi ha dato la possibilità di lavorare con tanti autori e registi diversi. Poi sono arrivati il lavoro finale „10 minuti“ e il premio dell’Accademia Cinematografica Europea. Questo mi ha permesso di farmi un nome e mi ha aiutato a cominciare poi a lavorare sulle sceneggiature e la produzione di fiction lunghe.

Cosa ha rappresentato il cinema bosniaco per il regime e per la società?

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Negli anni ’90 vivevamo in un luogo chiamato Jugoslavia. Fino ad allora, non posso dire di aver mai pensato ad un cinema bosniaco, nè croato, nè serbo... ma so che la scuola di Sarajevo ha dato autori importanti al cinema jugoslavo.

Non credo che il regime comunista abbia influito molto sul cinema bosniaco. Al contrario, si trattava di una cinematografia che conteneva un forte elemento di critica nei confronti di quella società. C’era un eccezionale regista di Sarajevo, che purtroppo non c’è più, Fahrudin Bata Čengić, una persona che come artista ha criticato ferocemente il sistema. Oppure Emir Kusturica, insieme a Sidran all’inizio, che ha diretto film come „Dolly Bell“ e „Papà in viaggio d’affari“... Film al servizio del regime non ne conosco.

Durante la guerra, un fenomeno culturale bosniaco specifico di Sarajevo sono state le centinaia di premiere: i teatri rimasero aperti in quelle circostanze, la televisione non interruppe le trasmissioni nemmeno un giorno. Nel corso della guerra c’erano gruppi come SAGA che hanno dato continuità, in particolare attraverso il documentario. Decine di documentari sono stati girati a Sarajevo in quel periodo.

Dopo la guerra tutto si è in qualche modo disperso. Abbiamo avuto un lungo vuoto in cui non si è girato un solo lungometraggio. Poi tutto si è mosso improvvisamente quando sono emersi Dino Mustafić, Danis Tanović e Pjer Žalica... Ci sono stati due anni di forte espansione. Ed è arrivato un periodo in cui a tutti interessava il cinema. Per tutti era importante che la Bosnia Herzegovina avesse un cinema. C’eravamo io, Jasmila (Žbanić), Pjer, Srđan (Vuletić), Dino... In due o tre anni in Bosnia Erzegovina si sono girati una decina di film. Poi tutto si è fermato di nuovo per un anno o due. Ed ecco, io ora vedo che si lavora di nuovo. Aida Begić ha girato un film. Anche Srđan ha girato il suo secondo film.

Cosa è successo dopo il 1990, con la transizione all’economia di mercato?

La guerra. Purtroppo la Bosnia Erzegovina è ancora un paese politicamente in via di definizione. Ci sono un milione di cose che non funzionano. Penso che il cinema in Bosnia Erzegovina non debba essere quello della Federazione o della Repubblica Serba. Penso ci sia bisogno di costruire un paese unito. Purtroppo da noi non c’è nessun ministro che si occupi di cultura. Quando ci sarà un interesse nazionale, allora il cinema diventerà un vero cinema nazionale, quando lo Stato metterà a disposizione spazi e mezzi sarà tutto più facile. Nessuno mi può convincere che in questo paese non ci sono soldi. Ci sono, solo che vengono messi altrove. Penso che il cinema debba essere una delle priorità del paese.

Lei personalmente cosa ha fatto negli anni della transizione post-comunista e della guerra?

Mi sono iscritto all’Accademia nel 1993, quindi ho fatto parte della prima generazione dell’Accademia di Sarajevo in tempo di guerra. In quel periodo si faceva quel che si poteva. A volte non arrivavano i professori, a volte non arrivavano gli studenti, oppure andavamo tutti insieme in un rifugio se c’erano i bombardamenti. Nella mia classe tutti avevano molta voglia di fare, credo che la cosa più importante sia che la classe che è uscita ha davvero messo in pratica quello che aveva imparato. Oltre a me c’erano Jasmila Žbanić, Faruk Lončarević, Elmir Jukić, Aida Begić, Danijela Gogić... Oggi siamo tutti registi e facciamo il lavoro per cui abbiamo studiato.

In che modo le difficoltà economiche e gli investimenti stranieri hanno influenzato la qualità della produzione?

Non credo che questo abbia influito. Gli autori fino all’ultimo hanno espresso le proprie idee e lavorato sui temi che li ispiravano. Penso che la guerra che è dietro di noi e il duro cammino di fronte a noi ci permettano di fare film molto seri. Di avere tutto in testa, sapere cosa vogliamo e fare quello che vogliamo, anche senza mezzi.

Naturalmente è difficile. La situazione economica e politica del paese è complessa, la cinematografia di transizione dipende molto da certi fondi, dai ministeri, e così via. Ci sono persone di buona volontà che lavorano davvero, c’è la nostra fondazione, che è povera ma molto importante. Quando hai 150-200.000 euro ovviamente non riesci a farci una produzione, ma è un importante capitale di partenza.

In che modo avveniva la promozione e la distribuzione dei film negli anni del regime? C'erano pressioni sociali di qualche tipo per recarsi a vedere determinati titoli?

Non ho mai avvertito pressioni. Avevamo la Jugoslavia, un grande mercato senza barriere amministrative. Era più facile per noi, per i cantanti, per i musicisti. Ora abbiamo sei nazioni, e il mercato internazionale è un privilegio per pochi fortunati film in lingue diverse dall’inglese. Tuttavia ci sono contatti, distributori, persone intraprendenti che comprano i diritti...

Come funzionano le cose dopo il 1989? Si è sviluppato un sistema di distribuzione e promozione moderno e funzionante?

Non mi intendo molto di questo, non saprei. Penso di sì, come in tutta Europa. Abbiamo un grosso problema con la pirateria. La squadra con cui lavoro ha investito salute, energia, denaro in un film, e poi arriva qualcuno per strada e noi non possiamo farci niente. Lo Stato non ha ancora fatto niente a questo proposito, la gente non è consapevole che la pirateria è un reato, è rubare a me, ai miei figli, al mio produttore, ai miei attori, e così via. Si tratta di un vero e proprio crimine, contro cui lo Stato non fa niente.

Quali erano i temi che aveva più a cuore il regime?

Prima della guerra, negli anni ’60 e ’70, ai tempi di Tito, si sono girati molti buoni film, che amo molto. Sono in debito con quei film e con una persona di nome Hajrudin Šiba Krvavac. Era un grande maestro, e anche quel sistema aveva un approccio molto serio al cinema. Ho rivisto da poco „Valter“, „Most“ e „Partizanska eskadrila“, penso che siano davvero grandiosi. Poi sono arrivati gli anni ’80 e la liberalizzazione.

Dopo la guerra, i film sono stati girati da chi era sopravvissuto e riflettevano o trattavano direttamente la guerra. Questo era perfettamente logico, anch’io avevo la necessità di raccontare questa storia così profonda, feroce, emotiva... Ci vivi dentro per quattro anni e ti rimane dentro.

Pensa che il tema sia stato sfruttato?

No, non credo. Penso si sia trattato di affinità. È possibile che continueranno a comparire nuovi autori che faranno film sulla guerra. Forse anch’io farò un altro film sulla guerra, o forse no, ma è normale aspettarselo. Ci sono ancora molte storie da raccontare, e verosimilmente molti autori che sentono il bisogno di raccontarle.

Sono sicuro che dopo la guerra non ci siano state pressioni politiche. Del periodo precedente non posso parlare. Sono sicuro che Hajrudim Šiba Krvavac credeva fortemente in quel sistema, era comunista, ed amava i film che faceva. Secondo me, i film partigiani erano gli unici validi di quel periodo. Loro erano i miei eroi, e guardo quei film sempre con gioia. A quei tempi, il cinema aveva una funzione educativa, era divertimento, educazione, informazione, doveva essere attivo, attuale.

Devo dire che oggi però c’è una sorta di censura. Per „Go West“ non abbiamo mai avuto il permesso per la proiezione nelle scuole. Altri film con momenti più lascivi l’hanno ottenuto. Il solo fatto che la storia coinvolgesse due omosessuali è stato sufficiente perchè al ministero non guardassero nemmeno il film. Ci sono molti pregiudizi.

Quanto sono importanti i festival per lo sviluppo di un cinema nazionale?

È molto importante che esista il Sarajevo Film Festival (SFF), un centro regionale molto serio e considerato non solo nei Balcani ma anche in Europa. Lì arrivano buoni film, persone con background diversi, contatti… Devo dire che mi mancano un po’ le prime edizioni, quando eravamo in pochi e c’era un caffè dove ci potevamo riunire tutti. Ora è diventato un festival enorme, dove fai fatica a trovare i punti d’incontro, le sale…

Come vede il suo futuro personale?

Se guardo al passato, mi ritengo fortunato e non desidero andarmene. Rimarrò a combattere con tutti i problemi di cui abbiamo parlato. Nel giro di due o tre mesi, ho in programma di realizzare un nuovo progetto. Sono ottimista e spero che tutto con il tempo andrà per il verso giusto. Penso che sia importante girare buoni film, e tanti. So che un film non può cambiare il mondo, ma può provare a smuovere qualcosa. È importante che la Bosnia Erzegovina si apra e abbatta certe barriere. A Banja Luka non si possono proiettare „Grbavica“ e „Go West“, credo invece sia importante che si possa vedere tutto e se ne parli. Penso che il dialogo sia la cosa di cui abbiamo più bisogno.
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