Una questione europea
12.06.2008
Kosovo - foto di Mario Salzano
Il Kosovo post-indipendenza nel reportage di viaggio di Paolo Bergamaschi, consigliere per gli affari esteri del Parlamento europeo. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Paolo Bergamaschi
Un buco nero. Non grande ma profondo, quasi un abisso. Rischia di assorbire e prosciugare le scarse energie europee trasformandosi in un pozzo senza fondo. Caderci dentro potrebbe essere fatale per chi sta gradualmente cercando di costruirsi una credibilità sulla scena mondiale. Il Kosovo, di questi tempi, è certamente il luogo di maggiore attualità ed urgenza per la diplomazia internazionale. Chi pensava che la dichiarazione unilaterale d'indipendenza dello scorso 17 febbraio avesse fatto calare il sipario su un processo durato troppo a lungo, e posto finalmente termine all'intervento sconclusionato della NATO nel 1999, è costretto a ricredersi. Non c'è nulla di facile nei Balcani. Fare la guerra è un conto, fare la pace un altro. Anche le cose apparentemente più semplici possono rivelarsi estremamente complicate. Fare tappa da questi parti è d'obbligo, ma ogni volta che devo recarmi a Pristina mi assale una sensazione a metà strada fra la malinconia e la rassegnazione. Anche se il fitto calendario di incontri lascia poco spazio alle delegazioni per altre attività, fa sempre piacere dare un'occhiata fuori della finestra e scorgere qualcosa di bello e attraente. A Pristina non c'è nulla che possa destare l'attenzione di un visitatore. Perfino il viaggiatore più attento, una volta ripartito, stenta a trattenere nella memoria qualcosa di significante della città.
Sono ancora poche le compagnie aeree che fanno scalo in Kosovo. Il militare del contingente internazionale che siede al mio fianco, con altri sparsi alle mie spalle, mi ricorda che sono quasi 16.000 i soldati della NATO stazionati da queste parti. Fra i passeggeri, inoltre, sono facilmente riconoscibili alcuni membri della missione delle Nazioni Unite UNMIK, che da nove anni amministra la piccola oramai ex provincia serba. Anche se in corso di ridimensionamento, dispone tuttora di qualche migliaio di unità. L’economia del paese dipende in buona parte dal personale internazionale, almeno per quanto riguarda quella pulita, quantificabile alla luce del sole. Sono già stati prodotti alcuni studi, al riguardo, sull’impatto negativo che avrà il graduale sfoltimento degli operatori stranieri sullo scarso prodotto interno lordo. Per l’altra parte dell’economia, quella sommersa ed in buona parte nera, non esistono, ovviamente, statistiche ufficiali anche se gode di ottima salute ed è ben presente nei circuiti collaterali del potere locale.
Senza alcuna sorpresa le autorità kosovare hanno deciso di affrancarsi dalla tutela internazionale dichiarando la secessione del paese dalla Serbia. Era un passaggio obbligato. Il protettorato delle Nazioni Unite non poteva continuare, almeno non nei termini attuali. La risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza è ancora formalmente in vigore, ma adesso si apre una nuova fase. Due anni di colloqui fra serbi ed albanesi per trovare una via di uscita al limbo diplomatico in cui ci si trovava non hanno prodotto alcun risultato. La distanza fra le parti era incolmabile: impossibile trovare un punto di incontro fra chi era disposto ad offrire tutto fuorché l’indipendenza e chi era disposto a rinunciare a tutto fuorché all’indipendenza.
I legami fra Belgrado e Pristina sono stati, di fatto, recisi irreversibilmente nel 1999. Se errore ci fu, questo fu commesso allora. Pensare di poter riportare le lancette dell’orologio a quell’epoca, ormai, non ha senso. Ha ragioni da vendere, però, chi sostiene che la separazione di Pristina è avvenuta in violazione della legalità internazionale. La risoluzione 1244, infatti, riconosce formalmente l’integrità territoriale e la sovranità della Serbia sul Kosovo anche se da anni la realtà sul terreno attesta il contrario. La comunità internazionale aveva provato a risolvere l’equivoco nominando un mediatore internazionale, l’ex presidente finlandese Ahtisaari, a cui era stato conferito l’incarico di formulare una proposta complessiva che portasse alla definizione dello statuto finale della provincia a maggioranza albanese. L’opposizione di Belgrado, però, e soprattutto il veto della Russia, hanno fatto naufragare ogni tentativo. Lo strappo fra Kosovo e Serbia si è consumato, così, in una domenica di febbraio quando il parlamento provvisorio di Pristina ha dichiarato solennemente l’indipendenza seguita, il 9 aprile scorso, dall’adozione della costituzione che entrerà formalmente in vigore a partire dal prossimo 15 giugno.
Il Kosovo è una questione europea, sono soliti ripetere nei corridoi delle istituzioni comunitarie. Gli stati dei Balcani hanno acquisito da qualche anno lo status di candidati potenziali all’adesione all’Unione. Del tutto ovvio, quindi, che la stessa Unione Europea si sia assunta il compito di svezzare il neonato paese per prepararlo al grande passo che dovrà effettuare una volta cresciuto. Come spesso accade, però, nel momento decisivo Bruxelles ha deciso di non decidere. I ministri degli Esteri dell’Unione, infatti, messi di fronte al fatto compiuto dell’indipendenza, hanno deliberato di lasciare a ciascun paese membro la facoltà di decidere le proprie relazioni con Pristina in accordo con le rispettive tradizioni nazionali ed il diritto internazionale. In altre parole l’Unione Europea non è riuscita a trovare una posizione comune e, per evitare di mostrarsi divisa, si è rifugiata sul terreno del rispetto delle pratiche individuali. Paradossalmente, però, i membri dell’Unione si sono trovati d’accordo sull’invio in Kosovo di una missione europea, chiamata EULEX, che ha come obiettivo l’assistenza alle giovani istituzioni democratiche, alle autorità giudiziarie ed agli organi di sicurezza, per rafforzarne la sostenibilità e l’autonomia ed assicurare, nel contempo, l’applicazione degli standard internazionali di buon governo. Duemila persone, nei prossimi mesi, fra giudici, poliziotti e doganieri, dovrebbero essere dispiegati, in questo contesto, nel territorio kosovaro. Fra questi anche unità di quei paesi come Spagna, Grecia, Cipro, Slovacchia, Romania e Bulgaria che, per adesso, non hanno alcuna intenzione di riconoscere il nuovo stato.
Quando fu concepita la missione EULEX vi era la convinzione che alla fine si sarebbe raggiunto un accordo con Mosca. Lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, alla fine dello scorso anno aveva incoraggiato informalmente gli europei a continuare i preparativi non prevedendo intoppi alla sostituzione dell’amministrazione dell’ONU con la missione di monitoraggio dell’Unione Europea. Poi le cose sono precipitate, e quella che doveva diventare la vetrina della politica estera europea si è trasformata in un inestricabile garbuglio diplomatico.
“Esistono due diverse interpretazioni della risoluzione 1244 che rimane, comunque, l’unica base legale per la presenza internazionale nella regione” - esordisce Joachim Ruecker, Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite in Kosovo, mentre ci accoglie nel quartiere generale dell’UNMIK. “Da una parte Stati Uniti ed Europa ritengono che la missione EULEX non abbia bisogno di una conferma da parte del Consiglio di Sicurezza in quanto già coperta, appunto, dalla risoluzione 1244. Dall’altra Russia e Serbia, con il tacito supporto della Cina, ne sostengono, invece, l’incompatibilità giuridica” conclude l’inviato, sottolineando come la sua organizzazione abbia scelto di rimanere neutrale.
Per le istituzioni europee si tratta di uno smacco terribile. Il primo vero test dell’azione esterna europea rischia di naufragare nell’illegalità sciupando quell’immagine di pilastro del diritto internazionale costruito faticosamente negli anni. E che siano proprio i russi a rimarcare l’incoerenza europea la dice lunga su come possono ribaltarsi le parti. Sta di fatto che, contrariamente a quanto si pensava, la missione dell’ONU non chiuderà, ma sarà affiancata da quella dell’Unione Europea in un guazzabuglio di sigle ed acronimi destinato a mettere a dura prova i non addetti ai lavori. Ci sono infatti UNMIK, EULEX, KFOR - la forza internazionale di mantenimento della pace a guida NATO incaricata della sicurezza – e l'ICO, l’ufficio civile internazionale appena insediato che costituisce l’autorità di supervisione più alta per quanto riguarda la messa in pratica degli accordi sottoscritti dalle autorità kosovare. I piani di Bruxelles prevedevano un periodo di quattro mesi per la piena operatività della missione europea. Contavano anche sulla cessione dei locali oggi occupati dalle Nazioni Unite. Gli intralci attuali stanno facendo sballare tutti i tempi ed, inoltre, occorrerà trovare una nuova sede.
Busto eretto, portamento fiero, abbigliamento a misura di muscoli da esibire con orgoglio, sguardo che fulmina, modi che denotano il passato militaresco: sono il biglietto da visita di Hasim Thaci, l’ex leader dell’UCK, la forza paramilitare albanese che si rivoltò contro il regime di Milosevic, divenuto primo ministro dopo le elezioni dello scorso anno. Ti guarda dritto negli occhi, mentre fa il punto della situazione. “Fino ad ora sono 40 i paesi che hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, ed altri seguiranno a breve” ci spiega. “Il nuovo stato si è dotato di istituzioni stabili e multi-etniche e di una costituzione che ha fatto propri i principi avanzati nel piano di pace proposto dal mediatore delle Nazioni Unite Ahtisaari rifiutato da Belgrado” continua deciso. “Il mio governo è impegnato ad applicare gli standard democratici ed a rafforzare lo stato di diritto battendosi contro il crimine organizzato e garantendo pieni diritti alla minoranza serba” afferma con enfasi.
Thaci si lamenta dell’inaspettata reazione violenta della comunità serba a Nord Mitrovica dopo la dichiarazione di indipendenza, ma confida nella possibilità di mantenere un canale di dialogo con le autorità di Belgrado per costruire buone relazioni di vicinato. Respinge, inoltre, le accuse dell’ex procuratore del Tribunale per i Crimini di Guerra nella ex Jugoslavia Carla Del Ponte in merito ad un presunto traffico di organi da parte della guerriglia kosovara, ma si dice pronto a nominare una commissione di inchiesta per fare luce sulla vicenda.
Polvere e traffico per le vie di Pristina. La merce nei negozi, esibita spesso in modo improvvisato, è tutta di importazione e priva di particolare interesse. Cerco un negozio di CD per recuperare qualche disco di artisti locali. Mi spiegano che non esistono ancora rock band in Kosovo e mi consigliano due gruppi locali di hip-hop, musica che non amo particolarmente ma che acquisto comunque. Sono oramai diventato un collezionista di world music. Con Michael Pergolani, l’antesignano dei deejay italiani protagonista di Radio RAI 1 nonché buon amico, si era pensato ad una finestra musicale sul mondo nel corso delle sue trasmissioni ma, per motivi di tempo, il progetto è ancora chiuso in un cassetto. Maturerà, forse, il giorno che smetterò di viaggiare.
Durante gli anni bui e duri del regime di Milosevic gli albanesi in Kosovo avevano dato vita ad una società parallela che boicottava le istituzioni di Belgrado. Scuole, elezioni, associazioni funzionavano in modo autonomo senza alcun contatto con le autorità serbe. Oggi che la situazione si è ribaltata sono i serbi a non riconoscere le nuove autorità kosovare ed a condurre una vita completamente separata dalla comunità albanese.
Il villaggio di Dobratin che visitiamo si trova nella punta meridionale dell’enclave di Gracanica, che conta circa 30.000 abitanti. Incontriamo i rappresentanti della locale comunità serba in un piccolo caffé scalcinato. Ci spiegano che le condizioni di vita sono ancora estremamente precarie. Malgrado il conflitto sia terminato da tempo e la nuova costituzione garantisca ampi diritti di autonomia e la piena libertà di movimento, per ragioni di sicurezza gli abitanti non si azzardano ad oltrepassare il confine etnico virtuale che li separa dai villaggi albanesi a qualche centinaio di metri di distanza. Una donna si fa avanti in lacrime raccontandoci di come dal 1999 non abbia più potuto far visita al cimitero, dove sono sepolti i propri familiari, che si trova un paio di chilometri più in là. Doris Pack, la capo-delegazione tedesca, decide di accompagnarla.
Tombe devastate e lapidi abbattute sono la scena cui ci troviamo di fronte mentre la donna si abbandona alla commozione. Cancellare la presenza dell’altro, ripulire il territorio dalle tracce ingombranti dell’etnia diversa è prassi comune nei Balcani. Rimane da sapere perché i soldati del contingente internazionale non abbiano ancora pensato a come aiutare le popolazioni locali a superare e risolvere ostacoli di questo tipo che toccano la vita di ogni giorno.
La nuova bandiera con la sagoma in giallo del nuovo stato sovrastata da sei stelle in campo azzurro fa ancora fatica ad imporsi a quella tradizionale albanese, rossa con l’aquila bicefala nera. Le bandiere americane a stelle e strisce, invece, sono dappertutto. Meno, molto meno, quelle europee.
“Non si può chiedere ai kosovari se preferiscono gli USA o l’Europa” commenta un ministro del governo di Pristina, “è come chiedere ad un bambino se vuole più bene al papà o alla mamma”. Come tutte le famiglie patriarcali, però, è sempre il padre a decidere ed è Washington che ha stabilito i tempi ed i modi dell’indipendenza del Kosovo. L’America è lontana, dall’altra parte dell’oceano. L’Europa è vicina, troppo vicina per far finta di niente.