Trovato a: http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/9359/1/236>
Editing: Ljiljana Avirovic
La prima pietra della futura Ambasciata americana a Sarajevo è stata posata. Il palazzone sarà costruito nel posto più bello e più centrale della città. Subito accanto al monumento del presidente Tito.
Sono sicura che Tito, se fosse vivo, non avrebbe niente in contrario sui nuovi inquilini. Con gli americani lui aveva fatto pace già all'inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, subito dopo la rottura con l’Unione Sovietica avvenuta nel 1948. Tito ha rifiutato di sottomettere la Jugoslavia al potere del Komintern, un ente internazionale che riuniva i partiti comunisti.
Il niet di Tito a Mosca provocò un terremoto nel blocco dei Paesi comunisti, applausi in Occidente e una bufera in Jugoslavia. I comunisti jugoslavi, educati ad ammirare e ad accettare senza dubbio alcuno tutto quello che proveniva dall’Unione Sovietica, di punto in bianco si trovarono davanti al dilemma: la madre Russia o la Jugoslavia.
Quelli che non furono abbastanza veloci a cambiare il concetto vigente finirono a Goli Otok, l’Isola Nuda o Calva – una prigione, un gulag jugoslavo.
Resta un mistero famigliare il perché mio papà non fosse finito su quell’isola. Lui fu un accanito russofilo. In più, pare che avesse difficoltà ad amare gli uni senza odiare gli altri. Non sopportava proprio niente che provenisse dal mondo capitalista, America in testa. Tutto, compresa la lingua inglese, per lui era pericoloso, una mera propaganda e in quanto tale andava evitato.
Parlava francese e tedesco, mentre a noi proibiva di guardare la TV, figurarsi poi i film in lingua inglese. Alle prime battute urlava e immediatamente ordinava: ”Spegni!”.
Già negli anni Sessanta da noi erano apparsi i primi film e altri programmi TV americani. Molto popolare era il serial TV “Bonanza”. Una specie di “cowboy-soap opera”, che per noi fu una vera scoperta, dopo la lagna dei film sugli invincibili partigiani.
Ricordo ancora quel programma, certo non per la sua bellezza, ma per i due schiaffi guadagnati grazie a “Bonanza”. Protestai perché il papà non mi permetteva di guardarlo. In dispetto gli avevo girato le spalle piangendo disperatamente. Lui si sentì offeso e “zum” mi stampò due ceffoni.
La sua convinzione ideologica ci costò molto denaro. A scuola studiavo, ovviamente, la lingua russa. Ma presto ci siamo accorti che senza l’inglese non si va lontano, a prescindere dalla professione. Cosi dapprima i miei genitori, ma dopo anch’io, pagavamo di tasca propria le lezioni private d’inglese. Tutto in silenzio e senza che mai, da parte di mio papà, ufficialmente venisse riabilitata la lingua inglese.
Con gli anni la sua avversione nei confronti della lingua inglese e, in genere, del mondo occidentale andò scemando, ma la Russia, con tutti gli annessi e connessi non perse mai il primato. O quasi!
Durante l'ultima guerra mio papà rimase a Grbavica, un quartiere di Sarajevo occupato dai paramilitari nazionalisti serbi. Sia il papà che i suoi vecchi compagni, indifferentemente se serbi, croati o bosniaci, si sentivano offesi, traditi e umiliati dal comportamento dei nazionalisti che, come usava dire, "puntavano le armi contro i propri fratelli".
Poco prima che Sarajevo fosse riunificata, a Grbavica arrivarono i soldati russi inquadrati nelle forze internazionali. Il mio papà li aspettava come liberatori, come i giusti che avrebbero finalmente messo tutto in ordine.
Ma i batjuška, i "compagni", erano arrivati tenendo le tre dita in alto, il segno che facevano i paramilitari serbi o qualsiasi altro criminale venuto a rubare, a molestare o a uccidere. I soldati russi manifestavano apertamente la loro simpatia esclusivamente per i serbi!
A parte l’inizio della guerra, per la gente rimasta a Grbavica i momenti più drammatici furono i due mesi precedenti la riunificazione di Sarajevo. Tutto quello che non avevano rubato o distrutto durante i quattro anni precedenti, i paramilitari serbi si affrettarono a farlo in quei due mesi.
Sotto pericolo si trovarono tutti, compresi i serbi che rifiutavano di andarsene da Grbavica. La propaganda serba li incoraggiava a lasciare e a distruggere tutto quanto, perché non cadesse nelle mani dei balije, il termine dispregiativo che indicava i bosniaci musulmani. Alcuni di loro, quelli che decisero di lasciare Grbavica, aprirono addirittura le tombe per portare con se i resti dei propri cari.
In quei giorni il quartiere di Grbavica assomigliava a un posto da tragedia biblica: ovunque scene di panico, gli ultimi crimini compiuti in fretta, camion e carri a trazione animale pieni di roba rubata, gente che piangeva i propri morti seppelliti da lungo tempo. Furono proprio come recita un detto bosniaco: "Bei tempi per la gente cattiva".
In una di queste notti di buio pesto, non solo per la mancanza di luce ma anche per quello che succedeva dal punto di vista umano, i paramilitari serbi parcheggiarono un camion davanti a un palazzo semivuoto. Entrarono nell’appartamento, chiusero il papà nel bagno, e con tutta calma per l’intera notte trafugarono quello che era rimasto: caloriferi, lampadari, quadri, finestre, pentole, letti, divani, tappeti biancheria, oggetti personali come le medaglie con le quali il papà e la mamma furono decorati per la partecipazione alla Seconda guerra mondiale. Gli elettrodomestici bianchi, il televisore, la radio, i videoregistratori e quant’altro, erano già stati rubati all’inizio della guerra.
Ogni tanto uno dei criminali entrava nel bagno, il papà spaventato si alzava e quello gli ordinava di star seduto "perché se stai in piedi, vecchio, non posso tagliarti la gola". Cercavano i soldi che lui non aveva.
Infine, all’alba, appiccarono il fuoco all’appartamento, con il papà chiuso nel bagno. Fu salvato dagli amici e dai vicini. Una famiglia serba lo prese e lo tenne nascosto nel proprio alloggio per circa un mese. Correvano il rischio di essere uccisi tutti se fossero stati scoperti.
Tutto ciò lo abbiamo saputo dopo. Ma prima abbiamo trascorso cinque giorni senza sapere la sorte del papà. Cinque giorni di angoscia, di panico, di frenetica ricerca del cosa e come fare. Ci era giunta la notizia che "non c'è", nulla di più.
Mi ricordai che un americano, tale Daniel, un collega giornalista, si trovava a Sarajevo, ma dall’altra parte, quella sotto il controllo del governo centrale. Con grande difficoltà riuscii a contattarlo tramite un telefono satellitare, cosa rara e costosa all’epoca. Un’altra americana, tale Laura, fu coinvolta in questa ricerca disperata. Supplicai loro di fare "qualcosa" per il mio papà.
Daniel, rischiando lui stesso la vita nel caos che in quei giorni regnava a Grbavica, andò a cercarlo con un mezzo corazzato dell'Alto Commissariato per i Profughi. Una prima volta senza risultato. La seconda volta, invece, Daniel riuscì a scoprire che il papà era vivo e a sapere dove si nascondeva. Per aiutarlo gli lasciò 500 dollari! Una ricchezza che ti poteva salvare la vita.
Questa storia mi è venuta in mente leggendo la notizia che gli americani stanno per costruire l’ambasciata a Sarajevo.
Oggi i sarajevesi sperano che gli americani costruiscano il prima possibile questo palazzone; uno di quelli soliti con cinque piani sotterranei e altri dieci in alto, magari anche con diversi bunker, corridoi segreti, con le nuovissime attrezzature di spionaggio, pure con le armi, insomma, tutto quello che pare a loro.
Perché il messaggio più prezioso che ci fornisce questa notizia è che gli americani hanno intenzione di restarci. Ciò vuol dire che c'è speranza per la Bosnia Erzegovina. Lo ha confermato pure l’ambasciatore americano in Bosnia, English, dicendo: "Noi americani crediamo nel futuro della Bosnia Erzegovina, un futuro di un Paese indipendente, stabile e multietnico, capace di conquistarsi una sua collocazione in Europa".
E per quanto riguarda il mio papà? Non credo che avrebbe qualcosa in contrario alla presenza americana. Anzi! È sopravvissuto alla guerra, ha visto Sarajevo riunita e anche la famiglia ricongiunta dopo cinque anni di separazioni in cinque Paesi su tre continenti.
Io invece l’ho visto bere una grappa con l’amico americano, Daniel. Il papà gli dava pacche sulle spalle dicendo qualcosa che in inglese dovrebbe significare "Amici, amici". Poi lasciava a me fargli da interprete: il papà parlava in bosniaco e dopo, pazientemente e a lungo, ascoltava la mia traduzione in inglese confermando le parole con un cenno del capo.