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Il giorno della gioventù

29.05.2008    Da Trieste, scrive Azra Nuhefendić

Il 25 maggio, data del compleanno di Tito, è rimasto per generazioni di jugoslavi a simboleggiare la festa dei giovani, quando la staffetta consegnava il proprio messaggio al presidente nello stadio di Belgrado. Immagini da un mondo capovolto
Prozor è una piccola città della Bosnia centrale, un vero rifugio naturale. Acquisisce importanza solo durante le guerre, o in occasione di catastrofi naturali. Finita l’emergenza la città slitta nell'oblio, sparisce dall’agenda dei grandi lavori di sviluppo, presto si abbandonano le promesse di far crescere quel “posto storico”.

Soltanto una volta, nella sua storia, a Prozor è arrivata una lettera dal presidente della Repubblica. L’evento ha causato il panico.

Il postino, invece di consegnare la lettera al destinatario, l’ha portata al direttore della posta; quest'ultimo ha composto subito tutti e tre i numeri telefonici esistenti: quello del sindaco, del capo della polizia e del presidente del comitato locale del partito comunista.

Si allarmarono tutti e tre: si vedevano già licenziati, trasferiti, caduti in disgrazia.

Presi dal panico, i tre massimi non si erano accorti che la lettera era destinata a me e non al mio papà che, proprio in quel momento, si trovava a Belgrado.

La delegazione delle massime cariche politiche, più il direttore della posta, ha portato la lettera a casa nostra e l’ha consegnata a mamma.

“Ah, sì” - ha detto lei con una finta voce tranquilla, come se fosse la cosa più normale del mondo ricevere una lettera da Tito in persona.

Poi ha letto, ad alta voce, le due righe di cortesia. Il presidente Tito mi ringraziava per gli auguri che gli avevo fatto per il suo compleanno.

Quella lettera è la prova scritta che io volevo bene a Tito anche prima di compiere sette anni. Ancora prima di quella data, infatti, avevo imparato dalle amichette che, quando ti chiedono chi ami di più, prima si nomina Tito, e poi magari mamma e papà. Da piccoli giuravamo anche sul suo nome.

Negli anni cinquanta pochi festeggiavano il proprio compleanno. Passava senza neanche che te ne accorgessi, perché non c’era l’usanza, o forse perché in quella povertà collettiva non ci si badava.

La consegna della staffetta al Maresciallo Tito
Il compleanno di Tito, invece, lo aspettavamo con ansia. Si festeggiava il 25 maggio, che fu proclamato festa della gioventù. Per decenni, maggio per noi è stato un mese speciale. Tutto il mese si facevano varie feste, competizioni sportive, spettacoli teatrali, gite, gare, tornei, concorsi letterari, festival di poesia, la fiera dei fiori. La consegna della staffetta a Tito era l’apice di una grande festa finale che si faceva allo stadio di calcio, a Belgrado.

Nel messaggio che conteneva la staffetta, noi giovani giuravamo di diventare più buoni, più bravi, insomma migliori in tutti i settori.

Finita l’infanzia, si abbandonava il sogno di essere scelti per portare la staffetta, onore riservato ai migliori tra noi.

Quando eravamo più grandi ridicolizzavamo l’evento, o con ironia “giuravamo” su Tito “che non avevamo cominciato a fumare”, che “non avevamo tradito la fidanzatina”, ecc. Ci consentivamo questi scherzi innocenti. Ma quando Tito morì, per noi fu una tragedia vera.

Mi trovavo a New York e, piangendo, restavo per ore davanti alla TV a guardare le immagini del funerale. Mio zio mi prendeva in giro, diceva quello che non volevo sentire, che Tito era un dittatore, che faceva la bella vita mente noi, il resto degli jugoslavi, vivevamo in miseria.

Tito è morto nel 1980. Ancora oggi, ogni tanto, mi capita di discutere con la gente su Tito e su di noi, ex jugoslavi.

Quell'epoca non la ricordo né per la staffetta, né per la vita che Tito magari faceva ma, appunto, per la vita che faceva la gente comune, come me.

Da noi la parola America, in gergo, si usava come misura di un qualcosa di migliore. Uno magari passava le vacanze in un certo posto e, alla domanda: "Com'era?", rispondeva: “America”, voleva dire super.

Stando davvero in America, negli anni ottanta, ho capito che America era la Jugoslavia dell’epoca. Certo non come il posto del lusso, della ricchezza o della massima democrazia, ma per il contenuto e la qualità della vita, la sicurezza personale e collettiva, e la libertà che avevamo.

Mio zio, che “era scappato dalla miseria della Jugoslavia”, in America ha coronato il suo sogno: una grande casa, macchine di lusso, un giardino con piscina, ma moriva d’ansia per la paura di ammalarsi, dato che una malattia prolungata poteva portargli via tutto il guadagno.

In Jugoslavia i valori erano diversi, non ci si spaccava per avere, ma ci si sacrificava per essere. Non eravamo tutti uguali, ma si badava alla giustizia sociale. L’educazione era uno degli scopi principali della società: della mia classe di 40 alunni, 38 hanno finito l’università.

Oggi, cercandoli su google, li ritrovo come professori universitari in Australia, ingegneri in Canada, medici in America, ricercatori, scienziati in quasi tutti i Paesi europei.

Il sistema sanitario funzionava bene, e per tutti. C’era lavoro, gli intellettuali erano membri della società distinti e sostenuti dal governo, talvolta a un punto esagerato: bastava pubblicare un libro di poesia per ottenere il titolo di scrittore e godere di vari privilegi. I lavoratori guadagnavano e potevano dire quello che pensavano.

Ci sentivamo protetti e vivevamo senza angoscia. Eravamo parte della comunità internazionale, siamo cresciuti con un sentimento di appartenenza ad una nazione grande e importante. Ci educavano all’entusiasmo anche per quello che non era personale, ma bene comune. Eravamo liberi di viaggiare.

Con tanta nostalgia ricordo l’ultima volta che ho potuto viaggiare da persona libera, nel 1989, poco prima che cominciasse la guerra.

Dopo una notte in ristorante, mi pareva più semplice andare dritta in aeroporto invece di tornare prima a casa. La mattina presto, mentre aspettavo che si aprissero gli sportelli, giocavo con me stessa: se il primo volo sarà per Sarajevo andrò là, se invece il primo volo sarà per Trieste, andrò in Italia.

Una cosa del genere, per noi della Bosnia, ma pure per i cittadini di Serbia, Montenegro, Macedonia e Kosovo, oggi sembra fantascienza. Da là non ti lasciano uscire prima di aver subito una lunga e umiliante procedura. Con i documenti necessari, una cartella della spesa, devi metterti nella fila che comincia a crearsi alle 4 di mattina davanti a qualsiasi ambasciata straniera.

Superato tutto, non è detto che finirà bene: il mio amico Goran, giunto all'aeroporto di Heathrow con tutti i documenti a posto, è stato detenuto e interrogato dalla polizia inglese tutta la notte. Il giorno seguente si sono scusati, ma lo hanno rispedito indietro.

L’80 per cento dei giovani di oggi non ha mai viaggiato fuori dal Paese, e lo stesso numero afferma che non vede il proprio futuro in Bosnia.

Nel 1978, a Londra si meravigliavano perché mi avevano lasciato uscire da un Paese comunista; oggi, in Occidente si meravigliano perché mi hanno lasciato entrare in Europa.

Ma più del non poter viaggiare ci pesa la sostanza della vita in Bosnia. Si vivacchia appena. L’ingiustizia sociale è diffusa, la corruzione ovunque ben radicata. Il Primo ministro, in pubblico, parla di come ha fregato lo Stato e i cittadini. Il divario tra i poveri e i ricchi cresce senza che nessuno se ne preoccupi. La disoccupazione è al 60 per cento. Negli ultimi tre anni, decine di ex militari bosniaci si sono tolti la vita: il motivo principale e’ la povertà.

Quello che non è stato distrutto durante la guerra si sta rovinando ora, a causa della negligenza o degli affari che non badano né al futuro né all'ambiente: più di 10.000 discariche abusive sono sparse per tutta la Bosnia.

Le foreste vengono abbattute, per esportare la legna, ad una velocità spaventosa. In un villaggio della Bosnia centrale i lupi hanno attaccato la gente perché senza la foresta hanno perso il loro rifugio naturale. Gli scienziati avvertono: se si continua con la deforestazione, tra 20 anni avremo problemi con l’acqua potabile.

I politici corrotti rilasciano permessi per costruire nei parchi naturali, sui siti archeologici, svendono le bellezze naturali e quello che abbiamo costruito insieme. L’ultima notizia ufficiale: 500 milioni di euro sono spariti nel processo di privatizzazione (v. il recente rapporto di Transparency International).

Cresce il numero di analfabeti, studiare è diventato un affare costoso. I valori sociali sono capovolti rispetto a prima. C’è tanta prostituzione, traffico di armi, traffico di droga e di esseri umani. Quelli che devono combattere contro questi mali, i poliziotti, spesso fanno la parte dei criminali.

La sicurezza e’ allo zero, o quasi. Una volta, se ti capitava di addormentarti sulla panchina nel parco, la cosa peggiore che ti poteva capitare era che qualcuno ti coprisse, per non prendere freddo. Oggi in pieno giorno, nel centro di Sarajevo, possono succedere sparatorie tipo far West.

Fino a 20 anni il mio problema principale era quello di non avere un paio di jeans o le scarpe italiane.

Oggi il regista Danis Tanovic, premio Oscar per il film "No man's land", è tornato con la famiglia a Sarajevo, dopo 10 anni trascorsi all'estero, e descrive così la situazione:

"Sono tornato con l'intenzione di vivere in Bosnia, ma ho capito subito che la vita normale qui non è possibile. Non posso accettare che i bambini vadano in asili nidi diversi, separati dalla religione, o di dover aspettare cinque mesi per poterli far operare alle tonsille, non posso vivere accanto a gente che vende un rene perché gli stipendi sono così bassi, e dove la polizia scappa dal luogo del crimine".

"Una volta vivevamo una vita normale", ripetono spesso quelli che si ricordano della Bosnia prima della guerra. Restaurare la vita normale, con questo scopo il regista Danis Tanovic, i suoi amici e quelli che condividono le sue idee, hanno creato un nuovo partito politico, "Nasa Stranka", "Il nostro partito".

I membri sono di tutte le nazionalità. Già questo fatto, per la Bosnia Erzegovina di oggi, è promettente.
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