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Le responsabilità dell'Europa

29.05.2008   

L'Europa deve riprendere l'iniziativa nei Balcani occidentali, definendo una chiara strategia regionale e un quadro certo per l'integrazione dei diversi Paesi nell'Unione. Il rischio di una nuova crisi, di vaste dimensioni, non è scomparso. L'editoriale di Courrier des Balkans
Di Jean-Arnault Dérens, per Le Courrier des Balkans, 26 maggio 2008 (titolo orig.: «Balkans occidentaux: les responsabilités de l’Union européenne»)


Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Carlo Dall’Asta


Ora che siamo giunti alla metà di questo 2008 il peggio, che molti temevano, è stato evitato? Il Kosovo ha proclamato la propria indipendenza il 17 febbraio, senza che ciò abbia provocato una burrasca nella regione. La Serbia ha votato l'11 maggio, dando un netto vantaggio alle forze europeiste. Certo, il governo serbo non è ancora stato formato, le elezioni macedoni del primo giugno si stanno preparando in un contesto di estrema tensione, e la missione europea Eulex in Kosovo non si svolgerà a partire dal 15 giugno come previsto. Forse il peggio è stato evitato, ma i Balcani si trovano sempre in mezzo al guado. E solo l’Unione Europea può formulare un progetto politico capace di orientare la regione verso una duratura uscita dalla crisi.

La strategia europea ha pagato. Siglando il 29 aprile un Accordo di stabilizzazione e associazione (ASA) con la Serbia, l’UE ha incontestabilmente dato una decisiva «spintarella» alle forze democratiche in Serbia. Anche se a Belgrado prosegue ancora un oscuro teatro politico, il significato del voto dell'11 maggio è chiaro e senza appello. È una buona notizia per la Serbia. Soprattutto è una buona notizia per l'Europa.

Questo voto ha mostrato che, malgrado gli errori accumulati dagli europei in tutti questi ultimi anni, malgrado le loro politiche spesso esitanti, contraddittorie e pusillanimi, la prospettiva europea continua a mobilitare i serbi. La «carota europea» non ha perduto la sua attrattiva.

Tuttavia come giustificare, in Bosnia-Erzegovina o in Macedonia, la decisione europea sulla Serbia? I dirigenti europei non si vergognano di gioire di una «riforma» della polizia in Bosnia Erzegovina, una riforma strappata con le pinze e che non cambia nulla, e il Paese dovrebbe firmare l'Accordo di Associazione e Stabilizzazione il 16 giugno – il ritardo viene ufficialmente spiegato con dei problemi di traduzione! Ma la Bosnia continua a macerare in una interminabile crisi sociale e politica.

Javier Solana tornerà a Skopje

La Macedonia, che aveva fatto degli importanti passi in avanti – gli accordi di pace di Ohrid e la concessione dello status ufficiale di candidato all'UE – ha appena subìto un grave scacco al summit della NATO a Bucarest, col veto opposto dalla Grecia al suo ingresso nell'Alleanza atlantica.

Mentre in questo Paese si organizzano le cruciali elezioni legislative del primo giugno, questo scacco non può che condurre a una nuova radicalizzazione. Il Primo ministro Gruevski conta di assicurare la vittoria del suo partito, la VMRO-DPMNE, rinsaldando l’elettorato macedone attorno ad una affermazione identitaria e nazionalista, cosa che non può che radicalizzare ancora di più, specularmente, l’elettorato albanese, mentre già i due principali partiti albanesi, il Partito democratico degli albanesi (PDSH/DPA) e l’Unione democratica per l’integrazione (BDI/DUI), si fanno una violenta concorrenza.

Oggi la Macedonia va peggio che mai e l'ipotesi di una ripresa dei confronti armati non può più essere scartata, sia che l'iniziativa parta dai simpatizzanti del BDI, che da quelli del PDSH. Se questo scenario catastrofico si verificasse, si vedrebbe allora Javier Solana tornare d'urgenza a Skopje e tutti i leader europei chinarsi nuovamente su quel dossier macedone che hanno lasciato a marcire per anni, e in particolare rifiutandosi di richiamare Atene alla serietà ed alla responsabilità.

Come comprendere la politica condotta per anni dall'Unione Europea nei Balcani? Il suo principio è semplice: affrontare le crisi solo quando divampano, tentare di spegnere le micce più vicine al barile di polvere, senza tentare mai di definire una strategia regionale.

Già negli anni '90, la politica europea poggiava su due principi, o piuttosto su un principio ed una credenza. Un principio, tentare di separare i problemi, di isolarli gli uni dagli altri, mentre evidentemente il processo di disintegrazione dell'ex Iugoslavia doveva essere afferrato nella sua totalità. Ed una credenza, quella che il tempo, da solo, magicamente, sarebbe stato sufficiente ad attenuare le tensioni.

Dodik, un partner così «responsabile»

L'esempio della Bosnia-Erzegovina, che ha perso dodici anni dopo che nel 1995 è tornata la pace, prova invece che il tempo da solo non può aggiustare nulla. Ed in otto anni, dal 1999, si sono perdute numerose opportunità di dare impulso ad una vera regolamentazione della situazione nel Kosovo, che richiedeva di impegnarsi in un compromesso storico serbo-albanese, a causa dell'indecisione degli attori internazionali, e specialmente dell'Unione Europea. Alla fine, nel caso del Kosovo, si scelse di agire con precipitazione per mettere in opera una soluzione che ha ben poche speranze di garantire una durevole ricostruzione democratica dei Balcani.

L'Europa temeva l'impazienza degli albanesi del Kosovo? Bisognava dunque accettare l'indipendenza, senza avere mai cercato di aprire la strada ad un vero compromesso, che avrebbe richiesto di trovare formule e soluzioni politiche inedite.

L’Europa aveva paura delle reazioni serbe dopo la proclamazione dell’indipendenza del Kosovo? Ecco aprire d'urgenza le porte che per anni erano rimaste chiuse alla Serbia, a costo di «relativizzare» le esigenze che l'Unione stessa aveva formulato, quali la piena cooperazione col Tribunale dell'Aja e l’arresto degli ultimi latitanti.

La Bosnia e la Macedonia, all'opposto, non fanno molto parlare di sé? Ebbene, che le si dimentichi intanto che ci si occupa dei dossier più roventi… In Bosnia-Erzegovina, la «strategia» europea si può riassumere in una parola sola, la «stabilità», o piuttosto l’illusione della stabilità: che nulla si muova finché il Kosovo e la Serbia restano dei barili di polvere pronti a esplodere. In queste condizioni tutti si accontentano della riforma-bidone della polizia, tutti si adeguano alla deriva autocratica di Milorad Dodik, l'onnipotente padrone della Republika Srpska che, al di là delle sue rodomontate demagogiche, da dietro le quinte rassicura gli europei, sussurrandogli quello che essi vogliono sentire: che con lui nulla si muoverà, lo status quo sarà mantenuto… E tanto peggio se questo status quo è mortifero per il Paese, che i giovani e i diplomati abbandonano in massa!

Albania, Kosovo, Bosnia, Macedonia: dei trascurabili «margini»?

Secondo gli scenari più ottimisti, la Croazia dovrebbe raggiungere l’Unione a partire dal 2011 al più tardi, e la Serbia potrebbe seguirla rapidamente. Il piccolo Montenegro potrebbe forse intrufolarsi e saltare sul treno… Ma per quanto riguarda gli altri Paesi?

Che ne sarà della Macedonia, se ricadrà in nuovi conflitti, e specialmente se la Grecia persisterà nell'opporre il proprio veto a tutti i processi che riguardano l'integrazione di questo Paese? Cosa della Bosnia-Erzegovina? Cosa del Kosovo? Cosa dell'Albania?

Il Kosovo e la Bosnia-Erzegovina potranno sempre dirsi che l'aver «beneficiato» dei costosi sforzi di «state building» e di «democratizzazione», di una tutela internazionale, è il modo più sicuro per rimanere a lungo esclusi dall'integrazione europea.

Per evitare una nuova grave crisi regionale, la cui ombra non è scomparsa, è necessario che l'Europa riprenda l'iniziativa, convocando un grande summit regionale, elaborando un calendario preciso di integrazione per l'intera regione, probabilmente inventando anche nuovi specifici strumenti di pre-adesione
L'integrazione della Croazia e della Serbia saranno sufficienti per «stabilizzare» definitivamente la regione, pur lasciandosi a lato dei «margini» condannati alla miseria e al sottosviluppo? Si può dimenticare la bomba sociale che il Kosovo sempre rappresenta? Si possono dimenticare i pericoli potenziali di una «questione nazionale albanese» irrisolta? Dell'emergere - fino ad ora sempre rimandato, ma la cui minaccia non è tuttavia sparita – di un islamismo radicale che troverebbe nutrimento nell'humus delle frustrazioni sociali e politiche?

Si può, al contrario, integrare in blocco, fin da domani, dal 2010 o dal 2011, l'insieme dei Paesi dei Balcani occidentali? Probabilmente no, ma è urgente ridare un senso alla promessa di integrazione formulata in occasione del summit europeo del giugno 2003 a Salonicco. È urgente rompere con certi dogmi ipocriti dell'Europa, come quello dei criteri di convergenza e dell'approccio caso per caso ai differenti Paesi.

Per evitare una nuova grave crisi regionale, la cui ombra non è scomparsa nonostante il bilancio «globalmente positivo» di questo inizio d'anno, è necessario che l'Europa riprenda l'iniziativa, convocando un grande summit regionale, elaborando un calendario preciso e contrattuale di integrazione per l'intera regione, probabilmente inventando anche nuovi specifici strumenti di pre-adesione.

Di fronte alle crisi che minacciano di scoppiare, l’Unione europea non può sfuggire alle proprie responsabilità.