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Il mondo di Vénera

23.05.2008    scrive Marjola Rukaj

Di origine albanese, diplomata all’Accademia di belle arti di Tirana e poi all’Accademia di Brera a Milano. Vive e lavora in Italia. Vénera Kastrati è un’artista che fa riflettere. In mostra al PivArte di Bologna fino al 31 maggio
Come mai un titolo così profetico, e drammatico, cosa vuole trasmettere la mostra “The woman produces the man, the man will kill her”?

Il punto d'inizio del progetto era il ruolo della donna, la fonte della vita, e la sua responsabilità, come la donna influisce nella formazione dell'uomo da cui poi dipende anche la felicità o la catastrofe della sua vita. Il titolo è l'inizio e la previsione di una fine quasi apocalittica. Il mio obiettivo era creare, in questa mostra, un ambiente dove trovare più domande che risposte. Una riflessione istintiva e razionale allo stesso tempo. Avevo disegnato la figura della donna come una macchina produttrice, meccanica, irresponsabile di quello che mette al mondo e che poi le si ritorce contro. Con la donna viene personificato l'ambiente sociale e culturale da cui parte, cresce e prende forma la nostra società. Proprio tra queste riflessioni nasce il mio studio degli oggetti giocattolo, l'elemento simbolico della formazione nelle prime fasi dell'identità di una persona.

Nell'installazione dei disegni esposti, in un'atmosfera di penombra, la mia intenzione era di percepire questa ricerca dei giocattoli di tutti i tempi e di tutte le epoche umane. Mi piace un detto di Andy Warhol: “Non è la vita stessa che cambia, nello stesso modo in cui si ripete?”. Il messaggio degli oggetti-giocattolo ha resistito ai tempi, sono cambiati solo i costumi e le tecnologie: i tempi cambiano ma la vita si ripete. Le più grandi società commerciali che producono giocattoli non si preoccupano di offrire ai bambini un mondo da creare e da costruire, ma offrono loro un mondo pronto all'uso.

Proprio questi prodotti giocattolo, che nascono con l’obiettivo di far soldi, sono la realizzazione della domanda dei clienti, cioè degli adulti. Per adulto intendo, in particolar modo, l'adulto produttivo. Nel cuore della mostra ho pensato di appendere un panello di plexiglas trasparente dove è stata stampata la figura di una donna giocattolo che invece di creare esseri umani produce piccole figure di giocattoli militari. Anche chi visita la mostra diventa parte di questa opera, perché attraverso l'illuminazione la sua ombra si riflette sul plexiglas. Ognuno di noi è figlio di una madre e ognuno di noi è responsabile di ciò che crea, in futuro, domani.

Ha creato una serie di disegni divisi in due categorie, giocattoli femminili e giocattoli maschili...

Sì, ho fatto una divisione quasi sessista dei giocattoli. Nei giocattoli femminili c'è una sensualità eccessiva, decisamente non infantile, che le bambole commerciali offrono, in quelli maschili mi sono concentrata sui giocattoli violenti, che spingono gli uomini bambini a creare le loro guerre immaginarie, in attesa di mettersi all'opera in catastrofi reali. Sono giocattoli che possono rivoltarsi contro colui o colei che ha offerto questi giocattoli ai bambini, contro la donna macchina generatrice che ha messo al mondo l'uomo.

Nella serie di disegni dedicati all'influenza del sentimento razzista, ho creato “White doll”, una bambola lanciata sul mercato inizialmente come una bambola di colore, e che, poi, rifiutata dal mercato, viene trasformata dalla stessa società commerciale in una bambola bianca, per meglio rispondere alle esigenze del pubblico.

Ho voluto rivolgere una particolare attenzione al video “Harvest moon”, molto vicino al detto “chi semina vento raccoglie tempesta”, che contiene una serie di simboli che trovo molto significativi. C'è una figura generatrice che coltiva il futuro, ma ciò che raccoglie è la sua catastrofe, perché l'erbaccia cresce e la soffoca.

Infine, per le tre foto esposte nell'unico spazio illuminato della mostra, attraverso la creazione delle scenografie da teatrino delle ombre, mi sono fatta guidare dal detto albanese “la mano che dondola la culla, domina il mondo”, che trovo molto vicina alle immagini gigantesche delle foto.

Con questa mostra si può notare un passaggio verso una concezione più universalistica delle sue opere?

Questa è una tematica interessante, che io ricerco intensamente. Come sostiene il regista e critico cinematografico François Truffaut: “Un'idea del cinema è anche un'idea del mondo”. Io penso che un'idea del mondo sia anche un'idea dell'artista. Se nell'idea dell'artista un pubblico di svariata provenienza geografica trova elementi sufficienti per riflettere, allora si può dire che l'idea dell'artista ha assunto una dimensione universale. Sentirei di aver realizzato la mia idea se riuscissi a raggiungere il territorio della concezione universale e penso che sia questa la fase di ricerca verso cui mi sto dirigendo. L'idea universale nasce innanzitutto con l'uomo e poi prende forma nelle sue opere.

Come ho detto prima, le società commerciali producono un articolo per piacere al pubblico. Anche l'artista può fare la stessa cosa, ma può anche scegliere un altro percorso, offrire al pubblico ciò che è parte del pubblico, per farlo riflettere intorno a un'opera da cui scaturiscono dubbi e punti interrogativi, dove l'idea non è qualcosa di ultimato e autosufficiente, ma che lascia spazio al completamento e all'immaginazione.

Come nascono i suoi lavori?

A volte le idee sono rimaste depositate per anni nella mia mente, aspettando il momento adatto per essere realizzate in un'opera. Altre volte può capitare che da esperienze nuove, o anche da qualche piccola emozione, si crei in me una confusione di idee da cui può nascere anche più di uno spunto artistico.

Quanta Albania c'è nel suo lavoro artistico? Come è stata filtrata l'Albania nella sua percezione?

Ho trascorso i miei primi 20 anni a Tirana, è impossibile che nelle mie opere non ci sia anche l'Albania. L'Albania per me è tutto ciò che ha a che fare con le mie esperienze personali, dell'infanzia, della famiglia, gli amici, gli ambienti in cui ho vissuto, la cultura, l'ambiente sociale, la mia formazione umana e l'istruzione. Da queste mie esperienze personali nasce anche il mio incontro con l'universale. Quindi l'Albania riesce a infiltrarsi spesso, anche istintivamente e in modo inconscio, nelle mie opere, perché è una parte molto importante della mia identità.

Che cos'è l'Albania della dittatura agli occhi di una bambina che la viveva all'epoca, e di un'adulta che riflette ora da artista?

Non posso dimenticare l'energia che si era creata intorno ai progetti “Appuntamenti al buio”, e “Not choose not to be”, che ho esposto per la prima volta alla fiera di Bologna, curata da Harald Szeeman, nella mostra “Balkan as crossroad to the future”.

Avevo scelto di rappresentare la dittatura vista con gli occhi di una bambina, perché ciò che possono interpretare i bambini non può mai essere estremamente drammatico. L'ingenuità e la leggerezza con cui esprimono persino il dolore più grande, lascia sempre una porta aperta alla riflessione e alla discussione. Considerandolo ora dal punto di vista di un’artista più matura, l'Albania della dittatura ha lasciato in eredità le attuali difficoltà sociali, culturali ed economiche. Il risultato di tutto ciò lo scorgo come un flash back negli occhi spenti della generazione dei nostri genitori. Si nota il dispiacere per gli anni che non ritorneranno mai più. La libertà di viaggiare oltre i confini dell'Albania, che è un grave problema persino oggi. Le tensioni e le paure per affrontare il domani, ma su questo ritorno a quello che si definisce universale.

Quali sono i suoi rapporti con l'Albania oggi? Come si riflette la sua immagine odierna?

Il mio massimo orgoglio è quando riesco a contribuire attraverso le mie opere e il mio nome a far sì che dell'Albania si parli in modo positivo nel mondo. Il vivere da straniera in un paese così vicino all'Albania come l'Italia, mi ha costretto a intraprendere un intenso lavoro per rompere l'immagine errata del prototipo albanese in Italia, forgiata attraverso tutti i mezzi che diffondono notizie sull'attualità e sulla cronaca quotidiana. Si viene a creare così un'immagine errata delle persone, soffocando del tutto la loro individualità. E questo può succedere anche per lo straniero arrivato dagli Stati Uniti, dalla Francia come dall'Albania. Oggi bisogna mettere in mostra una nuova immagine reale dell'Albania, che è sempre esistita ed esiste, e di cui vale la pena essere orgogliosi. Si tratta di informare sull'arte albanese, sullo sport, sul cinema, sull'architettura, sulla letteratura ... sulla gente che lavora sodo e che produce, dà il massimo di sé per perseguire proprie passioni ed obiettivi, e lì sia in Albania sia all'estero i nomi da menzionare sarebbero davvero tanti.

Spesso le sue opere sono anche delle interpretazioni di diversi aspetti storici che hanno coinvolto molti albanesi, come sono state accolte in Italia?

Penso ci sia stata molta curiosità. Ho ricevuto molta fiducia ed entusiasmo per i miei progetti da diverse gallerie in tutta Italia, e da curatori come Harald Szeeman, o da artisti importanti e appassionati come Adrian Paci. Sono tutte cose che mi hanno aiutato nella mia ricerca, mi hanno fatto coltivare la fiducia in me stessa.

Cosa significa essere un'artista albanese in Italia?

Penso che un artista, ovunque sia, è fortunato se riesce a vivere di quella che è la sua passione. Più che parlare di come viva un artista albanese in Italia, vorrei sottolineare che è difficile essere artisti in Italia. Oggi l'artista è molto impegnato, ha molta responsabilità e assume diversi ruoli, quindi la personalità dell'artista di per sé è molto complessa. Occorrono sacrifici, perseveranza e fiducia nella propria arte, altrimenti si rischia di perdere l'artista che uno si porta dentro.

Come si potrebbe definire, in coordinate geografiche, la sua identità artistica? Con una storia divisa tra l'Albania e il Kosovo, un confine di pochi passi che per moltissimi anni era ermetico ed invalicabile, come si rispecchia tutto ciò nelle sue opere?

Ho realizzato diversi progetti che trattavano principalmente questo tema, come “7 passi”, “Mirupafshim, shadows of voices”. Parlando delle mie esperienze personali, dei miei ricordi, non posso non menzionare il confine, un muro di lacrime e di dolore tra il Kosovo e l'Albania che è un elemento che ha lasciato tracce indelebili nella mia vita. Ovviamente non è un fenomeno che ha riguardato solo me, ma molti altri che per anni sono rimasti divisi senza potersi rincontrare . Questo ricorda il muro di Berlino, una separazione dell'uomo dall'uomo non solo fisica, ma anche politica ed economica.

La mia famiglia è originaria del Kosovo e da sempre aveva alimentato in me l'amore per questo paese immaginario e proibito. Ho cercato di tirare fuori, attraverso i miei lavori, le sensazioni e quello che ho vissuto quando abitavo a Tirana, soprattutto il lato poetico e il sentimentalismo mitizzato a causa dell'impossibilità di contatto. La poesia che ho trovato nei ricordi di mio padre, dai tempi del regime, che conservava di nascosto i fazzoletti di mia zia, sua sorella del Kosovo, (l'ho trattato nel progetto “7 passi”) e il nastro di una cassetta di un lontano ricordo in cui erano state registrate le voci che si salutavano formalmente, nel corso di un incontro primo e forse ultimo tra fratelli separati da un confine (nel mio progetto “Mirupafshim, shadows of voices”). Tutti questi sentimenti ad un certo punto si sono trasformati in esigenza di comunicazione, per poter esprimere le emozioni più forti e più assurde di quel periodo.
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