Trovato a: http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/9420/1/236>
Di Raffaella Gonella
Come la carrozza di un treno color rosso fiammante freme per il suo primo viaggio nell’attesa del segnale di via, così io scalpitavo nella vettura della mia “locomotrice-guida”. Sapevo poche cose, ma in quel momento mi bastavano. Quasi nove mesi sono passati da questo”partire”, ma è stata così complessa la realtà percepita e vissuta durante/dopo questo
mio viaggio, che nuove ali sono nate e solo ora sanno ove andare. La mia mente ha custodito come in un sacco amniotico tutti i ricordi per riuscire a trovare il giusto momento in cui svelare quanto assorbito o compreso. Questo tempo è arrivato, poiché la mia vita ora volge verso il nuovo, è in questo “voltarmi” che sento la necessità di capire ciò che porterò con me o ciò che mi porterà con sé. In questo susseguirsi di stagioni -e tempo oserei dire materno- ho alimentato tutto il viaggio con ricerca di continuità e di senso. Con me anche un piccolo carnet che ora ri-annusando rivive scoprendovi e liberando annotazioni, ritratti e flussi di parole scritte mentre il mio sguardo coglieva la Bosnia nel suo naturale splendore, ritmato dalla presenza d’ampie distese ora secche e morbide, ed ora dolci ma con lo spuntare d’angoli improvvisi e quasi taglienti. Molte le espressioni rubate a persone sconosciute -grazie a matite che ho portato con me- e piccoli ma frequenti i ritratti della persona da me amata che accanto al mio essere germoglio, in quel momento vibrava ascoltando con me testi di autori come Ivo Andrić o per il suono delle musiche balcaniche (da lui stesso portate per dare giusta cornice e sapore a quel viaggio. Il tempo trascorso mi ha permesso di scegliere il titolo adatto:”…mai solo andata”, perché in Bosnia non si può che tornare. Il ritorno è un termine che non le si addice. Andata e ritorno può valere per un viaggio prettamente turistico in cui si arriva con una valigia e si ritorna con due (per contenere souvenir vari), no…qui no, il ritorno nasce spontaneo, poiché riporta “a casa” o meglio…
...laddove hai raccolto e lasciato un soffio di te.
La Bosnia era la nostra meta: terra che già in parte conoscevo, ma mai avevo avuto la fortuna di poterla osservare attraverso gli occhi di un suo amante. Con un po’ di timore iniziai il cammino poiché vi era in me la consapevolezza che non sempre lo stupore di un nuovo compagno di viaggio trova spazio di bianca e candida straordinarietà accanto allo sguardo di chi la strada o la meta RI-percorre senza lasciare a casa bagagli e gerle raccolte nei viaggi precedenti, ma tanto era il desiderio di affidarmi al suo sguardo, che mi ritrovai in poco tempo ad assumere una posizione comoda nel sedile anteriore e a gustarmi l’incanto della partenza.
Con forza silenzio ed impeto la “locomotrice” ripercorreva la strada ed io incominciai a non ascoltare quanto dentro la vettura era detto, ciò che là fuori incominciava ad apparire ai miei occhi era più che sufficiente per lasciarmi stare in silenzio. Cosa si poteva dire dopo aver visto la
Foiba di Basovizza?
Monumentale ed incolta la terra s’ergeva tutto intorno, ricordo un frastuono di voci che il mio animo sentiva passandovi accanto. Caldo, quel giorno era molto caldo ed il pomeriggio assolato rendeva molto intensa quella prima nostra tappa. Orrore, silenzio e un color verde bruciato hanno impresso profondamente nel mio diario celebrale, quei nostri passi tra ricordi non nostri, tra vite a noi lontane ed urla mai sentite dai nostri orecchi…in quel momento tutto ciò che svelavamo ci portava ad essere così vicini e forti da sembrare in grado di poter fare qualcosa d’utile solo con la nostra presenza e preghiera.
Non molto lontano ci fermammo poiché un
cimitero appartato e dimenticato attirò la nostra attenzione. Che tristezza… tra le tombe perfino salviette di carta, evidentemente non tutte le persone riconoscono a questi luoghi il rispetto ed il loro essere vivi. Rimasi ipnotizzata davanti ad una tomba in particolare. Una piccola ringhiera metallica arrugginita (che assomigliava a quelle in legno laccato che circondano i lettini dei bimbi) circuiva il rettangolo di terra sotto di cui vi era sepolto il corpo a cui rivolgere un pensiero. La terra secca e priva di verde erba con la“cornice” metallica, parve ai miei occhi simile ad una culla di concime avvolta da un lutto invisibile che portava/porta altrove. Me ne ritornai in macchina come una grand’assente…troppe erano le domande che chiedevano di essere espresse e che invece riuscivano solo a passare da un emisfero all’altro del mio cervello. Qualcuno cullava quelle tombe? Quella terra era così arida poiché non esistevano più lagrime che la bagnavano o perché viceversa, troppe erano state le gocce salate che avevano irrigato volontariamente quel fazzoletto di terra?
La macchina si allontanò sempre più, ma non ho dimenticato quel “fazzoletto” in cui più culle disposte in modo ravvicinato attendevano il trasformarsi di quel concime. Chissà se passassi ora…non mi sorprenderei di veder scorgere dei germogli, sicuro è che se tra pochi mesi il mio viaggio (iniziato però da luoghi e situazioni diverse) mi portasse a sfiorarle, non dimenticherei di portare dei fiori di carta in cui su d’ogni petalo, personalmente incise avrei parole e di-segni. Leggere materne e protettive, queste incisioni le farei solo per ri-cordare agli sguardi che per condizione divina ora dal basso guardano il cielo, che non sono soli e una sconosciuta (come tante) ha pregato per loro posandovi un fiore…quel fiore che solo la speranza ha saputo trasformare da una condizione statica di morte ad un vivo e colorato germoglio avvolto da una terra solo un tempo ritenuta sterile. Le cose da vedere erano molte e per apprezzarle mi scostai leggermente da quelle “
culle”.
Dal carnet un frammento tratto da
Racconti di Sarajevo, Ivo Andric: “In alto scorrono le stelle tra nuvole volteggianti. In lontananza sui binari invisibili, si muovono, più o meno velocemente, luci gialle e rosse, accompagnati dal penetrante suono dei fischietti dei conduttori o dal sibilo lungo delle locomotive in cui noi viaggiatori portiamo la malinconia della nostra stanchezza e il peso di una lunga sgradita attesa”
Molte sono le meraviglie della natura che ho visto correndo incontro ai
laghi di Plitvice. Quasi unici nel loro darsi costantemente senza dar segni di un passato preso d’assalto in una lontana ormai domenica di Pasqua nel 1991: il potere del turista o desiderio di futuro, che quasi come una carta assorbente restituisce senza reclamo l’inchiostro dopo il suo lavoro, portandosi con sé date e momenti poco leggeri? Un mordi e fuggi vedeva una moltitudine di persone scendere dagli autobus ed infilarsi in piccoli ma ordinati traghetti e passeggiare in fila indiana tra opere d’arti naturali fantastici per colori e onde di forme e suoni. Non sembravano voler sapere di “ieri” o il cercar risposte. Forse infondo ho anch’io attraversato velocemente quel lago facendomi trasportare dal flusso veloce di chi l’aveva già visto e delle folle che sembrano guardare l’incanto per dare giustizia ad un biglietto pagato. Avrei desiderato essere in grado di unire il tutto alla parte e viceversa…avrei desiderato osservare tutto più lentamente. Il contrasto incominciava a farsi sentire…in quella terra si passava con facilità da un alveare di persone a non vedere ed incontrare un turista per giorni…però ricordo nascondigli naturali che l’intreccio della vegetazione con l’acqua attraeva per immergersi con la fantasia, e noi n’avevamo molta…
I posti da lì in poi si sono susseguiti vorticosamente, le case che mi lasciavo alle spalle erano impenetrabili per i fori che la violenza di ieri aveva lasciato, da sinistra a destra…in alto in basso: la rosa dei venti pareva trasformarsi in una segnaletica statica che parlava della guerra. Intonaci tristi, crudi e incompleti ritmavano le case costruite da poco. Cercavo di immaginare le mani ed i cuori di quegli uomini, le mani che scorgevo davano l’impressione di contenere un po’ di tutto: passione, affetto, amore dolce ed esplosivo o denso di rabbia talmente compressa da poter ridurre in colline e pianure le alte montagne che circondavano case e nuove comunità. I volti che incontravamo sembravano o volerci scansare o essere desiderosi di narrare, di dire ciò che avevano visto…trattenuto. Tra tutti, diverse sono le persone riuscite ad esternare il dolore, la delusione… attraverso parole, immagini e l’arte ….ovvero han trasformato in altro ciò che gli impediva di sentirsi uomini, di essere in grado di viversi come essere liberi, di poter decidere della propria vita e dei propri confini. Altri sembrano solo aspettare, ma chi e quanti non riescono ancora a parlare? Quanti cercano persone che li sappiano ascoltare?
Questo ci chiedevamo passeggiando, questo conservavamo nel cuore incontrando città più o meno colorate. Nessuno potrà cancellare il dolore di ognuno, ma lo spirito di ciascuno non ha prezzo, e la forza di tutti ha diritto di essere orientata verso l’unità. Ma in che tipo d’unità possiamo sperare noi tutti? Quale libertà e a che prezzo?
Dal carnet un frammento tratto da
Racconti di Sarajevo, Ivo Andric: “Dopo la gran guerra si incontrano, specie fra gli intellettuali, molte persone così piene di rabbia e di indignazione, ma in un modo particolare, verso qualcosa di indefinito che era nella vita. Queste persone non trovano in se stesse né pace né capacità d’adattamento, né la forza necessaria per grandi decisioni”.
Il viaggio ha visto tappe indescrivibili per tensioni d’ogni tipo, ricordo il mio sguardo ai piedi di una statua di Tito, oppure volgendo il nostro intenso abbraccio al ponte a
Mostar…completamente nuovo si, ma restituendo la sensazione che fosse lì “posato” per restare, per non essere più abbattuto. La sua levigatezza e illuminazione serale mi parlava di un piccolo desiderio realizzato (non sempre visibile in quella terra): il rappresentare con pudore un popolo e la sua dignità, il suo futuro in divenire e la sua speranza nel poterlo far attraversare da mille e più generazioni sotto gli sguardi dei “custodi del ponte”.
Dal carnet appunti personali: Stiamo per arrivare a Sarajevo sinora vedo solamente la Miliačka ed uno scorrere e nascondersi di acqua entro rocce e radure insaccate. Com’era un tempo? Che emozioni…che contrasti contemporaneamente presenti qui. La musica di Balasevic riempiva la nostra macchina e stringeva le nostre mani intensamente mentre ciò che ci circondava e si intravedeva ci portava a fantasticare sul prossimo viaggio. Manca poco a Sarajevo incontreremo una sua amica, non vedo l’ora…
Il sole pian piano si nascose, e quella città sospesa ci accolse con vento e almeno 8 o 10 gradi in meno. Ricordo con piacere il momento in cui siamo andati in un negozietto vicino alla stazione delle corriere per comprare una maglietta per ripararci…abbiamo incontrato una donna che per anni aveva abitato in Veneto (vicino a dove abito io) e non finiva di farci domande, tanto quasi da voler ricevere conferme che i luoghi da lei visti fossero rimasti intatti, poi capii il senso della sua insistenza e le chiesi cosa voleva le raccontassi, non c’è stato il tempo, purtroppo è arrivata la dolce persona che attendevamo. Ma sia io che il mio compagno avevamo colto quest’intensa voracità d’appartenenza, e c’eravamo ripromessi di ripassare. Interessante era cogliere che durante tutti i nostri viaggi il fermarsi per ascoltare ed incontrare storie e sguardi non è mai venuto meno…un motivo ci sarà..
A Sarajevo come dimenticare l’intimità ed il piacere di un pranzo speciale nel quartiere turco a Bascarsjia. Ricordo di aver immaginato con grande intensità e realtà la vita accanto a chi con me condivideva il profumo di rose che il caffé mi donava.
Ora…del caffé però ricordo ancora l’aroma e la viscosità…
La sua amica ci fece “entrare nella sua casa” e nel suo “noi”, con lei abbiamo condiviso una bella e familiare serata. Anche lei era stupita da tutto ciò che scaturiva dal cuore di chi quei posti amava e da chi quel viaggio faceva non solo con la propria carne ma anche attraverso il cuore di chi si lasciava toccare dalle vibrazioni della storia e del susseguirsi delle stagioni. Non posso dimenticare gli sguardi che univano lei e la figlia: fierezza forza e determinazione. La dolcezza nel suo raccontarsi si è svelata e svela ancora. Ho la fortuna di poter continuare a sentirla. Le parole che ci scambiamo tessono una trama che avvicina distanze e costruisce ben più di un contatto in rete. Attraverso la verità dei suoi e miei racconti ritrovo e sento la passione per voler guardare a domani nonostante tutto, un domani che appartiene ad entrambi e a chi non teme di cambiare o cedere un po’ del suo passato per impossessarsi del futuro.
E’ per queste ragioni che ritengo doveroso “liberarci-liberare” il più possibile alla partenza i nostri “spazi per il viaggio”: per la necessità di vivere e portare a casa ciò che pienamente abbiamo vissuto visto e assaporato ovunque. Lo spirito del ritorno è forte e presto ritornerò in quella terra, l’acqua fantastica in cui sentire il desiderio di perdersi…mi chiama, quella amica da abbracciare e sua figlia da riempire di baci mi aspettano ed io qui aspetto loro.
Lo spirito è denso lì, come del resto lo è in tutti i luoghi abitati da chi ha VISSUTO. Mi ritorna in mente ciò che ho letto tempo fa di Ernst Junger : “L’uomo non deve mai dimenticare che le immagini che ora lo terrorizzano sono la proiezione della sua interiorità. Il mondo di fuoco, le case in fiamme e le città di rovine, le tracce della distruzione sono come la peste, i cui germi a lungo hanno proliferato all’interno prima di colpire in superficie. Sembra che lo stesso sia avvenuto da tempo nelle teste e nei cuori. E’ la materia stessa dell’uomo che si rispecchia nell’immagine del mondo, così come l’ordine interno si manifesta nella pace esterna. Perciò la cura deve applicarsi in primo luogo allo spirito, e solo la pace che scaturisce dal dominio sulle passioni può portare prosperità”.
Con nuove ali prendo ora il volo, lo spirito che mi solleva è denso di contraddizioni e di imperfezioni -come ogni “uomo” che si rispetti- ma tutto è “legato” da un unico desiderio: la speranza di cogliere nuovi orizzonti in cui potersi librare passando attraverso soli sconosciuti…venti ora contrari ora avvolgenti ma presenti e stimolanti. Questo viaggio è stato un inizio, ora si fa vicino il ritorno, e quella terra mi ha insegnato molto: dare importanza a quel equilibrio e quelle passioni in grado di permetterci di intraprendere libere e sonore partenze, solo così sarà possibile varcare “quei confini” privi di egoismo, con tanto spazio per accogliere il nuovo e lasciare tracce solari di sé, senza temere il buio della notte…infondo basta alzare gli occhi al cielo per cogliere l’azzurro che ci sovrasta…